Folclore delle valli e delle rive del Lario
Pietro Pensa, Folclore delle valli e delle rive del Lario in L'Ordine, 20.10.1978.
Un viaggio a cavallo tra il ricordo e la storia
Nei lustri tra questi due secoli, i villaggi del nostro Lario, quelli montani soprattutto, vissero una paurosa recessione e videro schiere di emigranti partire per le Americhe. Finita con una pace discussa la prima guerra mondiale, i reduci, che erano venuti a contatto di altre realtà, frustrati dalle lunghe e vane tribolazioni, non vollero più accettare la miseria che avevano lasciato e cercarono affannosamente vie nuove. Si ebbe, così, una rottura, con il passato: contestandolo, i giovani non credettero più nel mondo del loro padri e lo rifiutarono; rifiutandolo, lo dimenticarono.
Oggi chiederesti invano agli uomini tra i settanta e gli ottanta anni notizie sulla vita dei loro genitori: troveresti un vuoto.
Diversamente fu per me. Nel 1918 frequentavo i primissimi corsi del ginnasio; vivevo in città, in una casa che aveva il buon odore del libri, ma ero felice solo quando potevo, nei giorni di vacanza, tornare al paese dei miei avi. Ogni piccola cosa di lassù mi interessava; chiedevo ai vecchi del presente e del passato e quelli erano lieti che ancora qualcuno, fosse pure un ragazzo come me, li ascolatasse.
Mio padre, poi, durante l'estate visitava i molti amici che aveva sulle rive del lago e nelle valli; mi conduceva con se, ed io guardavo, domandavo, annotavo.
Più che gli appunti di allora, arricchiti poi di notizie lontane trovate in uno scritto di mio nonno, mi servono però, a ricordare quel mondo scomparso, le impressioni rimastemi vivissime.
Il caldo favore con cui nello scorso anno sono state accolte dai giovani alcune mie conversazioni su quel mondo mi ha indotto a tracciarne un accurato quadro, prima che la memoria ne vada completamente perduta. Cercherò di fare aleggiare sulla mia pittura, che pure risulterà scarna perché fedele alla verità e soprattutto perché pittura di una serena e dignitosa miseria, l'atmosfera di comprensione reciproca che rendeva accettabile quella povera vita e tanto migliore del benessere di oggi.
I villaggi
Sorti in tempi preistorici, i più antichi ai margini delle lagozze di fondo valle e dei delta lacuali, gli altri sviluppatisi dalle alpi pastorali sui fertilo ripiani morenici dei pendii montani, i nostri villaggi ancora all'inizio di questo secolo si presentavano, a chi li guardava dall'alto degli opposti versanti, come macchie brune che quasi si confondevano, per la colorazione, con la natura circostante.
Le case, infatti, addossate una all'altra, costruite con pietre di torrente legate da poca calce, con tetti piodati o copertici da embrici bruni, qua e là ancora, da paglia iscurita, creavano poco chiaroscuro, insufficiente a mettere in evidenza il rilievo.
Bianchi di intonaco erano il campanile e, pei paesi più evoluti, la scuola, l'asilo e qualche dimora da nobile. Solamente all'inizio di questo secolo incominciarono a sorgere le case nuove di chi tornava con qualche soldo dalle Americhe e parve allora che una nota lieta di benessere ravvivasse gli antichi miserevoli nuclei storici.
Già da prima, però, impressionava l'estensione degli abitati rispetto all'entità della popolazione. Il fatto era da attribuirsi all'aspirazione che sempre i nostri vecchi ebbero di possedere una casa propria: Putost un burnal mus'c a cà sua / Ca ne miche a cà di oltri (Meglio una focaccetta bruna di crusca a casa propria / Che una mica bianca in casa d'altri).
Quando si arrivava a un villaggio, salendovi lungo le mulatiere, acciottolate con molta arte nella seconda metà del 1800 quando ben poco costava la mano d'opera, impressionava il veder sorgere l'abitato, quasi d'improvviso, da un mare di verde: orti, prati e campi sembravano assediare le case tutt'attorno.
