Pietro Pensa raccontato dal figlio Carlo Maria

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Pietro Pensa

Carlo Maria Pensa, Pietro Pensa raccontato dal figlio Carlo Maria in Pietro Pensa, L'adda, il nostro fiume, volume III, edizioni cultura "il punto stampa", c-b-r-s. editrice Lecco, 1997, pp. 9-15.

Terzo figlio maschio, ho vissuto il rapporto con mio padre, negli anni dell'infanzia e dell'adolescenza, riflesso attraverso i miei fratelli: erano gli anni del grande suo impegno nel lavoro.

Ho alcuni ricordi di momenti vissuti da solo con lui che restano indelebili nella memoria. Quando, a quattro anni, mi portò per la prima volta sul campo di neve a mettere gli sci; lo ricordo chino sugli attacchi e poi a guardarmi nelle prime timide discese: l'orgoglio di sciare e la felicità di essere solo con mio padre lasciarono un segno. Al tempo del ginnasio, ho vivo nella memoria il ricordo delle mattine quando, accompagnandomi in macchina al liceo, leggevo i titoli del giornale e li commentavamo assieme. Quando divenne sindaco di Esino e saliva ogni sabato pomeriggio al paese, era un privilegio accompagnarlo lassù, vedere con lui i lavori delle nuove strade progredire e il paese trasformarsi rapidamente.

Scelsi di fare l'ingegnere come lui e, ancora giovanissimo, mi impegnai nella pubblica amministrazione come lui, coltivando, proprio come lui, l'amore per le nostre terre e per la loro gente. Poi ancora, come lui, divenni ufficiale degli alpini. Ma conoscevo poco mio padre, sempre teso alla realizzazione dei progetti che decideva di intraprendere, degli studi e degli scritti che amava, dedito al lavoro con ossessiva angoscia. Fu quando, laureato e trascorso il servizio militare, mio padre mi offrì, per fare esperienza, di trascorrere qualche mese nel suo ufficio di direttore tecnico della Massey Ferguson di Aprilia, che produceva trattori ed escavatori, che vissi con lui e che ebbi modo di conoscerlo e di amarlo per come era veramente.

Il racconto della sua nascita è sempre stato tra gli aneddoti di famiglia. Suo padre Giuseppe, professore e direttore didattico, aveva sposato Rita Fontana, di una antica famiglia comasca di setaioli trasferitasi a Milano, conosciuta in Val Menaggio dove insegnava; dopo le nozze, si erano stabiliti a Milano, dove nacque la prima figlia Massima nel 1905. Il distacco dal paese era stato duro per mio nonno Giuseppe: suo padre Pietro, partito studente come garibaldino della spedizione Medici, idealista e patriota, aveva abbandonato la brillante carriera di ingegnere nelle ferrovie e la fidanzata a Milano per tornare al paese obbedendo alle richieste di tutta la famiglia che vedeva la casata finire; divenne segretario comunale di Esino e maestro di Perledo; mandò però a studiare tutti i figli, vendendo le terre che perdevano sempre più valore ma che, per secoli, avevano dato alla famiglia la possibilità di vivere e di avere notai, sacerdoti e studiosi, spesso eletti a rappresentanti o sindaci del paese.

Il nonno Giuseppe aveva una ammirazione sconfinata per suo padre e il desiderio di un figlio maschio al quale trasmettere il nome Pietro; così, già dopo un anno, la nonna Rita attendeva un nuovo figlio: ma questa volta doveva nascere a Esino! Fu così che lei, cittadina e poco amante della montagna, salì il giorno del Corpus Domini con la slitta lungo la mulattiera che portava ad Esino. Giunta al paese però si dovette chiamare la levatrice perché, dopo tutti quegli scossoni, mio padre aveva deciso di venire al mondo: nacque mentre alla chiesa suonava la messa grande il 17 giugno 1906.

Mio padre parlava poco dell'infanzia e dell'adolescenza, vissuta con l'amore un poco possessivo della madre e il distacco di un padre rigoroso, dedito al lavoro ed alla cura del paese di cui fu sindaco per anni. Ricordava l'angoscia per la mancanza di notizie del padre ufficiale durante la grande guerra e l'assillo della madre per mandare avanti la famiglia.

