Folclore e storia di un paese della nostra montagna: le abitudini di vita

Centro di documentazione e informazione dell'Ecomuseo delle Grigne

Pietro Pensa, Folclore e storia di un paese della nostra montagna: le abitudini di vita in "Rivista di Lecco", anno XVI (1957), n.3, pp. 26-30.

Le abitazioni

Adagiati sui lembi estremi della fertile morena glaciale che occupa il centro dell'ampia testata di valle, i due villaggi antichi della Terra superiore di Esino, «Crees» e di quella inferiore, «Piaag», stupiscono per la loro vastità nei confronti del numero degli abitanti. Il fatto è da mettere in relazione con l'aspirazione sempre avuta dai valligiani di possedere casa propria e di vivere, sia pure in modo stentato, indipendenti da giogo padronale.
La poca terra coltivata, se molti secoli addietro permetteva alla popolazione di vivere in una discreta agiatezza, con l'aumentare delle anime, che dal 1500 al 1800 quasi raddoppiarono, divenne insufficiente ad alimentare tutti gli abitanti, così che il suo prezzo andò sempre salendo: già nel 1600 le aree prative e campive venivano valutate dalle cinquanta alle cento lire la pertica milanese. Assai più basso, nel confronto, il prezzo delle case. Queste, generalmente assai modeste, avevano una struttura uniforme: uno spazioso ingresso adibito a cucina, nel mezzo il focolare a raso terra o su rialzo di pietre, senza camino così che il fumo sfuggiva dalle basse finestrelle superiori per il tiraggio provocato dalla porta socchiusa dalla quale affluiva l'aria rendendo respirabile la zona bassa de la stanza; una scala interna portava dal locale alle camere da letto superiori: queste, generalmente assai scure, avevano piccole aperture verso settentrione, chiuse da carta stamina e protette da inferriate per tener lontane le «paure» notturne.
Sul davanti, a mezzogiorno, vi erano sovente una o due logge sovrapposte, dette «lobbie», con staccionata di legno, che servivano per distendere al sole i prodotti della campagna da seccarsi. Il tetto era pagliato o piodato.
Accanto alla casa era la stalla con sovrastante fienile a cui adduceva esternamente una scala con ballatoio di legno.
Assai più confortevoli le poche case "da nobile". La porta, con cornice di pietra su cui erano incise le iniziali di chi l'aveva edificata, immetteva in un cortiletto sul quale si affacciava l'androne o "portico". Da questo si saliva per una scala coperta alle stanze superiori o si andava nella cucina, in cui il camino era a parete, corniciato in pietra "molera" con modanature.
Le logge superiori avevano parapetti di muratura con davanzale e talvolta erano sostenute da colonnette.
L'arredamento delle case era in genere assai modesto: nella cucina un tavolo, una panca, una cassa per le provviste, raramente qualche sedia di paglia, caldari e pentole di rame, scodelle e piatti di legno; nelle camere, lettiere di legno con bisacce di piuma, la cassapanca di noce o di castano con gli abiti, mobile che ogni donna si portava con se in dote. Più fornite le case da nobile, specialmente però nella quantità e qualità dell'arredamento piuttosto che nella varietà.
Il valore di quanto contenuto nell'abitazione più ricca della Terra inferiore nel primo 1800 è assommato, in un inventario del tempo, in lire 3.400.