Gli ingressi ai paesi erano pochi, generalmente tre: una strada guingeva da un vicino villaggio, una seconda usciva dal lato opposto per proseguire verso un altro, una terza saliva ai monti. L'imbocco alle viuzze dell'abitato avveniva tra due case sovente legate tra loro da un ponticello ad arco, motivo che si ripeteva più volte nell'interno, e gli ingressi venivano sbarrati alla sera da porte di legno, alte oltre due metri, con un grosso catenaccio.
Vidi ancora, nella fanciullezza, qualcuna di quelle porte, sgangherata; molti cardini si conservarono sino a non molti decenni orsono. Il vecchi mi spiegavano che la funzione di simili robuste imposte era quella di impedire ai lupi affamati di entrare, quando, nel periodo in cui il bestiame veniva tenuto in paese, cercavano, nottetempo, di raggiungere le stalle.
Qualche uomo più saputo affermava, poi, che nei secoli passiti le porte servivano anche per difendersi dai predoni, cosi come i passaggi a ponticello tra gruppo e gruppo di case avevano lo scopo di consentire ai difensori di ritirarsi a mano a mano che gli assalitori riuscivano a prevalere.
In effetti, l'insieme dell'abitato si presentava verso l'esterno con pareti senza lobbie, con poche finestre ed alte, e dava quasi l'impressione di una fortezza.
Il più della gente, però, le donne soprattutto, insistevano nel dire che le porte avevano lo scopo di tener lontana la cascia selvadega. Era, questa, una diffusa credenza che per secoli gravò paurosa sulle popolazioni.
Si favoleggiava, sottovoce per non evocarla, di una cavalcata orrenda di spiriti dannati che si levava improvvisa nelle notti senza luna, percorrendo in fulminea corsa i sentieri scavalcando d'un balzo torrenti e valloni sino a perdersi lontano, nelle forre dei monti più alti; uno scalpitar di destrieri, grida d'angoscia rompevano allora il silenzio delle valli.
Era, forse, una remotissima leggenda pagana, accolta poi dai sacerdoti, i quali affermavano trattarsi delle anime in pena dei cacciatori che nei giorni festivi avevano trascurato i doveri religiosi e che, dopo morti, erano stati condannati a vagare senza pace nei luoghi del loro peccato.
Le viuzze interne dei villaggi erano assai strette ed oscure. Per lo più acciottolate, lastricale solo dove si disponeva di piode, la pavimentazione era trasversalmente inclinata, così da formare un canale laterale lungo il quale colava il liquame che usciva dalle stalle quando vi stazionava il bestiame. Stradette sozze, dunque; e, pure, portavano denominazioni pittoresche, talora anche poetiche, che nella seconda metà del 1800, quando il governo italiano introdusse l'anagrafe, vennero scritte, in nero su riquadri di calce.
Alcuni nomi erano ripetuti in molti villaggi: contrada Superiore, di Mezzo, Inferiore, Lunga, Breve, Stretta, ai Monti, agli Orti, alla Valle; altri avevano ispirazione religiosa: strada alla Chiesa, della Via crucis, del Rosario, della Processione, del Cimitero, dei Morti, contrada di Nostra Donna, vicolo degli Angeli; altri ricordavano le funzioni pubbliche che vi si svolgevano: contrada della Pretura, del Lazzaretto, della Vicinanza, del Consiglio, del Mercato, della Fiera, dell'Albergo; altri ancora scgnatavano la presenza di artigiani: contrada delle Fucine, dei Fabbri, dei Bergamini, dell'Oste, delle Botti, del Prestino, del Mulino, del Torchio; altri infine erano estrosi e riflettevano l'inventiva degli abitanti: contrada Soliva, Rustica, Segreta, Oscura, Deserta, Scoscesa, della Vecchia, del Ragno, del Cane, dell'Albero Secco, dei Salici.
Le abitazioni
Le case ricalcavano uno schema architettonico costante. Si notava in tutte lo sforzo di orientarne la struttura in modo da sfruttare il più possibile la presenza del sole: Mei una cà oide al soliv / Ca une piene al vaag (Meglio una casa vuota al sole / che una piena in sito uggioso).
