Calamità naturali e cause umane

Centro di documentazione e informazione dell'Ecomuseo delle Grigne

Pietro Pensa, Calamità naturali e cause umane in Broletto, n. 10 (1987) pp. 24-37.

Nel passare dall'argomento confortante degli insediamenti umani, affrontato nel numero scorso di "Broletto", a quello ben triste delle calamità, mi vien fatto di pensare ai grandi formicai che vivono nei boschi della montagna e che, se sconvolti, subito si animano di una intensa attività per ricostruire quanto è stato loro distrutto. Di tale spirito mi sembra individuare nella nostra storia quel continuo e ricorrente affanno con cui, dopo una calamità, si è sempre cercato di riportare il proprio habitat all'ordine precedente. Se a devastare un formicaio fu però nel passato l'orso, ghiotto di formiche, e oggi è l'uomo, spinto dalla volontà di proteggere un bel bosco di larici o dallo stupido gusto di assistere al via-vai degli insetti, a turbare la vita umana furono sempre le passioni dell'uomo stesso e la natura, con guerre, con morbi, con disastri ecologici. Mentre nei contagi, a cui non si poteva porre rimedio per deficienza di conoscenze igieniche e mediche, il clero di un tempo faceva individuare una punizione di Dio per i peccati dell'uomo - e San Carlo ne fu il grande esempio - le calamità naturali erano attribuite alla fatalità. Fu così che i primi venivano scritti nella storia, le seconde, invece, avvennero e furono scordate, non lasciando memoria sino ai tempi moderni. Proprio di quanto accadde negli ultimi secoli, quindi, esporrò brevemente in questo scritto, rinviando tuttavia ad altra sede il più grande flagello dell'Adda, manifestatosi con le inondazioni del lago e con i travagli nel piano di Olonio, mai esploso in fatti sconvolgenti, ma immanente dall'antichità romana sino al 1800.

Indice

Le ferite alla montagna

I territori in cui scorrono l'Adda fluviale - lacuale e i suoi affluenti sono reduci da quei grandiosi fenomeni che, dopo l'uscita dalla fase parossistica dell'orogenesi alpina, ne hanno plasmato la superficie: le grandi glaciazioni. Se queste, con riporti morenici e alluvionali, hanno addolcito la morfologia e hanno dato motivo a coltri vegetali di forte interesse per l'habitat, hanno anche infetto ai fianchi rocciosi contro cui premevano quelle gigantesche ferite che sono tuttora origine di pericolose disgregazioni. L'uomo nel passato considerava calamità naturali i disastri che derivavano da quella natura geologicamente ancor giovane e si limitava, per una elementare diretta esperienza, a prevederle e ad evitarle, vuoi rispettando il bosco per impedire franamenti, vuoi curandone la formazione su pendii aperti per proteggere gli abitati da valanghe, vuoi tenendosi lontano dai torrenti nel costruire dimore per premunirsi dalle inondazioni. Trascinato poi dal tornaconto economico, perdette il rispetto della natura: così, nei secoli spagnoli distrusse in Valsassina l'albero per trarne carbone da legno destinato ai forni fusori; così, nei decenni napoleonici trascurò in Valtellina la saggia conduzione dei beni comuni per fare denaro; così, via via, con speculazioni edilizie è giunto a quello sfacelo dell'ambiente che la nostra generazione sta conoscendo. Finalmente attenti, ora, pur premuti dall'accavallati di interessi, si sta riprendendo il controllo ecologico e riportando alla realtà l'interpretazione di «calamità naturale». La ricerca fatta sulle sventure verificatesi nei secoli scorsi pone in evidenza, e già ho cercato di interpretarne il motivo, come scarse sino ai tempi moderni siano le notizie giunteci sui cataclismi strettamente naturali, più fitte, più dettagliate e remote, invece, quelle sulle pestilenze e sulle epidemie. La rassegna, quindi, che propongo sarà ineguale, ora ricca, ora povera ed oscura, tuttavia carica di quel pathos che il male ebbe sempre per l'uomo.