Le occupazioni

Le fonti di vita furono sempre nella valle la coltivazione dei campi, l'allevamento del bestiame, lo sfruttamento del bosco. Le culture più estese un tempo furono quella del miglio e della segale; sembra che nel 1582 S. Carlo facesse introdurre il granoturco che, in suo onore, fu chiamato «carlone». Oggi esso rappresenta, con la patata, la principale coltura.
I prati permettevano generalmente tre tagli: il "fen", l' "adegör", il "terzol"; nei secoli andati veniva utilizzata anche la magra erba dei ripidissimi pendii della montagna, su cui i falciatori si reggevano con il difficile equilibrio trovato dall'abitudine di secoli.
Al lavoro della fienatura si dedicava durante l'estate tutta la popolazione; il fieno veniva trasportato a spalle, particolarmente dalle donne, con gerle a largo traliccio chiamate "berle"; agli uomini toccava il compito della falciatura effettuata con la "ranza" o con la "seghezza".
Al mattino presto, prima di tale lavoro, tutti si recavano sui monti ad accudire al bestiame. Questo solo nell'inverno veniva ritirato nelle stalle del paese, mentre durante l'estate era lasciato libero nei pascoli comunali e ricondotto a sera nelle stalle degli alpeggi di montagna.
Generalmente negli alpeggi le costruzioni erano due: in una, sopra la stalla, trovata posto, accessibile direttamente da monte o attraverso una scala di legno con ballatoio, il fienile; nell'altra, a pianterreno era il "casel del lac" attraversato da una vena d'acqua, dove in grandi conche di rame era tenuto in fresco il latte, mentre al piano superiore si trovava il locale per la lavorazione casearia, con il focolare, il caldaro e gli attrezzi. Quando mancava la sorgente il "casel del lac" era sostituito dalla "giazzera" sorta di profonda camera scavata dentro terra, dove si ammucchiava durante l'inverno, pressandola, la neve che, ricoperta di foglie secche, si manteneva poi per tutta l'estate.
Negli alpeggi più alti e più lontani dal paese vi erano talora vere e proprie stanze di abitazione, a cui si accedeva da scalette interne a pioli e dove, oltre a un piccolo focolare, su un rialzo di legno si trovava la "bisaccia" di foglie secche di faggio per dormire.
La lavorazione del latte era eseguita in modo assai primitivo.
La panna veniva sbattuta con la zangola o "penac"; il burro ricavato si vendeva un tempo sulla riva del lago o a Lecco. Il latte rimasto dopo la spannatura era scaldato in una grande "caldera" e fermentato con il caglio; si comprimeva la "quagiada" che ne derivava in un cerchio di legno o "singel" posto su un asse a feritoie detto "lo spessur", per lasciar scolare il siero o "seron". Il formaggio magro, caratteristico del luogo, veniva poi messo a stagionare nel "casel del lac" ed era destinato ad essere uno dei principali alimenti dei montanari.
Oggi pochi ancora lavorano il latte come una volta; l'introduzione dei moderni attrezzi caseari fa diventare gli antichi arnesi simbolo di una vita dura e primitiva che ormai è solo un lontano ricordo.
Curioso osservare alcune differenze nel costume di vita fra Terra superiore e Terra inferiore: mentre nella prima era uso salire sui monti verso le cinque o le sei del mattino, nella seconda già alle tre o alle quattro si usciva di casa; similmente, mentre la sera al primo imbrunire il paese di sotto diventava deserto, in quello di sopra vi era movimento per le strade sino a tarda ora. Ciò era consono al carattere degli abitanti, più socievoli quelli di "Crees", più chiusi e riservati quelli di "Piaag".