Nei nuclei più antichi la stalla sorgeva quasi sempre attaccata alla casa, quella al filo strada, questa un po' arretrata con le lobbie sovrastanti il breve lembo di terra che restava libero. Più tardi nel tempo, a mano a mano che i paesi ingrandivano e andava scomparendo la necessità di protezione, si cercò di spostare le stalle verso la periferia, presso gli orti.
La casa era generalmente solariata, a uno o due piani. A terreno, la cucina, cusine, teneva tutto lo spazio ed era pavimentata a piode; nel mezzo stava il focolare quadrato, delimitato da soglie di pietra. Sopra il focolare era sospeso un graticcio di ramaglia, la grade, su cui si mettevano le castagne a seccare. La porta d'entrata mancava della metà superiore per consentire l'uscita del fumo e il ricambio dell'aria.
Attorno al focolare erano disposte tre panche, i bench, sulle quali sedevano gli uomìni, nello strato respirabile; non mancava qualche sgabello, o scagn, a tre piedi o semplicemente ricavato da un ciocco, da uno scioch taié.
Un tavolo, taol, una madia o governo, appoggiata al muro, con pesante coperchio superiore atto all'impastare e divisa all'interno in comparti per tenervi le varie farine che la massaia o regiora impiegava per governà la cà, completavano il poco mobilio.
Presso il focolare, su cui pendeva la lunga cadene, attaccata al soffitto, era tenuto il morter de la sal generalmente di pietra, per conservare asciutto il sale; a una soglia stavano appoggiati le molle, o möie, la paletta o bercac, e il bufet, lungo tubo di ferro strozzato a una estremità e a boccaglio all'altra, per attizzare il fuoco. Rara era la presenza di un portazufranel, portafiammiferi, giacché non si lasciava mai spegnere completamente il fuoco.
A un muro stavano appese una o due secchie di rame con l'acqua, le sedele, da cui pendeva la cazze, mestola per bere con lungo manico a uncino; vicino era appoggiato l'aquàdur di legno destinato a portare sulle spalle le secchie in bilancia dopo attinta l'acqua alla fontana.
Povero l'arredamento di cucina: lo stagna per la polenta col suo baston, il coldirol d'ol lacc, pentolino per bollire il latte, una padele, un padelin, una pignate per la minestra, uno stagnadel per il caffè.
Non mancavano la basle per sfornare la polenta e l'orgiròola per tagliarla, dei baslot di legno, qualche scudele di ceramica; i cugià e le fursceline, cucchiai e forchette, erano di legno ben intagliato, i curtei di ferro.
Un lavel di pietra serviva sovente a tenere qualche cibo deteriorabile in acqua; si accompagnava all'olin per il burro e all'ole per l'olio cotto.
Il masnin del caffé era d'obbligo, pòveri che si fosse. La gratarole, grattugia fatta d'un ferro bucato, serviva a grattugiare il formaggio secco. La baril teneva il vino o il sidro. La balance a piatto sostenuto da tre catene, con peso spostabile sull'asta orizzontale, serviva alla madre per razionare la farina, tanto preziosa.
Il lavandin di rame era appeso al tavolo e girevole su un perno così da poter essere nascosto sotto il tavolo stesso dopo l'impiego.
Una scopa, scoe de genestre, serviva per la pulizia. La sera si accendeva la lüm, lampada con lucignolo ad olio, in ottone, talora artisticamente istoriata.
Alle camere superiori si accedeva fcon una scala di legno dall'interno, o, sovente, dall'esterno. Le stanze erano arretrate, per dar maggior spazio alle lobsce, o balconi con colonnette di legno, sulle quali si ponevano a seccare i prodotti della campagna. Pittoresco ne era l'aspetto, soprattutto quando il sole accendeva la colorazione delle pannocchie di granoturco.
In ogni camera si apriva una finestrella protetta da due ferri immurati a croce, con un telaietto di carta stamigna in luogo di vetro. Dicevano i vecchi che la presenza della grata impediva che entrasse la cavra sbàgiola, immaginario animale notturno mezzo uccello e mezzo capra che usciva la notte dalle caverne emettendo un lugubre belato misto a voce umana. Tanta era la paura di quel fantasma che io pure da fanciullo avrei giurato di aver sentito qualche volta quel gemito e il picchiettare delle corna contro le sbarre della finestra.