Piuro sepolta

Mentre il ricordo di antichi scoscendimenti a Vedeseta in Valtaleggio, in gran parte distrutta nel XIII secolo da una frana e di analogo caso di allora a Premana è tramandato in un manoscritto che nel secolo scorso raccolse tradizione, le più antiche memorie documentate che si hanno di disastri naturali riportano alla scomparsa di Piuro e alla rovina di Gero e Barcone. Sorgeva, Piuro, allo sbocco della Val Bregaglia, a nord-est della confluenza del Mera col Liro, su un vasto terreno pianeggiante a cavallo del fiume, ai piedi del monte Conto. Di origine antica, forse ancor più remota di quella di Chiavenna, al capoluogo aveva per secoli conteso il primato nella Valchiavenna, riuscendo più volte a rendersene indipendente raggiungendo via via un benessere eccezionale, sia per la presenza di un abile artigianato di lavorazione della pietra oliare, sia per il fiorire di un ricco ceto borghese interessato ai traffici commerciali con Germania, Francia, Austria, Ungheria, Polonia e con varie parti d'Italia, dove i mercanti piuresi tenevano fondaci. All'inizio del 1600, quando ormai da un secolo Valtellina e Valchiavenna erano territorio grigione e andava delineandosi sempre più violenta la lotta religiosa, il grosso borgo contava attorno ai 2000 abitanti; era fiorente più che ogni altro dei due contadi e dei terzieri, aveva larghe strade, piazze, fonti, aveva palazzi, chiese, ville e orti, fabbriche, filatoi e tintorie: tale ce lo mostrano descrizioni e stampe del tempo. Che, tuttavia, Piuro si trovasse in una località pericolosa gli abitanti ben sapevano e ne avevano l'incubo: non di smottamenti, ma di inondazioni provocate sia dal Mera che dalla vicina Acqua Fraggia. Quelle calamità erano ricorrenti; per non accennare a una catastrofe delI'VIII secolo ricordata da Salomone, che sembra avesse colpito anche Chiavenna, recenti erano stati gli straripamenti; uno del Mera era occorso nel 1520 dopo continue piogge, mentre un'inondazione causata dall'Acqua Fraggia aveva nel 1613 sommerso il borgo, obbligando la popolazione a rifugiarsi sui monti. Proprio in quell'occasione si era fatto voto di recarsi il 22 luglio in processione al santuario di Santa Maria di Prosto, eretto per l'apparizione della Vergine a una ragazza attorno al 1572. Ora, nel mese di agosto del 1618, in seguito all'insistere di piogge, il terreno alto del monte Conto alle spalle del borgo prese a muoversi e qualche piccola frana investì le vigne della vicina frazione di Silano. I Piuresi ne vennero avvertiti, ma, già che qualche frana si era verificata in precedenza, non diedero retta a un tale Pietro Foitus, il quale era venuto a riferire che gli alberi sul Conto si piegavano verso il basso per lo scivolamento di terra. Fu così che il 4 settembre (qui sorse in seguito un dibattito sulla data, già che i Grigioni, non avendo accolto il nuovo calendario gregoriano, indicavano il 25 agosto) a un quarto d'ora di notte fu udito un gran boato e Piuro e Silano, investiti dalla frana, scomparvero. Ne fu testimone Francesco Forno di Silano, console di Piuro, che, essendo andato al proprio crotto a prendere del vino, assistette alla scomparsa del borgo. Un gran polverone giunse a Chiavenna, la cui popolazione abbandonò la città; ne raccontò lo stesso dottor Fortunato Sprecher, commissario grigione. Il Mera, impedito dai detriti, formò un laghetto, ma fortunatamente si aprì presto un nuovo alveo, con gran sollievo dei Chiavennaschi che fecero cantar Messa al santuario di Gallivaggio. I morti, grazie all'assenza di molti mercanti,furono probabilmente 1200. Subito si mossero i soccorsi, ma nessuno venne tratto in salvo. Sulle cause del disastro fu presto polemica: si parlò delle sforacchiature del monte per cavare la pietra ollare. Molte erano infatti le gallerie ed è in proposito nota la storia, narrata da Pier Damiano nel XI secolo, di un minatore che, accortosi una sera mentre tornava a casa coi compagni di aver dimenticato un attrezzo in galleria, vi era ritornato, restandovi però chiuso per una frana; i tentativi di sfondare il passaggio, non riusciti subito per l'enormità dei massi, si protrassero per oltre un anno da parte dei compagni e dei parenti per il recupero delle ossa del poveretto, certamente morto; ma avvenne il prodigio, dopo aperto un pertugio, di veder venire incontro lo scomparso, il quale narrò di essere stato nutrito da una colomba che ogni giorno gli portava un soavissimo cibo, esclusa una volta, proprio quando la moglie non si era potuta recare in chiesa per la celebrazione della Messa. In effetti, la causa del franamento va cercata nella natura del territorio e nel lavorio che vi fecero le acque. Furono fatti venire, dopo la rovina, dei Tirolesi specializzati negli scavi, ma quelli, dopo che vennero trovati dei morti, d'improvviso se ne andarono e si dice che nei loro siti si fabbricarono case con il ricavo di oggetti preziosi rubati e venduti. Nel 1767 fu trovata una campana della chiesa di San Cassano, un'altra nel 1853. Si narra che un capitano, dopo aver tentato scavi nel 1700, venne affrontato da un fantasma che lo pregò di smettere e di lasciare in pace i morti. Nel 1963 e nel 1966 vennero eseguiti nuovi scavi per l'iniziativa di un'Associazione italo-svizzera, e i reperti furono raccolti in un museo locale, ma il più è ancora da farsi. La catastrofe ebbe risonanza in tutta Europa e molto se ne scrisse.

