L'ann del Dersett
Articolo di Pietro Pensa.
L'ANN DEL DERSETT - UN ANNO SENZA UCCELLI Gli uccelli erano, in un passato non lontano che io ho la fortuna di ricordare, un fattore importante della vita nelle nostre valli. Noi li amavamo, ma li uccidevamo con una incoscienza e con una crudeltà senza pari.
Non vi era casa dove una gabbietta — e i nostri uomini durante le veglie nelle stalle le costruivano con grande abilità — non pendesse da un gancio, e dentro l'uccelletto cantava allietando il triste buio delle cucine.
Il vecchio Ambrogio, capo della famiglia mezzadra di casa nostra — noi d'inverno abitavamo in città — me ne aveva donato una, di quelle gabbiette, e il fringuello che vi stava, con le ali mozze, aveva imparato a riconoscermi, a beccare il miglio dalla mia mano, a saltellare sul tavolo. Il guaio grosso avvenne quando, d'ottobre, si accese per la prima volta il fuoco nel salone per cuocervi le castagne: l'uccelletto, abbagliato dalla fiamma, spiccò un salto verso di quella e subito vi morì, abbrustolito. Io — avevo sette anni — scoppiai in urli e in pianti e ancora oggi, ricordandomi di allora, avverto angoscia.
Non fu, quella, l'unica spiacevolezza del mio contatto con gli uccelli. Più avanti, verso i dieci anni, volli provare anch'io a tendere gli archetti; sempre il vecchio Ambrogio me ne aveva insegnato la tecnica e ne avevo con lui disposto una serie nei boschetti che circondano l'orto sotto casa. La gioia di trovare al mattino qualche pettirosso intrappolato svanì però presto, al vederne uno dibattersi con le gambe spezzate; ancor più mi sconvolse il modo adottato dal vecchio massaro di sottrarlo all'agonia con lo stringergli il capo tra le due grosse dita.
La terza triste esperienza mi aspettò ai quindici anni: provai, allora, ad usare le panie che erano appartenute allo zio prete; le disposi tutt'intorno a un piazzaletto di prato nel bosco, mettendo nel mezzo una civetta che mi era stata regalata. Gli uccelletti scendevano in verità, sospinti dall'istinto di rappresaglia contro il feroce notturno accecato dalla luce, che caratterizza quel genere di uccellagione. Mi fu disgustoso il dover togliere le vittime dal vischio e cercare invano di liberarle da quell'appiccicosa insidia.
Attesi alla fine i diciotto anni per prendere il fucile.
La caccia con quell'arma era tradizionale in casa mia. Si raccontavano dai miei storie di avi che ammazzavano orsi, lupi e cinghiali; poi, nel secolo scorso, lepri, volpi, ma soprattutto i grossi volatili della montagna. E si diceva di levate prima dell'alba e di corse sino ai picchi delle Grigne dove il pericolo teneva lontano altri cacciatori, poi di voli di pernici, di passate di beccacce e di viscarde.
Ma si parlava molto anche dei cani; se ne provavano d'ogni razza disponibile, si discuteva se sulla montagna valesse più l'ima o l'altra si insisteva a mettere in chiaro che questa si impiagavan le zampe a lavorare in roccia mentre a quella la pelle si incalliva; si concludeva ricordando leggendarie bravure dell'una e dell'altra. Se il discorso correva con gente di fuori, ci si vantava di Sforza, un cane "sauxo negro, molto bello et bono" di un nostro avo del 1400, che il duca Francesco gli mandò a chiedere in regalo per averne udito le abilità; e di quella faccenda si mostrava ancora la pergamena.
Proprio così ! Bisogna sapere che abitudine in casa fu sempre quella di dare al cane il nome di un personaggio; ora ne è esempio il pointer che ha il suo turno, venuto grande con i miei nipotini i quali mi hanno onorato dandogli il mio nome: un nome che gli presta cipiglio, come ha mostrato all'inizio di questo ottobre, quando, fatte levare ben sette femmine di gallo forcello sul Pizzo della Grigna, l’una dopo l'altra, al frullare della quinta cominciò a mugolare protestando contro il suo padrone che non sparava per rispettare la legge della caccia; lui non sapeva che le femmine sono protette, e mio figlio dovette agguantarlo al collare per impedirgli di andarsene offeso pei fatti suoi.