Il mobilio delle camere era issai povero. Il letto, lecc, era composto da due cavalitt, da poche ass, dal pagliericcio, o bisache, fatto di canapa grossa, canevon, e riempito di foglie di faggio, o, per le spose novelle, di sfroie, le brattee secche delle pannocchie di granoturco.
Le lenzuola erano dì tele de cà, la coperta di stoppa tessuta e colorata in bleu, per le spose di filosele di seta.
Nella cassapanca, o cassa, talora artisticamente costruita con legno di noce, prendevano posto le lenzuola e la biancheria. Sul rastelet o attaccapanni a muro, erano appesi gli abiti femminili. Una o due sedie, quadreghe impaié, completavano il ben misero arredamento.
Naturalmente, quando vi erano dei nati, nella camera materna non mancava la cuna, cugne, con l'archet dì legno per difendere il piccolo dalle mosche con uno straccio. Sia la cuna che l'archetto portavano quasi sempre disegni intagliati e sovente le iniziali.
Lo scoldalec, scaldaletto in rame con il suo frà, o difesa in legno per non lasciar bruciare le coperte, uno scoldin, la sopresse, ferro a brace per stirare le camicie, erano attrezzi presenti in ogni casa.
La stalla aveva due plani: sotto era la stale d'el vacch, sopra la stale d'ol fen a cui si accedeva generalmente dalla stradetta sovrastante, in quanto il pendio del monte lo permettesse. Tra l'una e l'altra un pertugio quadro con aste di legno, o fener, consentiva di buttare il fieno, tagliato col fer dal fen, da sopra a sotto. Contro la parete di fondo la mangiatoia, o présev, con le catene per le mucche, su un lato lo stabscio per il maiale.
Più confortevoli le poche case da nobile, non più di due o tre per ciascun paese di montagna, molte nei borghi della riva. Sostanzialmente di schema architettonico simile a quelle comuni, il portale, delimitato da cornice di pietra su cui erano incise le iniziali di chi l'aveva edificata e quasi sempre sormontato dallo stemma della casata ricavato nella pietra o affrescato, immetteva in un cortiletto sul quale si affacciava l'androne, o portec, solitamente su due lati. A terreno vi era la cucina, caminata, ossia con camino a muro avente cappa di pietra molera con modanature.
Sopra l'androne stavano le logge con graziose colonnette, dietro cui si aprivano le camere. Su un lato del cortiletto avanzavano la casa colonica, simile a quelle solite, con lobbie di legno e con la stalla. Sovente, nel mezzo del cortiletto vi era il pozzo; non mancava, poi, il forno per pane.
L'arredamento interno delle case da nobile era, naturalmente, assai più fornito di quello delle comuni, ma più per quantità che per varietà. Non vi era insomma, nella società assai democratica del nostro territorio, sfacciato contrasto tra i più abbienti e i più poveri. Sotto lo stemma di un portale si leggeva infatti: Ad vetustatem, non ad superbiam (Non per superbia ma a prova di antica presenza).
Anche le case comuni cominciarono a venir trasformate sul finire del secolo scorso. Furono innanzitutto munite di camini a parete con canna fumaria. Sotto la cappa presero allora posto, sui fianchi, due banchelli, o scrane per sedersi, sopra le quali vi erano due piccole grate per seccare le mascarpe di formaggio.
Il locale per seccare le castagne venne allora ricavato in un piano superiore, con grata e canna fumaria costruite con notevole tecnologia.
Negli abitati a riva le case furono sempre più signorili, per quanto sovente tristi e buie a causa dell'andamento pianeggiante del terreno che non consentiva di far sovrastare l'una all'altra le costruzioni e di affacciare quindi ai sole la parte superiore. Le stalle nei borghi erano già confinate alla periferia superiore a meta del secolo scorso; scomparvero quasi del tutto all'inizio del 1900, rimanendo invece nelle numerose frazioni a monte, dove, sostanzialmente, la vita degli abitanti poco si distaccava da quella dei paesi delle valli.