La peste del 1630

Centro di documentazione e informazione dell'Ecomuseo delle Grigne

Articolo di Pietro Pensa in Broletto, n. 4 (1985), pp. 64-73.


Mi è accaduto sovente di chiedermi se il ricordo della peste del 1630 sarebbe ancora così vivo e popolare senza la descrizione che ne fece il Manzoni nel suo libro, oggi un po' abbandonato dai giovani, ma pure sempre il nostro romanzo tradizionale. Certamente no, mi sono sempre risposto, anche se la presenza di cappelle e di chiesette costruite allora e dedicate a San Rocco, la comparsa non infrequente, mentre di scavano fondamenta, di resti umani che la gente attribuisce subito a quel tempo maledetto, siano testimonianze immediate e ricorrenti. E, pure, la descrizione del nostro grande non eccede mai la verità: egli ne trasse gli estremi dalla relazione del medico collegiato Tadino, dallo storico Ripamonti e da alcune lettere di un altro nostro grande conterraneo, Nicolò Boldoni di Bellano, morto poi del male; nulla di suo aggiunse, se non l'efficacia della esposizione. Una decina di anni or sono fu eseguita accurata indagine sull'avvenimento nelle parrocchie valsassinesi e venne alla luce un prezioso volumetto, nel quale con chiarezza e con sobrietà sono seguiti gli sviluppi della tragica vicenda nel territorio percorso dai Lanzichenecchi. Le scarne registrazioni delle morti, le improvvise interruzioni per la scomparsa dei sacerdoti sono rivelazioni agghiaccianti di una realtà paurosa, superiore ad ogni immaginazione letteraria. La povertà dì notizie, tuttavia, dovuta all'impossibilità di annotarle nella bufera che travolse ogni strato sociale, mi ha suggerito l'idea di consultare, per tentare di completarle, i rogiti notarili di allora. Mi è stato possibile, così, di colmare non poche lacune che avevano reso frammentaria sinora la storia documentata della peste manzoniana e di poterle affiancare, per di più, il racconto di una vicenda simile a quella della «Colonna infame», ma più viva e sconvolgente, perché pone in luce come la malvagità umana abbia saputo essere in ogni tempo più tremenda della durezza degli eventi di fato e di natura.