Ho rintracciato tre licenze di caccia; la più antica è del 1765 ed è intestata al quadrisavolo Carlo, inusitata figura di studioso. Dicevano i vecchi, da memoria tramandata, che lui aveva insegnato a tutti i paesani le dosi di polvere nera, di pallini e di pallettoni per la carica del fucile, secondo la distanza e il tipo di selvatico. Mi fu riprova di quella sua sapienza lo scoprire ancora in un cassetto i suoi attrezzi, venuti da Parigi, e un trattatello scritto da lui sul modo di impiegarli. Mi piace qui riportare l'illustrazione di quelle preziosità che nessuno poteva immaginare di trovare nelle nostre povere valli.
Prima dicevo, dunque; che si amavano gli uccelli; ma anche quell'amore che li faceva tenere in casa per allietarti era un amore crudele: non mancava che tu li accecassi per farli sempre "cantar la primavera", anche nel buio della sera. I più curati, i più apprezzati erano quelli tenuti da chi "roccolava" per usarli da richiamo nei mesi delle "passate". Erano, allora, trattati da signori e nell'inverno non solo ben nutriti, ma persino riscaldati: trovo annotato, in un vecchio diario, che una notte molti erano morti, asfissiati dai carboni accesi, e in quella nota si legge disperazione. Servivano bene, sciagurati volatili, per ingannare quelli liberi e farli cadere nelle reti. Era un'ecatombe, allora ! La povera gente ed i signori, con gli archetti gli uni, con i roccoli impiantati nelle selle della montagna gli altri, facevano a gara a parlare di cifre grosse, che ai primi allontanavan la miseria, agli altri davano diletto e col diletto un piacevole guadagno. Le donne, nel momento buono, caricavano le gerle e portavano quella merce sulla riva, o per gli alberghi o per caricarla, col ghiaccio delle giazzere, sulle barche, più avanti sui battelli per Como e sul treno per Lecco-Milano. Infilati con un refe per il becco, si pagavano dai dodici ai diciotto soldi la dozzina, a seconda della stagione e della grossezza.
Si parlava, a metà del secolo scorso, di sessantamila uccelli presi ogni anno con le reti; giudico che ancora, quando ero ragazzo, non meno di trentamila fossero quelli catturati con gli archetti. Ho tra le mani due registri della famiglia Pini di Mandello; e vi sono elencati gli uccelli presi ogni giorno, dall'agosto al febbraio, tra il 1772 e il 1845, nel roccolo di San Zeno in Carevolto di Mandello. Preziosissimi volumi, arricchiti persino di versi e di detti latini — i Pini erano gente di sapere che possedevano filanda sulla riva —, vi son registrati il bel tempo oil maltempo, il vento o la pioggia, giorno per giorno; poi, in colonne, i vari tipi di catturati; e qua e là, negli angoli, gli avvenimenti fuor del normale, le "escrescenze del lago", le frane, ed anche fatti di famiglia, nascite e morti. Centinaia di pagine !
Dai millecinquecento ai duemila uccelli ogni anno. Trovo in un punto annotata la comparsa di strani volatili dal collo rosso; ed è precisato che il loro scendere tra noi è segno di guerra e di malanno. Che più attrae l'attenzione è il gran bianco senza numeri dell'anno 1816. Sta scritto: "La primavera fu tardiva fuor di modo, atteso le acque continue e le nevi; la campagna è quasi del tutto sterile, per ciò argomentando un anno miserabilissimo essendo ad eccessivo prezzo il melgone (granoturco) e il vino, cioè il melgone a L 80 il vino a L 112".
Poi leggo al 4 agosto: "Sin d'ora non vidi mai un agosto più scarso di tutti gli uccelli, abbenché abbia una buona muta (richiami)". E ancora: "Si roccolo tutto il giorno; si vide niente; pure si hanno stornelli che cantavano bene, ma inutilmente".
In ottobre: "Vendemmiato il 18 del mese, perché l'uva non maturava: fatte solo 520 libbre del vino". In novembre: "Non si videro viscarde".
