La «mica»

Centro di documentazione e informazione dell'Ecomuseo delle Grigne

Pietro Pensa, La «mica» in Como Romantica, 1976, pp. 143-145.

Quando sali lassù, in questi giorni scolorati che già preannunciano l'inverno, e vedi la poca gente muoversi quasi con soggezione tra le case ingentilite, lungo le strade troppo larghe, adattate come sono alle folle dei villeggianti, o la sera ti attardi nei vicoli del paese vecchio, ben porfidati e pure ancora pittoreschi nel chiaroscuro della ricca illuminazione, ti rendi conto di quanto è mutato in cinquantanni.

Se poi assisti all'entrata nella scuola e nell'asilo dei bimbi, curati e vestiti meglio di quelli di città, oppure nell'ora della cena entri in una casa e ti accoglie la famiglia unita intorno al desco, fornito e di carne e di vino e di fratta, con tanto di tovaglia e di posate, allora senti che il benessere, guadagnato a poco a poco con turismo e con artigianato, è cosa non effimera ma soda.

L'abitato è dieci volte quello di una volta, un po' addensato ma senza sgorbi di condomini, già che la speculazione è stata tenuta lontana e le tante ville da affittare ai forestieri sono state costruite dai locali, a poco a poco, coi risparmi, così che il reddito non va fuori paese.

Pure, il tempo della gran miseria, quando dire « Isen » significava parlare della terra di montagna più povera e sperduta di tutta la provincia, non è tanto lontano. Erano gli anni attorno alla gran guerra e sembrava che fosse perduta ogni speranza nel futuro; molti emigravamo in America e quelli che restavano vivevan di autarchia: le donne filavano la canapa e la lana; nei campirsi coltivavano palate e granoturco. Qualche guadagno veniva dalla legna che gli uomini tagliavano d'inverno e lizzavano pei dirupi sino al lago per imbarcarla verso Lecco; ma i soldi servivano per gli attrezzi di mestiere e per comperare gli scarponi ai soli boscaioli, già che le donne e i ragazzi anche con la neve adoperavano zoccole, con qualche chiodo nella suola.

Degli Inglesi che villeggiavano sul lago si sapeva soltanto che erano signori e che dove andavano portavano ricchezza. Qualche riflesso, in verità, giungeva: gli uomini, in estate, salivano la sera alla caverna del Moncodeno, spaccavano il ghiaccio che la tappezzava, lo insaccavano con fieno e foglie secche, e durante la notte lo portavano, col burro, a vendere agli alberghi della Riva. Di rado, qualche straniero arrivava sin lassù, trovava incantevole la valle, belle le montagne, ma se doveva passare una nottata in osteria per salire il giorno dopo sulla Grigna, ne scriveva poi a Londra, sulle guide, come di una incredibile avventura, ponendo in testa addirittura il verso di Shakespeare: « I have passed a miserable night! ».

E pure, fatto straordinario in una simile miseria, tutti a Esino anche allora sapevan di penna: da tre secoli non vi era neppure un analfabeta, poiché un prete letterato ai tempi di San Carlo aveva aperto una scuola, poi sempre mantenuta, e i ragazzi imparavano il leggere e lo scrivere.

Quello era forse il seme di un futuro più felice, ma intanto la gente intristiva, mangiando polenta ed insalata nella stagione buona, patate e castagne nell'inverno, carne soltanto quando una vacca precipitava in un burrone.

Il pane era sconosciuto: si sapeva soltanto che il « pancotto » era medicina ai moribondi e faceva bene alle donne quando era vicino il partorire.

Proprio di quella medicina voglio scrivere una storia che il buon Protaso, anziano sì ma vecchio non ancora mi ha ricordato quest'estate, vedendomi osservare il gran movimento che animava il paese quale fosse una città.

La ripeto come lui la raccontava, con le sue semplici parole, perché non perda il buon profumo delle nostre erbe di montagna.

Un papà è malato, non prende cibo, deperisce ogni momento. La gente dice che forse un pancotto potrebbe ridargli un po' di forza.

La mamma prende i pochi centesimi rimasti nella casa e manda a Bellano la figlia maggiore per comperare una « mica » di pane. Il papà muore mentre la ragazza è per la strada. La mamma allora la fa rincorrere dall'altro figlio per dirle che la « mica » non occorre più e che ora i soldi ci vogliono per il funerale.

Il ragazzo non giunge in tempo, incontra la sorella già di ritorno sulla scalinata di San Rocco sopra il lago: « Il papà è morto, — le dice —: torna indietro e fatti ridare il denaro che adesso serve per il funerale ». Entrano insieme nel negozio, preoccupati dell'accoglienza del padrone. La ragazza, con la « mica » in mano, dice: « Il papà è morto; la "mica" non serve più e la mamma ha detto che i soldi abbisognano per il funerale ». Poi abbassa gli occhi e guarda la mica; da quegli occhi sgorgano lacrime e cadono sul pane.

Il panettiere le fa cenno di tenerlo, prende il denaro avuto dal cassetto e glielo rende, poi toglie dal cestone un'altra « mica», la dà al fratello e dice: «Tenete, mangiate e che vostro padre vi assista e il Signore vi benedica tutti e due! ».

Mentre Protaso terminava la storia della « mica » che aveva commosso il negoziante di Bellano, e i bottegai di laggiù avevano fama in quei tempi di essere esosi e senza cuore, passavan per la strada, davanti a noi, due giovani, bella coppia, lui studente in medicina, lei graziosa ed agghindata; salutarono.

Protaso disse ancora: « E lei crede che se la raccontassi a loro, crederebbero che è vera? ». Risposi di no, che per immaginare oggi una miseria così grande, chi non l'ha vista, ci vuol troppa fantasia.