Si giocava con la trottola sui gradini della parrocchia
Articolo pubblicato da Pietro Pensa in L'Ordine, 10.8.1979
Leggo su un vecchio diario di fine 1800, a proposito della nostra gente di allora: «Calmi, pacìfici, senza alcuna nervosità, il loro divertimento era scherzare e farsene una più bella dell'altra a vicenda, poi ridere. Nelle sere d'inverno, mentre le donne filavano attorno al lumicino, gli uomini, dietro, sdraiati sullo strame, stavano a chiacchierare, studiando solo come potessero farsene una qualcuna onde passare il tempo più giovialmente possibile»
Li ricordo così pur io, sereni e distesi, i vecchi della mia fanciullezza, quando giungendo dalla città, mi sentivo accarezzare dal loro sguardo bonario. Incattivivano solo allorché si trattava di confini non rispettati, vuoi tra proprietà private, vuoi con i paesi vicini. E allora capitava pure che uscisse di tasca il curlascin!
I giochi erano semplici, ma fatti con gusto. Per noi ragazzi vi erano gli ingegnosi balocchi ricavati dal legno di sambuco e di corniolo, con un grosso midollo facilmente estraibile così da fungere da tubo il primo, durissimo il secondo e quindi atto a servire da propulsore.
Lo Spisaracc era una lunga siringa o pompa a pistone con guarnizione di stoppa che spingeva l'acqua attraverso un ugelletto cavato in un tappo di noce, in violento getto. E le povere donne cariche di fieno erano il bersaglio preferito. Lo sciopett, a proiettilini di stoppa insalivata e compressa, era poi la nostra delizia nelle gare a chi ottenesse, riuscendo a comprimere maggiormente l'aria del fuciletto primitivo, i colpi più sonori. Sempre dal sambuco si ricavavano poi, bellissimi zufoli a più note, con i quali si riusciva a cavare intonate melodie, anche a tre voci.
Abbastanza popolare era l'arco, costruito con ramelli di frassino e corda di canape; comparso invece molto tardi, per importazione cittadina, il tirasassi con elastico di gomma. A prendere lucertole, ramarri, e, sulle rive un po' paludose, le anguille, ci si ingegnava con lacci scorsoi di fili di erbe; e in tal pratica si era abilissimi.
Nell'inverno pensava la neve a divertirci; giù per le stradette ripide dei paesi, dopo la scuola, era un corso solo di ragazzi d'ogni età che si buttavano, quasi sempre in coppia, sui loro barozz bassi bassi, dai longheroni ricurvi uniti con assette chiodate. A volte capitavano paurosi grovigli e non era raro il caso che una povera vecchietta ruzzolasse per colpa nostra. Quando la strada diventava troppo ghiacciata, a guastare il gioco giungevano le donne e buttavano cenere; sloggiati, si andava a cercare un'altra pista. Nessun accenno a sci, naturalmente; quando, in un paese vallivo, un alpino tornò dalla prima guerra e si portò con sé un paio di sci austriaci, si tentò di imitarlo con due dole da botte, ma fu un fallimento.
Si doveva giungere a dopo la seconda guerra mondiale perché i nostri ragazzi potessero, grazie all'aumentato benessere comperare i loro bravi sci che oggi consentono loro di rimontare il distacco agonistico che li aveva ingiustamente staccati dai cittadini.
Quanto ai giochi comuni, il rincorrersi, il fare a mosca cieca, e così via, con le relative filastrocche più o meno adattate ai dialetti locali, e per bambine e per bambini, debbo dire che appartenevano, così come ancora appartengono al folclore generico lombardo.
Locale, lungo le rive, era invece il divertirsi a petul consistente nello scegliere sassi piatti, gettati a pelo dell'acqua e contando i rimbalzi; gioco comune ad ogni lago, in tutto il mondo. Come pure i giochi con sassi chiari e scuri. Le bambine, poverette, vestivano bambolette fatte con un legno sgrossato e, talora, addirittura con un sasso naturalmente sagomato! Si era molto abili a costruire trottole ben equilibrate, di legno duro, e si amava giocare col pirlo sulle scalinate delle chiese riuscendo persino a far scendere il giocattolo da un gradino all'altro. Ma, in proposito, voglio raccontare una storia, gustosa all'esordio, triste nell'epilogo, che più di tante considerazioni illustra lo spirito dei ragazzi della nostra terra che prendevano sul serio i giochi così come avrebbero poi affrontato la vita, fattosi adulti. Mi accadde, allorché la rievoco, di domandarmi se quello spirito è rimasto ancora nei nostri giovani, che ormai non crescono più al duro insegnamento della natura. Tanti piccoli confortanti segni mi danno certezza però, che la razza dei nostri vecchi non si sia spenta ancora.
Un reduce della prima guerra dunque, mise al mondo un figlio, e, già che iniziava a perdersi proprio allora la consuetudine di levà il nome del nonno, lo chiamò con l'inconsueto nome di Alfredo. Era un bimbetto piuttosto stento, magrolino, con due occhi grandi pieni di luce. Il parroco, vistolo sveglio e intelligente, lo scelse con un altro a fargli il chierichetto. Una mattina, era primavera, entrato in sacrestia, il prete non si trovò come al solito, i due ragazzi. Nell'attesa, si vestì da solo, con cotta e pianeta; ma quelli non arrivarono. Impazientito, si affacciò al passaggio verso l'altare: le donne gli fecero cenno che i chierichetti erano fuori a giocare; lui, allora, parato com'era, attraversò la chiesa e uscì sul sagrato. I ragazzi, seduti sull'ultimo scalino della gradinata, erano intenti a giocare alla trottola. Tanto era il fervore che non si accorsero del parroco. Quello venne loro alle spalle, con un movimento rapido afferrò il balocco, se lo mise nella tasca della veste e con un gesto imperioso avviò i due alla sacrestia. La messa cominciò finalmente e proseguì senza incidenti sino all'offertorio. Giunti qui, il sacerdote sì volse col calice al chierichetto: Alfredo teneva l'ampolla nella mano, ma non versava il vino.
«Scià ol vin!» lo incitò il prete sottovoce. Quello di rimando: «Scià ol pirlo!». Interdetto, il parroco ripeté spazientito: «Scià ol vin, Alfredo!». E il ragazzo ancora: «Scià ol pirlo!». Il parroco comprese che non vi era nulla da fare, si rigirò sul fianco perché le donne non vedessero, trasse di tasca il giocattolo, che passo a quella di Alfredo. La messa proseguì.
Quando fu il momento della leva, Alfredo venne riformato per deficienza toracica. Ma scoppiata la seconda guerra, richiamato, fatto abile e per di più avviato in Russia come alpino nell'Armir. Dopo la ritirata, per un gran tempo non si seppe nulla di lui e nulla degli altri che erano insieme a Gorlowca. Poi, un bel giorno, nella tarda primavera, Alfredo comparve: era macilento e patito, zoppicava da un piede semicongelato ed aveva una mano inservibile. Raccontò che lo avevano fatto prigioniero, che lo avevamo chiuso con gli altri in una gran tenda; che lui di notte era fuggito, contro il parere degli altri del paese, che poi aveva camminato e camminato tanto, che aveva approfittato di ogni mezzo, con una sola idea in testa: di tornare a casa.
Degli altri non si seppe mai più nulla; lui venne curato, accennò a migliorare, prese anche moglie ma morì qualche anno dopo, tanto il suo fisico era distrutto: morì, però, al suo paese.