Quando la stagione cattiva si avvicinava, dopo la raccolta delle castagne si apriva per gli uomini il greve lavoro del taglio e del trasporto della legna, tratta dalle vaste faggete della Comunità. Queste venivano in antichissimo tempo concesse in affitto a uno o a pochi privati, per conto dei quali lavorava poi la gente del paese; tale sistema significava ricchezza per gli uni, miseria per gli altri, ed insieme cattivo sfruttamento del bosco, poiché il taglio veniva effettuato a "raso", o totale. D'altronde la necessità di pagare le forti tasse, aggravate durante la dominazione spagnola dalle imposte per l'allogiamento dei soldati, obbligava la Comunità a rivolgersi a chi disponesse di denaro. Più tardi, però, si introdusse l'uso, tuttora valido, di dividere il bosco in lotti che venivano affittati in parti proporzionali ai vicini; alla maggiore equità sociale si accompagnò il rispetto dell'albero, che portò al metodo di tagliare «a scelta» con una razionalità che dai competenti è ancor oggi additata ad esempio.
Ma mentre con i moderni mezzi di trasporto l'industria del legname rappresenta per Esino una fonte di benessere, un tempo obbligava a durissime fatiche senza peraltro dare che ben misero reddito.
Il faggio e il carpine, tagliati nei mesi autunnali, venivano trasportati sino allo spartiacque del lago, quelli delle pendici del Monte Croce al prato di Spino oltre Ortanella, quelli del fianco settentrionale della valle al Sasso da Po' sopra Vezio. Allo scopo si utilizzavano tutti i mezzi che la natura offriva, i burroni scoscesi detti «oghe» da cui i tronchi venivano fatti rotolare verso il basso, le «strade», sorta di larghi sentieri, tagliati in orizzontale sulle pendici della montagna, lungo i quali si effettuava il trasporto con carri primitivi ad assali e a ruote di legno trainati da buoi, sostituiti solo in tempo più recente da slitte a cui si applicavano talora ruote di ferro e che venivano tirate dai muli.
Ma l'aiuto più grande era dato dalla neve:
"L'attività di quegli atletici terrieri è di prevalenza messa alla prova nella iemale stagione col trascinare tra alte nevi con sorprendente scioltezza e velocità sopra speciali slitte, per ertissime e pericolose calli cataste di legname con meraviglia degli astanti. Le nevi sono quindi per gli Esinesi un elemento quasi direi indispensabile al loro benessere per l'utile che loro procaccia nel trasporto del più importante prodotto del suolo, e senza di che non saprebbero sopperire ai giornalieri loro bisogni".
Così nel 1851 scriveva Ferdinando Tonini. (1)
Venivano preparate anche piste ghiacciate, le « soende » lungo ripidissimi pendii: l'uomo teneva una fascina sotto ciascun braccio, alle due altre erano agganciate, e poi altre ancora sino a formare una larga coda, la "saina" che spingeva col suo peso il guidatore al quale toccava il compito di frenare la massa scivolante. Il gelo e il disgelo, alternandosi, rendevano vitree le piste in modo che, gettandovi sopra i tronchi, questi scivolavano sino a valle. E' ancora nella memoria dei vecchi la «soenda» di Mascedo che superava un dislivello di quasi trecento metri.
Fatica improba era poi il far risalire la legna per tratti dell'opposto versante, sino a raggiungere le "strade"; il trasporto veniva effettuato a spalla, su impervi sentieri: tra tutti durissimo quello che dal torrente, sopra Vezio, con duceva al Sasso da Po'.
Raggiunto così lo spartiacque la legna veniva «ogata» sino alla riva del lago. Lungo il pendio della montagna, per un dislivello che di là dalla bocchetta di Ortanella superava i settecento metri, giù da burroni rocciosi, da uno dei quali si passava all'altro trasportando a spalla se il passaggio era esposto, con slitte se possibile, i tronchi venivano gettati verso il basso. Sui fianchi delle lizze dai pittoreschi nomi, Oga dello Zapel, Oga del Paner, La Piodiscia, Oga del Perett, Oga Granda, precipitanti sotto spiazzi ed alpi romite, Pra' di Spino, l'Ombre, Roslina, si disponevano a coppie gli uomini, ributtandosi da uno all'altro la legna che si fermava: opera dura e pericolosa che a volte costava la vita di qualcuno. La profonda impronta delle slitte nella roccia tra una lizza e l'altra sta ancora a testimonianza di un lavoro di secoli.
Al lago, tra Fiumclatte e Lierna, nel golfo di Valvachera di proprietà degli Esinesi, che vi avevano pure diritto di pesca, la legna, dopo essere stata misurata a braccia, veniva caricata sui grandi barconi da trasporto che la avviavano verso la pianura.
Scrive il Tonini nel 1851: "Vuoisi che un tale ricavo traggono essi della ragguardevole somma di 60.000 lire correnti". Ma se il totale sembra cospicuo, ben misera era la mercede giornaliera che veniva a ciascuno, non mai superiore a una lira per persona, tenendo conto che anche i ragazzi partecipavano a quella durissima fatica.
A sera, risalendo dagli impervi sentieri tracciati sui margini delle "oghe" gli uomini tornavano al paese; vi giungevano a notte, a tardissima ora. Li attendeva la polenta preparata dalle donne con il poco formaggio magro, oppure il caldaro delle castagne e delle patate bollite; i ragazzi si addormentavano mangiando. Poi, dopo la magra cena e le brevissime ore di sonno, venivano destati nuovamente; si raccoglievano a gruppi nelle strade del paese e riprendevano il cammino; quando il sentiero diventava più impervio il capoccia accendeva una «coda», sorta di torcia di paglia intrecciata e illuminava per tutti la via.