Gli studi, avendo guadagnato un anno, li fece fino al ginnasio unitamente alla sorella e diceva che quasi fu stupore ritrovarsi bravo anche da solo quando scelsero indirizzi diversi.

Ricordo volentieri la ragione della sua scelta di diventare ingegnere, che sempre spiegava, raccontando di quando, ancora bambino, aveva visto sul battello che lo portava a Como le grandi macchine a vapore con gli stantuffi, le bielle e i meccanismi che comandavano le ruote per muovere la nave. Al Politecnico di Milano si laureò brillantemente con 110 e lode nell'allora nuovissima specialità di elettrotecnica, dove erano ammessi solo i migliori. Contemporaneamente all'ultimo anno di università frequentò la scuola militare e divenne ufficiale degli alpini. Grande sua passione sin da giovane fu la pittura alla quale si dedicò per tutta la vita ma che lo vide impegnato soprattutto negli anni della giovinezza.

Aveva conosciuto nel 1923, durante le vacanze estive che sempre trascorreva ad Esino, una giovane ragazza, amica della cugina, che era venuta lassù a scoprire le montagne lombarde; Yolanda Cerpelli era la prima figlia dell'ingegner Attilio, titolare della ditta Cerpelli di La Spezia produttrice di pompe e onorevole deputato liberale del parlamento italiano rappresentante della Liguria. Questa conoscenza segnò profondamente la vita di mio padre: sposò infatti Yolanda dopo nove anni di fidanzamento e la sua presenza in ben 65 anni di matrimonio sarà fondamentale supporto e stimolo alle tante sue attività. Si trasferì a La Spezia dove iniziò a lavorare nella ditta del suocero.

Divenne ben presto responsabile tecnico e seguì lo sviluppo delle applicazioni di pompe sulle navi e nelle miniere. Proprio per queste ultime applicazioni si recò in Russia più volte, trascorrendovi anche lunghi periodi e imparando a conoscere bene la realtà russa degli anni trenta, quando il potere di Stalin già sconvolgeva la grande nazione: i ricordi di quel periodo erano sovente oggetto di racconti; le abitudini ed i costumi diversi di quella gente, i rischi affrontati e il pericolo corso in fondo ad una miniera per aver denunciato sabotaggi nell'installazione degli impianti, la salvezza giunta grazie all'interprete, una donna di grande cultura che la rivoluzione aveva travolto; e poi, in viaggi successivi, lo sgomento di non ritrovare le persone precedentemente conosciute che le purghe di Stalin avevano fatto scomparire e che neanche più venivano ricordate, come se mai fossero esistite.»

Era nato intanto, nel giugno del 1934, il primo figlio Giovannimaria.

Mio padre ritornava sempre ad Esino per le vacanze e là si dedicava alla pittura: sono di quegli anni parecchi quadri di paesaggi dove si legge l'amore per le montagne, l'attaccamento al mondo contadino e la voglia di lasciare il segno di un modo di vivere che si andava trasformando. Tre xilografie, realizzate allora e che rappresentano la mietitura, la filatura e il rientro delle capre a Esino, sono particolarmente significative. Scrisse in quegli anni le leggende di Esino ed insieme al padre Giuseppe l'appendice riguardante Esino e la sua Valle della Guida illustrata della Valsassina del professor F. Magni.

Sempre negli anni trenta progettò la sistemazione delle baite del Moncodeno e ne curò la realizzazione; fu in quei giorni vissuti sulla Grigna, guardando il Pizzo, che volle tentarne la salita dalla grande parete ovest. Buon alpinista si fece accompagnare da un suo soldato di Esino, Carlo Mario Bertarini, e riuscì nell'impresa aprendo una via con passaggi di quinto grado su rocce particolarmente instabili. Sempre lassù volle esplorare la ghiacciaia del Moncodeno scendendo nel "sorel" che porta l'aria fredda nella grande grotta a formare le colonne di ghiaccio, un tempo utilizzate per rifornire gli alberghi del lago e di Milano di un allora prezioso elemento. Si fece tenere la corda dal capomastro che curava i lavori delle baite; una volta giunto sul fondo, raccontava di aver trovato una grande sala di ghiaccio e di essersi slegato per poterla esplorare: il capomastro, chiamatolo invano e trovata la corda libera, aveva abbandonato il luogo per andare a cercare aiuto; così era rimasto imprigionato nella sala di ghiaccio per parecchio tempo!