La distruzione di Gero e Barcone

Altra sventura si abbattè in Valsassina nel tardo novembre 1762. Era un lunedi, il 15 di quel mese, e un'ora mancava al mezzogiorno. Le piogge autunnali erano state insistenti quell'anno, ma da due giorni era tornato il sereno e molti contadini si trovavano nei campi e sulla montagna per lavori nei boschi. Alcuni di loro, dal versante sinistro della media Valsassina, assistettero alla catastrofe. Così annotò sul registro delle morti il prevosto di Primaluna: «Un miglio (nella realtà 150 metri) sopra Gero e Barcone si vide sollevarsi dalla terra come una colonna di acqua, che per essere investita dal sole sembrava una colonna di fuoco, ed in questo stesso punto staccavasi il monte (l'Agrella) e, rovinato in un baleno, i due villaggi sono stati fracassati e sepolti, portatosi il materiale, massime di Gero, sino quasi vicino alla Pioverna, come con estremo dolore e spavento da ognuno si vede». I testimoni oculari raccontarono che le case di Gero vennero trascinate intere per un tratto e che alcune, tra cui l'oratorio di San Giacomo, giunsero sino al piano, ivi sfasciandosi, mentre una parte del terriccio e dei sassi si abbatteva contro il vicino Barcone atterrando le costruzioni che guardavano Gero. Chi si trovava nelle dimore venne seppellito con quelle; più di cento, forse centoventi furono le vittime, e con loro si persero 400 capi di bestiame già ritirati dai maggenghi e tenuti nelle stalle. Accorsa la gente da ogni parte della valle, furono estratti vivi una madre anziana col figlio; la prima si salvò, l'altro morì; così pure venne tolto un pargoletto dalle braccia di una donna morente. Si trovarono solo dieci morti, che furono poi seppelliti nella chiesa di Primaluna. Due ragazzi di dieci anni, che stavano svellendo una ginestra sul monte quando si mosse la frana, vennero trascinati dal rovinio sino al fiume, dove si trovarono salvi, con il cespuglio in mano. Mentre fortunatamente in Gero, il villaggio più colpito, per assenza si era salvata una settantina di persone, in Barcone ne era sopravvissuto un centinaio, rimasto in parte senza tetto. Il lunedì seguente il cataclisma, giorno 22 del mese, il prevosto con una processione di sacerdoti e di valligiani portò una croce sul ghiaieto formatosi, fissandola là dove si era sfasciato l'oratorio di San Giacomo, e benedisse il luogo come se fosse un cimitero. Il fatto commosse tutta la valle e il Milanese. Si interessò il Magistrato Camerale e lo stesso ministro plenipotenziario conte di Firmian deliberò provvidenze, mentre il Magistrato della Sanità interveniva per prevenire infezioni provenienti dalla presenza di tanti cadaveri e di carogne animali; furono costruite muraglie, si spianò il terreno colpito e si spese molto denaro. Una visita alla valle per il timore che eventi simili si ripetessero mise in evidenza altri dissesti e furono stanziate grosse somme per ripararli, particolarmente in territorio di Pasturo. Negli anni seguenti, nonostante l'opposizione dei superstiti, i due Comuni furono aggregati tra loro in uno solo, di Gero e Barcone. La croce piantata presso la Pioverna che recava la leggenda: "In memoria dei 119 sepolti sotto la rovina di Gero e Barcone 1762" venne distrutta nel 1894. Dopo il colera del 1836 fu costruito un tabernacolo con un marmo dedicato agli avi sepolti. La tradizione assicura che dalle macerie si recuperò la campana dell'oratorio di Gero, che poi fu messa sul campaniletto di San Rocco a Primaluna. Ancor oggi dai terreni portati dalla frana, su cui si fecero campi, vengono in luce resti delle frazioni distrutte ed è recente il ritrovamento di un pettine femminile di rame.