La carestia - Il passaggio dei Lanzichenecchi

Sul finire dell'anno 1629 il notaio Antonio Arrigoni di Cremeno interrompeva la sua rubrica, ossia l'indice degli atti da lui rogati, per annotare quanto era accaduto in occasione della calata dei Lanzichenecchi, truppe mercenarie di passaggio in Lombardia per recarsi a combattere nella guerra di successione al ducato di Mantova. Trascrivo il testo, limitandomi a qualche rettifica di ortografia per renderne più facile la comprensione: Nel qual anno 1629, all'inizio del mese di settembre, diede principio a passare per Valsassina un esercito di quarantacinquemila Alemanni, compresi diecimila cavalieri, al comando del principe di Collalto, per andare nel Mantovano contro il duca di Ninversa (Carlo di Nevers) sì che hanno dato grandissimi danni alle terre della valle, essendo prima alloggiate a Cortenova, Cortabbio, Barcone, Pasturo e Baiedo; duemila hanno alloggiato a Barzio e a Cremeno e anche a Cassina e a Moggio; a Cremeno alloggiarono una compagnia di fanteria in numero di 200 uomini e la seconda volta una compagnia di cavalleria in numero di 100 e diedero grandissimo danno e se non si fossero nascoste e conservate le robe nelle chiese avrebbero rubato tutto come hanno fatto in diverse terre sopra nominate; hanno rovinato molte case conducendo con sé tutte le bestie che trovavano; passarono anche da Ballabio e dal territorio di Lecco dove rovinarono tutto, dando il guasto alle vigne. Il quale passaggio è durato circa tre mesi. Si è ricorso a Milano per avere qualche risarcimento senza ottenere nulla, avendo la valle da molti anni a questa parte dovuto sopportare molti alloggiamenti di soldati per la guerra di Vercelli, per gli assedi di Verona e di Casate e per la Valtellina e avendo dovuto sopportare spese per la manutenzione di cavalleria alla riva di Varenna. Più travaglio, però, ha recato questo passaggio di Alemanni, avendo esso portato il contagio nella valle e nel territorio di Lecco. Le terre infette sono Cortenova, Prato San Pietro, Margno, Premana, Barcone, Barzio, Moggio e Concenedo, essendosi verificato qualche caso in altre terre, ma il male non è andato avanti. L'istesso male è a Bellano e in molte terre del lago di Como. In alcune terre sono morti quasi tutti, come in Ballabio, Chiuso, Volate, Maggianico, Bonacina e Malgrate. A Cremeno per grazia di Dio e dei santi Rocco e Sebastiano sinora siamo preservati e si è fatto voto solenne da me rogato il 25 novembre 1629. Questa descrizione, efficace nella sua schematicità, riassume l'avvenimento centrale su cui il Manzoni intesse il suo romanzo. Ritengo opportuno ricordare i precedenti. Nel 1628 una funesta carestia si abbatté sulle valli del Lario; i prezzi andarono alle stelle: la segale raggiunse le 48 lire terzuole al moggio. Lasciò scritto un contemporaneo valsassinese: Qui sono ridotti a tanta miseria et calamità che è una compassione vederli, et il loro comune cibo è solo che erbe selvatiche, di modo che si vedono per li prati come greggi le povere donne a cogliere ogni sorta d'esse herbe, et quali cotte et la maggior parte senz'altro condimento scacciano avidamente l'insopportabile fame. Ma Iddio ancor più penoso voleva rendere suo castigo; quindi avreste veduto madri, fanciulli et vecchi sdraiati per le piazze e per le vie mandar dì e notte lunghi e fiochi lamenti, quindi altri macilenti con occhi infossati e braccia disseccate vagolar per le case e per i crocicchi domandando con che prolungar la vita, quindi altri trascinarsi alla pianura e alla città ma lungo il cammino o giunti in città cader di fame estinti. Il Manzoni riecheggiò la situazione disperata della gente di campagna nelle pagine che descrivono la carestia in Milano, dove pure il cardinale Federico Borromeo, sulla scia di San Carlo, faceva distribuire minestra di riso ai poveri che si presentavano in vescovado. Alberto di Wallenstein, audace nobile militare boemo, che a sue aveva armato un esercito di Lanzichenecchi al servizio dell'imperatore, nel successivo 1629 inviava in Italia ventottomila fanti e settemila cavalieri al comando del suo luogotenente, l'italiano conte Rambaldo di Collalto, per intervenire nella lotta per la successione al ducato di Mantova, questione di importanza marginale ma sulla quale nuovamente si accentrava il tradizionale contrasto tra Francia e Spagna. Valutati diversi itinerari per raggiungere da Coira il Mantovano, anche grazie all'abile intervento dell'oratore Gaggio presso il nuovo governatore spagnuolo Ambrogio Spinola, che evitò il passaggio via acqua da Como, si decise di seguire la terraferma ad oriente del Lario e quindi di proseguire lungo l'Adda verso Mantova. Mentre il Collalto passava da Como per recarsi ad un abboccamento con lo Spinola in Milano concordare con lui il percorso e le tappe, l'esercito, che nei Grigioni già si era infettato di peste, precorreva i tempi e con l'avanguardia comandata dal conte di Merode il 9 settembre 1629 investiva Colico per piombare su Bellano ed entrare in Valsassina. Gli alloggiamenti durante il transito, che durò sino al 3 ottobre, avvennero nei paesi del fondo Valle, della Muggiasca, della Val Casargo, dell'altipiano di Barzio e di Cremeno, dell'anfiteatro del Gerenzone e del Caldone sino a Barro e a Malgrate. Precisato che si trattava non di truppe nemiche, occorre ricordare che i paesi a cui venivano assegnati gli alloggiamenti avevano obbligo di rifornirle, e ciò tanto più che il raccolto del 1629 era stato nuovamente positivo. E' d'altra parte noto che le truppe mercenarie, dovunque passassero, terre amiche o nemiche, razziavano, saccheggiavano, stupravano donne, incendiavano e andavano oltre. Il Tadino, dopo avere esaltato la ricchezza della Valsassina, ricca di acque deliziose dall'aspre rupi dei scoscesi monti, tutto l'anno carichi di copiosa neve, dalle cui oscure caverne veggonsi ben spesso uscire orsi lupi camosci ed altre fiere, dopo aver esaltato la bontà della gente cortese e di grande pietà dotata, verso il culto divino molto devota, scrisse: La strage che