Alla fine degli anni trenta lasciò La Spezia e si trasferì a Milano, trovando impiego nella ditta Vender che produceva macchinari vari.

Un bando di concorso dell'esercito per l'acquisto di trattori, con cui dotare le nostre truppe, diede il via alla progettazione ed alla realizzazione del primo dei mezzi cingolati che divennero poi la specialità di mio padre ingegnere: progettò e realizzò tutto, dal motore ai cingoli, cercando di imparare da quanto era già sul mercato. Raccontava divertito che dopo la prova riuscita vittoriosa davanti a tutti i Generali dello Stato Maggiore, durata peraltro poche ore, al rientro in fabbrica la macchina si era "piantata" con tutti gli ingranaggi del cambio rotti: i trattamenti termici dei materiali erano ancora poco conosciuti e solo con notevole sforzo ed esperienza sul campo fu possibile ovviare agli inconvenienti.

Nell'aprile del 1938 era nato il secondo figlio Piermaria.

Allo scoppio della guerra mio padre che, con i vari richiami, era frattanto diventato capitano degli alpini, venne esonerato dall'essere mandato al fronte perché la produzione di trattori per l'esercito era ritenuta molto più importante.

Nell'ottobre del 1940 arrivai al mondo anch'io.

Gli anni della guerra furono vissuti a Milano: da via Londonio vi fu un trasferimento in corso Concordia e, quando i grandi bombardamenti degli alleati sconvolsero la città, mio padre portò la famiglia ad Esino. Fece bene perché la casa venne bombardata e crollò completamente, seppellendo molte delle cose a cui teneva. E' una delle impressioni più vive di bambino sentire il ricordo degli "oggetti andati con la casa" che io non avevo mai visti ma che immaginavo sempre come il meglio si potesse avere per quella nostalgia di altri momenti e di tempi di giovinezza che rappresentavano.

Nell'aprile del 1943 nacque mia sorella Albrizia. Diceva mio padre che rimase deluso dal vedere una bambina; e lo raccontava negli ultimi anni ringraziando il cielo per quella figlia che tanta cura ora si prendeva di lui. Le diede un nome unico preso dall'avo Albritius, primo dei Pensa documentati, che, notaio nel 1370, rogava gli atti ad Esino e a Varenna.

Gli anni della guerra furono duri con momenti drammatici ai tempi della Repubblica Sociale: dovette recarsi più volte in Germania per via del suo lavoro come tecnico e come ostaggio, e venne a trovarsi in volo sulle Alpi coinvolto in scontri tra le aviazioni in lotta e sotto i bombardamenti di Francoforte; di quella città sconvolta ricordava la scritta letta su di un muro "Humor ist wenn man trotzdem lacht" che traduceva con humor è... eppur ciononostante ridi.

Durante quel periodo particolarmente angoscioso, cercò sempre di proteggere la gente a lui affidata e riuscì, con un po' di fortuna come diceva lui, a mantenere la dignità anche quando i momenti furono di estrema tensione sia con i tedeschi che con i partigiani. Raccontava che in quegli anni, durante i trasferimenti ed i viaggi ad Esino, aveva immaginato la trama di quello che fu il suo primo libro L'Ambrosino d'oro: un romanzo ambientato nelle nostre valli al tempo della repubblica ambrosiana del 1447 dove molte similitudini con i tempi attuali gli avevano suggerito situazioni e personaggi. L'amore per la storia, i documenti di famiglia degli antichi notai di quei tempi e l'attenta osservazione della realtà avevano costituito la base di questo suo primo lavoro.