Il crollo a Sernio

Il paese di Sernio sorge a monte di Tirano, sulla sinistra dell'Adda e sulla destra del torrente Valchiosa che ne è affluente, a quota 632 s.l.m., oltre 10 metri sopra il letto del fiume. Il suo territorio si estende al di là di questo, ai piedi del monte Masuccio, sui fianchi del quale la popolazione di Sernio, con riporti di terra retti da muretti, aveva realizzato nei secoli splendidi vigneti, ottenendo, per proteggerli, che il podestà di Tirano nel 1652 emettesse un'ordinanza che vietava il pascolo sulla sponda "ruvinosa e lubrica" del Masuccio sovrastante. La costituzione di tale monte, infatti, che Filippo Feranti nel 1814 affermò essere un "ammasso di macigni e terre argillose sminuzzate dalla coltivazione", provocò, dopo un autunno molto piovoso, nella notte del 8 dicembre 1807 una gigantesca frana che, con un terribile boato, si abbattè sull'alveo dell'Adda, distruggendo quattro torchi e cinque mulini e travolgendo con una casa investita gli occupanti, ossia una donna incinta, il marito e un figlioletto. La frana formò nella valle una barriera alta, nel punto inferiore, una quarantina di metri, provocando un invaso lungo due chilometri e mezzo, largo 800 metri, che giunse a quasi tre metri sopra la soglia della porta della chiesa di Sant'Agostino di Lovere (oggi Lovero), paese più in basso a nord-est di Sernio, sempre sul versante sinistro dell'Adda. Accorsero il prefetto del Dipartimento dell'Adda e tecnici delle acque e delle strade, si iniziarono lavori per abbassare il livello del lago, ma nel maggio del seguente 1808 il fiume stesso, al mattino di lunedì 16, distrusse la parte alta dello sbarramento. Lo sconvolgimento dell'invaso, provocando un deflusso di acque e di fango, distrusse persino il ponte di Tirano sul quale passava la strada principale della valle, spazzò via vigne e campi sino a Bianzone e a Berbenno. Il lago si ridusse tuttavia sempre di più e nel 1834 era quasi completamente scomparso.

La frana di Versasio

Sul finire dell'estate del 1882 l'insistere delle piogge provocò su tutto il versante meridionale dell'arco prealpino alluvioni che distrussero vigneti e cascinali, trascinando carogne di animali e cadaveri umani, coprendo di fango distese di campi. Alle 11.15 di sabato 16 settembre sopra la frazione Erna a Lecco dalle falde della montagna scaturirono getti di acqua formando un lago di fango e di ciottoli che, rotti gli argini naturalmente formatisi, con un sinistro boato investi le sottostanti abitazioni, andando a scaricarsi nel Caldone. Un uomo, che con due fanciulli attraversava la zona sconvolta, riusciva a salvarsi, ma fu testimonio della catastrofe che, facendo crollare sei case e due stalle, provocò la morte di cinque donne e di una bambina di tre mesi, facendo affogare nella melma 49 capi di bestiame. Giunsero da Acquate dei soccorritori, ma il pericolo di altri dissesti fece abbandonare dai superstiti la frazione. Benché disastri accadessero anche a Lecco, distruggendo il secolare ponte di Belledo sul Brione, e la strada maestra nel corridoio di Balisio venisse coperta dalle acque per un'altezza di cinque metri, obbligando ad attivare le comunicazioni tra Lecco e Valsassina con un servizio di barche trasportate dal lago, pubbliche sottoscrizioni nel territorio vennero incontro a chi era stato danneggiato, anticipando l'aiuto che il Ministero avrebbe poi decretato con legge speciale il 27 dicembre 1882.