Quando, sul principio del secolo, apparve nella valle la prima «corda» metallica, parve che una nuova era si aprisse per la gente della montagna. Prima, la legna durava giorni e giorni per giungere al lago, e quando veniva imbarcata il suo peso per i tanti salti da roccia a roccia era divenuto il cinquanta per cento dell'iniziale; con le teleferiche poche gettate di cavo, brevissimi rinvii e il legname era a riva. Il guadagno salì, la miseria prese a retrocedere.
Oggi anche il trasporto con funi metalliche è assai ridotto; serve solo a far scendere tronchi e fascine dai monti più alti sino alle strade mulattiere, dove i motocarri, inerpicandosi in una gara tra perfezione di macchina e abilità di conducente, giungono a raccoglierla nel cuore dei boschi.
Così la ricchezza del bosco è finalmente benessere per gli abitanti.
Altra occupazione importante per gli uomini era il lavoro alle carbonaie o «poiat», costruiti negli spiazzi dei boschi detti «aial», dove si trasformava la buona legna di faggio in carbone forte, che si commerciava poi nel lecchese; notevole fu sempre la produzione di calce, tratta dal calcare locale e cotta nelle «calchere» ricavate nel fianco della montagna; dal 1700 sino alla fine del secolo scorso a Camallo si ottenevano ottimi mattoni con l'argilla locale; nelle vecchie carte se ne parla come di industria fiorente.
Non va infine scordato come sui monti di Esino si cavasse nel medioevo il ferro che serviva alle fucine della Valsassina, ritenute tra le più importanti del Ducato. Tagliate a cielo scoperto, ancor oggi, benché coperte dal bosco, si distinguono facilmente le «dgantesehe « ferrere » di Cavedo e del Moncucco.
Sulla metà dell'800 divenne intensa l'esportazione del ghiaccio, che, preparato durante l'inverno nei pressi dei torrenti e conservato poi nelle «giazzere» sotto la foglia secca, veniva durante l'estate trasportato a spalle dentro sacchi, nelle ore notturne, agli alberghi della riviera del lago. Il ghiaccio più pregiato, trasparente e cristallino, era quello che si cavava dalle stalattiti della grotta del Moncodeno, a 1.800 metri di altezza.
Il gran lavoro delle donne era quello del filare, del tessere e del preparare gli abiti ai membri della famiglia e la biancheria per la casa.
Il giorno di San Marco, in aprile, dava il via al lungo ciclo annuale. In quella ricorrenza benedetta si seminava la canapa che la breve estate di montagna riusciva appena a crescere quel tanto da renderla matura a fine agosto. Le piante strappate dal campo venivano stese sui prati dove sole e rugiada in alterna azione le seccavano e le rammollivano.
A ottobre gli steli erano raccolti a fasci in capanni, dentro ai quali si accendeva il fuoco per rendere più tenera la parte legnosa; non infrequente era il caso in cui per malefatta di qualche ragazzo le fiamme distruggessero tutto; perciò all'operazione si accudiva con particolare attenzione. Dopo di che la canapa veniva battuta sotto la «gramola», sorta di attrezzo a quattro gambe in cui un coltello orizzontale di legno, entrando tra due traverse, spezzettava la corteccia; quindi la si ripuliva con la "spadola" contro un asse con piedestallo e infine la si cardava con lo "spinac", arnese a punte tenuto tra piede e ginocchio sul quale si separava il buon filo dalla stoppa.
Nel pieno dell'inverno, durante le lunghe veglie invernali, raccolte nel tepore delle stalle, le donne filavano e cucivano; stavano tutte attorno a una unica lampada ad olio, più vicine quelle che lavoravano d'ago, più lontane quelle che maneggiavano la rocca ed il fuso. Già che il giorno si allunga in gennaio, il proverbio ammoniva: "Inanz Natal no fila / Dopo Natal sospira"
Con l'aspo si raccoglievano le matasse; una buona filatrice filava tre fusi per sera: "Sant Antoni, sant Antonà / I me tri fusa / Voi fila voi fila".
A fine febbraio le matasse, alternate a strati di cenere nei grandi caldari di rame, venivano poste a cuocere a lento fuoco; poi erano portate al torrente, sciacquate e stese ad asciugare.
Dipanatele poi con la «bicocca» e raccolto il filo in gomitoli, si chiamava qualcuna delle poche orditrici, specializzate alla bisogna, che prestavano la loro opera da una casa all'altra.
Staccato l'ordito e messolo sul telaio, le donne di casa tessevano per tutto marzo ed aprile; le più abili riuscivano a preparare ogni giorno una decina di braccia di tela alta settanta centimetri. Solo le giovani madri erano esenti dal lavoro:
Quand se leva / No se fa gna fil gna tela.
In maggio le pezze di filato erano messe alla sbianca; scaldate prima con cenere nel caldaio, venivano sciacquate al torrente e stese sui prati dove si innaffiavano tre volte ogni giorno; la sera erano riportate nelle case, per essere nuovamente esposte l'indomani.
I prati presso il torrente della Livolda sotto il Gigiale nella Terra di sopra, quelli attorno al corso d'acqua di Canale nella Terra di sotto erano tutti disseminati di candide tele.
Quando i lavori grossi della fienagione avevano inizio, ogni famiglia teneva nei «cassoni» il buon tessuto con cui vestire ogni membro. E neppure la stoppa sarebbe andata perduta, che sarebbe servita ad ordire le pesanti coperte da letto, delle quali ancor oggi molte rimangono, con loro strane intense colorazioni, date dagli abili tintori di Bologna terra di Perledo.