Ricordo bene la mattina, ed era ancora buio, quando tornò a casa prima di recarsi al lavoro, con il libro stampato, e venne a svegliarci, felice, per farcelo vedere. Il libro con la prefazione di Emilio Guicciardi ebbe lusinghiere critiche ma poca diffusione per via di un editore scarsamente presente sul mercato.

Gli anni del dopoguerra furono di grande impegno nel lavoro: la Vender cresceva ed erano sempre nuove macchine a portare in Italia e nel mondo le invenzioni, spesso coperte da brevetti, di mio padre; costruì il trattore cingolato più grande e più potente mai realizzato sino ad allora, i cui esemplari vennero mandati in Africa ed in Australia a dissodare terreni e foreste vergini. Seguendo le macchine, mio padre ebbe occasione di girare il mondo e riportava immagini ed impressioni che trasmetteva a noi nelle lunghe relazioni che faceva a mia madre di quei viaggi; era d'altra parte un'abitudine quella di sfogarsi raccontando, al rientro tardi la sera, tutto quello che era, successo nella giornata di lavoro. Così per noi figli diventavano familiari i suoi collaboratori, spesso nemmeno conosciuti, che sempre dimostravano affetto e riconoscenza per quel che da lui imparavano e per il suo modo di interessarsi a loro.

Nel 1956 gli venne chiesto con insistenza di occuparsi del comune di Esino Lario e si decise solo quando il nonno Giuseppe lo incoraggiò dicendogli che se non avesse accettato si sarebbe dovuto ripresentare lui. Venne eletto e si diede subito a progettare le grandi infrastrutture che dovevano cambiare il volto del paese. L'antica tradizione di paese di villeggiatura che aveva visto all'inizio del secolo nascere alberghi e ville si era andata trasformando con la costruzione di case da affittare, ma la strada non asfaltata e la mancanza di sfoghi e di divertimenti costringeva e soffocava la gente nel paese limitando le occasioni di sviluppo.

Con i trattori di nuova progettazione, che mandava gratuitamente a collaudare, aprì le strade di Ortanella e di Cainallo, utilizzando insieme quei cantieri di lavoro che generalmente servivano più di nome che di fatto e davano alle popolazioni di montagna un minimo vitale durante gli inverni. Riuscì a sfruttare gli stanziamenti di molte leggi, inutilizzabili per la maggior parte dei Comuni per via di quella parte di finanziamento a carico del Comune stesso, e che invece il lavoro gratuito dei trattori a Esino copriva abbondantemente. Per vent'anni fu sindaco apprezzato ed amato del paese, che riuscì a trasformare ed a dotare di tutte le infrastrutture più moderne: acquedotti, stazioni di pompaggio, uno dei primi depuratori della zona, scuola elementare, cinema, porfidatura, parcheggi, strade e loro asfaltatura, oltre naturalmente al grande collegamento viario con la Valsassina.

Si era buttato quasi per gioco lanciando la sfida in occasione di una assemblea del BIM (Bacini Imbriferi Montani) affinché, invece dei soliti piccoli contributi a pioggia, venisse realizzata un'opera di interesse comunitario, per esempio il collegamento tra Valsassina e Val d'Esino; fu preso in parola e con quei primi cinque milioni iniziò un lavoro impensabile da farsi con cantieri di lavoro, contributi della forestale, trattori da collaudare e... tanto entusiasmo. Partecipai attivamente a quell'opera anch'io, studente universitario, tracciando la strada e curando la direzione dei lavori. Ricordo come il capocantiere Antonio Viglienghi, prezioso collaboratore, quando i roccioni da passare incutevano soggezione, dicesse a mio padre che un conto era vederli così e un conto arrivare col piano della strada, pulendo tutto attorno ed affrontando il difficile poco alla volta: antica saggezza del montanaro che mai si faceva scoraggiare dalle difficoltà della vita ma che sapeva con tenacia superare gli ostacoli.

Il grande acquedotto che dalla Valsassina porta l'acqua ad Esino fu l'ultimo impegno che motivò mio padre a ripresentarsi per la quarta volta; fu opera importantissima per la sopravvivenza del paese stesso.