Frane di oggi e di domani

I dissesti naturali non cessano e non cesseranno. Sono di un immediato ieri quello del 1834 in Valtellina, i tanti altri di quella valle, quelli cospicui del San Martino di Lecco e della ferrovia di Airuno. Né basteranno certamente le opere dello Stato per il vallo a protezione della 36. Diventeranno così profetiche le parole di Antonio Stoppani: "La presente generazione e molte venture non avranno a far altro che difendersi dai piccoli disordini creati dal lento lavoro degli agenti naturali, finché verrà tempo che, a furia di difendersi e adattarsi, la popolazione di queste amenissime terre, monti e lago, si troverà diventata senza accorgersi abitatrice di una sola grande valle, percorsa semplicemente da un fiume che continuerà ad essere chiamato Adda".

Le alluvioni

Alluvioni provocate da nubifragi o dall'insistere del maltempo, primaverile o autunnale, furono, e tuttora sono, frequenti nelle zone montane percorse dall'Adda. Basta osservare la fitta rete dei torrenti che affluiscono al fiume e l'asperità del loro percorso, reso verso il basso ripido e incassato dagli eventi geologici, per comprendere di quali disastri fossero apportatori, prima che gli interventi dello Stato avessero attutito le conseguenze dell'insistere delle piogge.

Acque a Como

Quando Comum Oppidum sorgeva sulle colline del terminale del Lario, la piana dove ora è l'abitato della città era paludosa e vi giungevano gli sbocchi del Cosia e del Breggia, sovente in piena. 1 Romani prima di fondarvi la Novum Comum e trasferirvi gli abitatori di Comum Oppidum che avevano subito nel 89 a.C. l'incursione dei Vennoneti, e dedurvi cotoni, la bonificarono, arginando i due fiumi. Grandi piogge nel corso dei secoli, in particolare quella del 1673, provocarono irruzioni del torrente Cosia, riuscite funeste ai Borghi negli anni 1646, 1648, 1673, 1678 e 1679. Se ne parla in una relazione del 1685.