Al gennaio 1817: "Si poteva risparmiare la fatica di raccogliere l'ulivo avendo raccolto solo quattro staia quando a ricordo se ne raccolsero anche più di mille. La ragione di ciò fu la stagione assai tardiva". Nel corso di quell'anno la fame fu tremenda: "La miseria è all'eccesso. Vi sono poveri alle porte; vi è un male che dicesi peste verminosa; questo male credesi attaccaticcio". Lasciato il registro dell'uccellagione dei Pini, sono corso, per averne riscontro, al diario del mio trisavolo Pietro; vi leggo: "Era una calamità di viveri, scarsissimi in tutti i generi; la gente mangiavano l'erbe dei prati come le bestie e tanti morivano di fame si pagava il melgone allo staio L 8 ossia italiane L 5,4".
I libri di storia comasca mi hanno confermato che il 1817 fu l'anno della febbre petecchiale. Vi ho riletto che dalle valli si voleva scendere nelle città per saccheggiare i magazzini, che il prefetto austriaco mandò degli aiuti e che proprio allora venne introdotta la coltivazione della patata, chiamata kartoffel in tedesco e da noi battezzata col similare nome dialettale di tartiful. Non mi restava che sapere il perché di quell'anno senza uccelli. L'ho scoperto ed ora lo racconto. Nel 1815 il Tambora, un vulcano dell'isola di Sumbawa nell'Indonesia, ebbe una spaventosa eruzione che ne ridusse l'altezza di 1300 metri, scaricando nell'atmosfera oltre 100 miliardi di metri cubi di polvere finissima. A Giava, pur distante 300 miglia, il cielo fu coperto da dense nubi che il sole per lungo tempo non riuscì più a penetrare. Una pioggia di ceneri coprì tetti, strade e campi, con uno strato di parecchi centimetri, mentre in quella paurosa oscurità giungevano i rombi delle esplosioni che impaurirono talmente da fare immaginare alla guarnigione militare che si trattasse di colpi di cannone sparati da pirati. Vennero mandate navi a portare soccorso ad ipotetici punti della costa assaliti. Nel mare si andavano formando isolette di pomice che ancora quattro anni dopo non erano scomparse e galleggiavano sulle onde.
La polvere proiettata dall'eruzione alle maggiori altezze andò diffondendosi dall'Indonesia a latitudini più alte, e mantenne per due anni una corona che interessò Canada, Stati Uniti e l'intera Europa: un freddo intenso sopraggiunse nell'estate del 1816; si ebbero tre ondate di gelo fuori stagione, una all'inizio di giugno, una dopo un mese e una verso la fine di agosto. La neve apparve sulle colline, il gelo indurì i campi, la brina vi si depositò, le colture furono devastate, le foglie degli alberi si annerirono.
Tra un sopraggiungere di freddo e l'altro, accompagnati da venti e da tempeste, si ebbe ripresa delle coltivazioni con giorni di caldo, ma le speranze, appena formulatesi, crollavano.
I giornali scrivevano in tutto il mondo della scarsità di cibo e la cronaca segnalava agricoltori costretti a macellare i propri greggi e addirittura di altri impiccatisi per le privazioni. Si parlava anche di emigrazioni in altre terre. La gente si infagottava di panni. I prezzi delle derrate salirono alle stelle. La paurosa deficienza di viveri ebbe gravi risvolti sociali; in Francia si collegò la situazione economica alla sconfitta subita nel 1815 da Napoleone a Waterloo e alle devastazioni militari. Furono sufficienti banali imposizioni di tasse per far scoppiare tumulti. L'indebolimento della popolazione in Oriente per le deficienze alimentari fu responsabile della prima epidemia di colera, che, nato nelle terre di pellegrinaggio del Gange, si propagò all'Afganistan e al Nepal, per raggiungere poi il Caspio e di là diffondersi verso di noi.
Gli scienziati attribuirono i motivi dell'anno del gran freddo al formarsi di macchie solari o all'espandersi dei ghiacciai artici nell'Atlantico settentrionale.
Solo da non molto si comprese la vera origine di quella tragedia il cui ricordo lasciò nei nostri bisnonni la paura del ripetersi di un anno senza uccelli, l'ann del dersett.
Poveri nostri vecchi! Ma loro, se non altro, giustificavano i malanni ritenendoli ammonimenti del Signore ed avevano santi da pregare. Forse noi ne prepariamo di peggiori e non avremo il tempo di pentirci per averli suscitati, quando le eruzioni avranno la forma dei funghi dell'atomica e invece di colera e di febbre petecchiale seguirà il malanno delle radiazioni.
Ma Dio non voglia!