Quando mio fratello divenne ingegnere lo incoraggiò ad iniziare una attività in proprio ad Esino in modo da creare, pur con tutte le difficoltà logistiche, posti di lavoro che contrastassero l'esodo dal paese.

L'impegno amministrativo assorbì moltissimo mio padre. Non volle mai prendere tessera di partito, anche a costo di rinunciare alla candidatura a parlamentare che gli era stata offerta: diceva che la gente di montagna voleva sentirsi libera da condizionamenti di sorta, pur con una ben precisa visione del mondo; per quella sua grande passione nel vedere realizzate opere senza alcun interesse personale ma solo per il bene del suo paese, sapeva accattivarsi la simpatia e l'amicizia di tutti e venne insignito della Commenda al merito della Repubblica.

Divenne presidente del Consiglio di Valle della Valsassina che anticipava con un organismo volontario le future Comunità Montane; realizzò la Prealpina Orobica, il collegamento intervallivo con la Bergamasca, un sogno valsassinese irrealizzato da tanti anni. Fu poi chiamato a far parte della commissione regionale per la stesura della legge sulle Comunità Montane e, alla loro costituzione, divenne il primo presidente della Comunità Montana della Valsassina, Valvarrone, Val d'Esino e Riviera dove diede il via alla nuova Ballabio-Lecco ed al collegamento tra Vendrogno e Taceno.

A seguito dei contatti avuti con la popolazione e l'amministrazione di Parlasco nella realizzazione della Esino-Valsassina, mi era stato chiesto di entrare nell'Amministrazione di quel paese e, dal 1965, per venticinque anni fui amministratore e feci parte della Comunità Montana; vissi quindi esperienze parallele o congiunte con mio padre che me lo fecero ben apprezzare come uomo pubblico: era molto concreto ed aveva rara capacità di sintesi, di chiarezza e di lungimiranza per le esigenze future delle nostre zone.

La Vender era stata frattanto ceduta all'Allis americana e l'importanza dell'ufficio tecnico di Cusano andava scemando. Con saggia preveggenza, mio padre studiò, disegnò e realizzò in proprio un trattore con caratteristiche innovative che gli servì, quando il rapporto con l'Allis venne a mancare, per nuovi contatti di lavoro: divenne direttore tecnico della Massey Ferguson nel nuovo stabilimento di Aprilia dove si dovevano costruire pale ed escavatori. Creò dal nulla l'ufficio tecnico portando laggiù i suoi migliori collaboratori di un tempo e realizzando tutta una gamma di macchine nuove con un impegno davvero straordinario.

Fu in quel suo ufficio che iniziai a lavorare: aveva messo per me un tavolo da disegno e mi offrì la rara opportunità di ascoltare, vedere e conoscere dal vivo la vita, le persone, i problemi, gli intrighi di una grande impresa multinazionale, facendomi fare in pochi mesi un'esperienza unica. Mi affidò lo studio delle trasmissioni idrostatiche, che rappresentavano il futuro nelle macchine per il movimento di terra: trovai soluzioni molto interessanti per automatizzare il sistema, che vennero brevettate, ed in breve iniziai un rapporto di consulenza che mi permise di mantenere i contatti ai massimi livelli con la Massey Ferguson. Vivevamo a Nettuno in un appartamento sul mare e ricordo con nostalgia quel periodo: scoprivo mio padre ogni giorno, le tante affinità che ci univano e le pure tante diversità nel modo di guardare il mondo e le persone.

Poi mio padre andò in pensione, lasciò la direzione tecnica e andammo, da consulenti, nello stabilimento di Como, per progettare e per sviluppare i nuovi trattori idrostatici. Lui si occupava della progettazione delle macchine ed io delle trasmissioni: ricordo con gratitudine la completa fiducia che riponeva in me, salvo decidere lui, se la soluzione era quella giusta, che non dovevo cercare di migliorarla ancora e che era il momento di realizzare il prototipo. Volle che fossi io ad andare in America a presentare le macchine e poi ad intervenire quando ci fu battaglia contro chi sosteneva, in alternativa alle nostre proposte italiane, il made in USA. Fu una esperienza interessantissima che finì quando la Massey Ferguson, per ragioni commerciali, decise di cedere la produzione delle macchine movimento terra e dismise gli stabilimenti italiani. Mio padre lasciò allora l'impegno di lavoro e si dedicò esclusivamente alla grande passione dello scrivere che non aveva peraltro mai abbandonato.