L'alluvione a Sondrio del 1834

Tra le alluvioni che colpirono la Valtellina e la Valchiavenna la più memorabile fu quella dell'estate del 1834, sia per le distruzioni seguite in Sondrio che per i crolli della strada dello Spluga da poco aperta. Mentre di questa già mi occupai in altro studio, accenno qui ai disastri provocati dall'iruenza del Uro e del Mera, traendo notizie dalla relazione fatta dall'arciprete di Cordona don Giacomo Biavaschi. Il 27 agosto 1834 un violento nubifragio ingrossò il Liro e il Mera talmente che il vasto piano da Chiavenna al lago di Mezzola venne ricoperto di sabbia, di ghiaia e di sassi con distruzione dei vigneti e dei gelsi. In vai San Giacomofurono travolti i ponti e il santuario di Gallivaggio venne distrutto dalle fondamenta; dopo giorni alcuni pescatori di Gordona, tuttavia, trovarono tra la sabbia presso Montano il simulacro della Madonna col volto intatto, e si gridò al miracolo. A Vho, poco lungi dal santuario, tre giovani, che si erano caricati la vecchia madre per portarla a salvamento da una casa minacciata dalle acque, vennero travolti sulla soglia del torrente e vi perirono. Molte famiglie rimasero, in Val San Giacomo, senza tetto. Sopra Gordona franò il monte per la Val del Faggio formando un piccolo lago dal quale a malapena l'acqua riuscì ad aprirsi una via. Mentre un po' ovunque in Valtellina e sul Lario i torrenti straripavano portando danno, gravissime furono le distruzioni in Sondrio provocate dal Mallero. Il fiume, provenendo dalla Valmalenco arricchito dai torrenti Lanterna, Torregia e Antognasco, portando le acque del Disgrazia, del Bernina e dello Scalino, già il 27 agosto 1817 aveva recato alla città gravi danni, ma nel 1834, nello stesso giorno e nello stesso mese, distrusse moltissime case e devastò la città. Scatenatosi il nubifragio nella mattina del 27 con più di nove violentissimi temporali, mentre la gente correva al fiume e si rendeva conto della minaccia verso la sponda sinistra, iniziava il crollo delle case investite dalle onde. Il primo a soffrirne fu il pittore Pietro Martire Rusconi, il cui studio venne travolto: seguiva la nuova casa Valperta, di cui era inquilino N.R. medico provinciale dott. Balardini, che fu posto in salvo dal nobile Azzo Carbonera, uno tra i più solleciti della città. Le acque raggiunsero presto la piazza Vecchia, investendo tutte le case che la fronteggiavano, tra cui l'albergo delle Poste. Botteghe di negozianti furono devastate dalle onde; nel gran muoversi della gente per cercare scampo furono visti anche cavalli e vacche, salvatisi dalle stalle. Anche il Cantone sulla destra del Mallero fu invaso dalle acque. Poche, fortunatamente, furono le vittime: due sorelle, una inferma da quindici anni assistita dall'altra, al cadere della propria casa vennero trascinate dalle onde; si trovò il cadavere di una col crocefisso tra le mani lungo un alveo abbandonato e le poverette furono seppellite presso la chiesa di Nostra Donna alla Sassella. Assente l'I.R. Delegato e l'ingegnere capo, si davano da fare il vice delegato e il podestà di Sondrio, nonché dei volonterosi, quali Azzo Carbonera, un vice caporale di gendarmeria, un canonico e un ingegnere agiunto accorso da Morbegno. La piena continuò anche il giorno 28, mentre ogni famiglia alloggiata in case non minacciate accoglieva parenti ed amici. L'ingegnere capo Carlo Donegani giunse da Chiavenna, dove lo occupavano i franamenti della strada dello Spluga, per un breve sopralluogo, nel corso del quale dispose un rafforzamento agli argini. Anche lungo la Valmalenco la piena aveva portato danni a paesi e a casolari. Si mise naturalmente in moto, per provvidenze, la macchina statale austriaca.

Il nubifragio del 1911

Nei giorni 21-22 agosto 1911, dopo una splendida estate, alla vigilia di un raccolto che si preannunciava felice, scoppiava sulla Valtellina e sul Lario un violento nubifragio, che col persistere delle piogge gonfiò talmente i torrenti da provocare rovine su tutto il territorio. Nella Val Chiavenna piene della Val Loga portarono danni ad Isolato; più giù il torrente della Val dei Ratti distrusse mezza Verceia; in Val Masino, Cataeggio fu travolto dal torrente; il Lesina fece disastri a Delebio, il Bitto da Gerola a Morbegno, dove abbattè il ponte di ferro trascinandolo per un chilometro. Lungo l'Adda i danni più grossi si ebbero dove gli affluenti sfociavano nel fiume, a Talamona, a Campoviso e Berbenno; il Madrasco uccise tre persone nell'alta Valmadra, seppellì mulini e case a Fusine; il Cervia travolse case e coltivi a Cedrano, facendo sei vittime; Postalesio ebbe un morto; ad Albosaggia le piene della valle del Livrio seppellirono quattro case, altre ne danneggiarono; il Mallero mise in pericolo Sondrio e fu miracolo che non si ripetesse il disastro del 1834; il torrente Ron danneggiò fortemente i territori di Ponte e di Tresivio; il Fontana Chiuro. Poi, su su, devastazioni avvennero a Villa di Tirano, a Grosio, a Tiolo, a Sondalo, fino a Bormio, dove il Frodolfo inghiottì intere praterie. Poco da meno furono i disastri sul Lario e nelle sue valli. Trovo ricordati in un diario di mio padre i disastri a Pianello del Lario, dove morì una donna, ed io, che ero allora un ragazzetto di cinque anni, condotto da mio padre nella piana di Porlezza, ricordo ancora l'impressione che mi fece una locomotiva del trenino della Val Menaggio, sepolta per metà dalla ghiaia trasportata dal torrente Rezzo che scendeva in piena dai monti. Nel 1927 un tremendo nubifragio ripetè i disastri del 1911 e in molti di noi ne è vivo ancora il ricordo.