fu fatta in questa valle non è a dirsi non che da considerare: quei poveri e sventurati paesani per tanti anni non avendo mai visto soldatesche così indomite che, oltre tant'altri enormi eccessi, ad altro non attendevano che a depredar ad abbrugiar le case alla partenza, si resero talmente preda dello spavento che tutti corsero alla sommità dei monti lasciando spoglie e beni nelle loro mani. Da alcune lettere scritte in forbito latino da quel grande letterato che fu Sigismondo Boldoni di Bellano, epistolae certamente conosciute e utilizzate dal Manzoni, è descritto l'accentrarsi delle truppe in Bellano, dove ferocemente devastarono - hostiliter deripuerunt - le case, svellendo porte, bruciando ogni legno, rubando gli oggetti di rame, sfogando la loro rabbia su quei pochi che ancor incontravano con percosse, ferite, stupri - pro pretio verbera, vulnera, stupra. Come era avvenuto a Colico, così accadde lungo tutto il percorso per la Valtellina nei paesi dove presero alloggio. La peste Passati oltre i Lanzichenecchi abbandonando cadaveri sulle strade, da quelli si diffuse il morbo. Lascerà poi scritto nella sua rubrica il notaio Baldo Cattaneo di Primaluna: Fummo visitati con li tre maggiori flagelli che suole mandare Domine Iddio per correzione de' peccatori, cioè Guerra, Carestia, Moria; la qual peste apportò tante vittime. Mentre, avute le prime notizie di morti a Milano, forse su pressione di mercanti preoccupati che disposizioni d'emergenza fermassero i traffici, si discuteva al Tribunale della Sanità se si trattasse veramente di peste, il contagio andava prendendo quel terribile corso che fece scrivere al notaio citato, in testa alle pagine delle sue filze, in un agghiacciante crescendo, queste terribili frasi: Tempore pestis - Peste laborante - Peste seviente - Peste peste seviente concludendo di colpo, sul finire del 1630, con: Peste cessante. Tra i morti fu Sigismondo Boldoni che, dopo una brevissima puntata in barca a Bellagio, per consegnare ai frati di San Francesco il manoscritto di un poema, ritornato a Bellano, avuto un deliquio premonitore in presenza di un capitano italiano che aveva preso a proteggerlo, ebbe la forza di scrivere, riferendo la domanda di un luogotenente del Merode qual fosse una pianta verdeggiante con nere coccole nel suo giardino: Oh l'uom barbaro, neppure l'allor conosce! Povere Muse, poveri versi: qual rovina vi preparan costoro che non conoscon la vostra sacra fronda?! Quest'angolo di terra sarà l'inizio delle disgrazie d'Italia? All'infittirsi dei decessi, resosi finalmente conto che in effetti non poteva non trattarsi di peste, il Tribunale della Sanità di Milano, in seguito a conferma avuta dal protofisico Settala, incaricava due medici collegiati, Alessandro Tadino e Giovanni Visconti, di visitare ville castelli e porti dei Lario, della Valsassina e del Monte Brianza, dove avevano transitato i Lanzichenecchi. Mentre i due alla fine di ottobre partivano, tre grida intimavano di chiudere gli ingressi delle località infette, di porvi delle guardie, di consegnare ogni panno avuto dai soldati alemanni nel barattare del cibo. I visitatori raggiunsero Colico, la trovarono desolata dal pestifero contagio, tanto che lontano mezzo miglio si sentivano li fetori insopportabili, e incontrarono il parroco con la faccia molto cadaverosa. Passarono poi a Gera Lario, pure infetta, quindi, dopo essersi spostati a Galbiate perché più vicina a Milano, e aver toccato Bellagio trovandola terra sana vigilata dal conte della Riviera Sfrondrati, raggiunsero Bellano. Qui, ed erano i primi di novembre, il Tadino e il Visconti trovarono che l'infelice terra era stata assalita dal contagio con morte di persone al numero di 59 et ogni giorno se ne muoiono tre o quattro, oppressi da bubboni et carboni negri sotto la cavità del braccio et spalla et nelle anguinaglie. I preti, ben diversamente da quanto era accaduto durante la peste di San Carlo, si prodigavano, amministrando diligentemente i Sacramente agli infetti. Gli inviati della Sanità, incaricato Benedetto Curto, persona fedele, di recarsi nei villaggi più alti a cui conducevano sentieri impervi, entrarono in Valsassina e visitarono i paesi della valle: in alcuni il morbo dilagava, altri ne erano ancora immuni; un simile stato di cose si sarebbe protratto sino alla primavera dell'anno successivo, quando la peste esplose ovunque. Probabilmente all'imperversare del contagio contribuì la debolezza della gente che, rapinata dai Lanzi del buon raccolto del 1629, viveva con quel poco che il Tribunale della Sanità, facendoselo pagare, inviava da Lecco. Da qui un succinto quadro dello sviluppo della peste. Taceno venne indicata dal Tadino al 15 novembre 1629 come terra sana. Vi era parroco Viviano Gussalli, buon letterato. Il male divampò nell'estate del 1630 e tra i primi morti fu proprio quel sacerdote, che testò nel luglio a favore dei poveri. Venne a sostituirlo, in premio di aver coadiuvato tutto il tempo della peste a Bellano, don Cameroni, il quale lasciò scritto che a Taceno si erano seppelliti ogni giorno tre o quattro morti di contagio. A Margno, invece, la peste era giunta già nell'ottobre 1629, portatavi da uno che commerciava con Bellano. Anche a Casargo giunse il male in quell'autunno, ma infierì nel 1630: ne è testimonianza la chiesetta di Santa Croce, minuscolo tempio detto la chiesa dei morti, benedetta nell'ottobre di quell'anno, nella quale vennero raccolti i resti dei defunti per contagio. Premana era stata esclusa, per la sua posizione eccentrica, dagli alloggiamenti per i Lanzichenecchi. Ciò non toglie che già alla fine del 1629 la peste giungesse lassù, portatavi da una donna preveniente da Margno con le vesti della sorella, ivi morta. All'inizio del 1630 il beneficio della parrocchiale di San Dionisio si rese vacante. La chiesa era stata chiusa, inchiodando la porta, perché le esalazioni e il fetore che venivano dai troppi cadaveri sepoltivi rappresentavano un tremendo pericolo di contagio.

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