Aveva infatti pubblicato nel 1960 il primo libro di storia locale L'assedio del Medeghino in Lecco e collaborava a varie riviste quali "Pagine di vita lecchese", "La Martinella di Milano", "Economia Lariana", il "Periodico della Società Storica Comense" e varie altre su temi che interessavano le fortificazioni, le vie di comunicazione, la toponomastica, la geologia, i rapporti tra Como e Milano, le vicende legate al ferro ed al suo utilizzo. Scrisse i due capitoli riguardanti Il castello di Lecco e Il ponte sull'Adda nel secondo volume dell'Antologia Larius diretta da Pietro Gini.

Nel 1973, con la collaborazione della moglie Yolanda, pubblicò Manzoni nostro - Rivendichiamo il Manzoni ai Manzoni; nel 1977 Il ferro della Valsassina e del Lecchese.

Un grosso lavoro di ricerca sulle famiglie del Lecchese e della Valsassina portò alla stesura del volume Le antiche famiglie nobili e notabili del Lario orientale e fu origine di una indagine approfondita della storia della famiglia Pensa che potè essere seguita e documentata sino al 1300 nelle sue vicende riguardanti Esino e Aosta.

Nel marzo del 1979 iniziò, con il primo volume Il Territorio, la serie intitolata Introduzione al Lario, promossa dalla Comunità Montana per far conoscere e per divulgare nelle scuole la geologia, la storia, il folclore e la cultura del territorio. Gli scritti si arricchirono ed alla fine, invece di tanti volumetti, vide la luce, Noi gente del Lario, opera fondamentale per la conoscenza del lago di Como in tutti i suoi aspetti. Sono le pagine più belle scritte da mio padre, soprattutto nella parte che viene oggi riproposta in questo terzo volume di L'Adda, il nostro fiume; le pagine che contengono l'amore per la gente della montagna, per la vita dura ma libera che caratterizzava l'andare delle stagioni, per i luoghi ben noti che sono casa e piccola patria.

Nel 1984 uscì La strada del Viandante, una vicenda romanzata sulla montagna al tempo di San Carlo: un libro questo cui teneva molto e che da tanto aveva scritto e rimodificato; innegabili le affinità col modo suo di vedere la vita.

Poi da ultimo vennero i due volumi di L'Adda, il nostro fiume che lo tennero impegnato per diversi anni e certo non furono per lui cosa da poco. Sviluppò e completò il lavoro già iniziato con gli altri suoi scritti, ampliandolo all'intero bacino dell'Adda.

Veniva a trascorrere con mia madre estate e autunno nella casa sul lago dove mi ero trasferito nel 1978, con una presenza preziosa per tutti noi. Fino all'ultimo faceva la passeggiata quotidiana e poi trascorreva ore davanti a scritti e libri. Quando poi facevamo qualche giro di maggior impegno nelle nostre valli o a rivedere le strade che aveva realizzate, la felicità era evidente: gli dicevo sempre che i suoi trattori erano ormai ferri arrugginiti, che nessuno più sapeva chi aveva realizzato quelle strade ma che invece i suoi libri, con le storie delle nostre terre e della nostra gente, sarebbero rimasti per sempre a ricordarlo. Sorrideva.

[...] Restino dunque, a memoria di Pietro Pensa, questi suoi scritti che documentano con tanto amore e con tanta vita il mondo di ieri ormai scomparso che ha dato alla nostra gente il temperamento e le caratteristiche di ingegno, di operosità e di iniziativa che la distingue e che rende questo nostro territorio, particolarmente bello per le sue montagne e per il suo lago, luogo privilegiato dove vivere.