Le valanghe

Le valanghe erano una calamità naturale, ma sovente l'uomo stesso le rendeva frequenti per i disboscamenti sconsiderati che faceva. A Gerola, in valle del Bitto, ad esempio, interesse alla legna per produrre carbone destinato ai forni del ferro condusse a un taglio di piante così dissennato che nel 1836, nella notte tra il 29 febbraio e il 1 marzo si staccò una valanga tanto estesa da abbattere l'intero abitato delle Case di Sopra, giungendo persino alla casa del parroco presso la chiesa. I morti furono una novantina e vennero ritrovati allo scioglimento primaverile della neve. Quell'anno, in verità, ne era caduta grande abbondanza, tanto che il 27 febbraio un cavallante, salendo da Lecco in Valsassina, non riuscendo ad aprirsi il varco nella neve che aveva superato un metro di altezza, sfatto dalla fatica, si adagiò presso la Fontana fredda di Ballabio, morendovi assiderato. Una lapide ricorda un caso simile avvenuto nel 1827 sulla strada di Morterone, nel percorrere la quale Giovanni Invernizzi di 36 anni fu «arrestato e soffocato dalla neve». A Gerola si compresero naturalmente i motivi del grosso disastro e da allora i boschi sovrastanti le abitazioni divennero intoccabili; così a Fenile il «Pegherone», così sopra la Foppa il «Tonso di Ravisciala». Similmente sacro era il bosco sopra Cavargna, detto Dolai, tanto che il proverbio ammoniva: Se Dolai no ghe fuss, Cavargna Granda la saress nel Cuce «Se non ci fosse Dolai, Cavargna sarebbe nel torrente Cuccio». A Premana accadde nel 1863, l'11 gennaio, mentre i fedeli erano raccolti in gran numero nella chiesa di San Dionigi ad ascoltare la predica del parroco nel corso della Messa, che dall'alto del monte sovrastante, assai povero di alberi per i continui tagli, si staccasse una valanga; abbattutasi sulla chiesa, mentre i muri reggevano, la porta si spalancò e la violenza dello spostamento d'aria fu tale che tutti rotolarono verso l'altare; nessuno fu ferito. Da allora, ed ancor oggi, venne nell'annuale ricorrenza celebrata una festa, detta «della riconoscenza», liturgicamente abbinata alla celebrazione delle Quarantore. Il fatto è ricordato come un miracolo, pur essendo, anche se si vuol vedere solo in un campo trascendente, un avvertimento all'uomo della sua sconsideratezza. È certo, comunque, che dall'ammonimento quei di Premana fecero tesoro, perché da allora rispettarono il bosco. Non è tutto qui. Nel 1869, in comune di Orandola della Val Casargo, sul monte Valmarcia una valanga abbattè dodici cascine. Nel 1881 due cacciatori furono travolti da una valanga sul Monte Croce di Esino; uno dei due rimase sotterrato, l'altro riuscì ad emergere; avvistatolo, dal paese gli andarono incontro, ma, raggiuntolo ed estrattolo dalla neve, anche quello morì. In questo secolo non mancarono vittime di valanghe: l'undici febbraio del 1909 due finanzieri furono travolti a Pradello in Valle Intelvi e, sempre in quella valle, ad Erbonne, l'otto gennaio 1915 uno smottamento di neve si abbattè su stalle seppellendovi il bestiame; né pochi furono i casi di contrabbandieri. Nell'alta Valtellina e nel Chiavennasco, soprattutto nei paesi più elevati, dove l'inclemenza invernale è di casa, si era più attenti alle valanghe e alle slavine di neve e quindi non molto rimase nel ricordo. Oltre la distruzione di Gerola, memorabile fu l'abbattersi di valanghe sulla strada dello Stelvio negli anni del 1800 in cui anche d'inverno se ne teneva aperto il passaggio dai rotter, che precedevano e assistevano i traini. Nel 1886 una valanga distrusse e trascinò a valle a Spondalunga la cascina di servizio con uomini e cavalli che vi stavano. Rimase leggendario il passaggio dallo Spluga del generale Macdonald con un esercito di 12000 uomini che, partiti da Splùgen il 27 novembre 1800, raggiunsero Chiavenna il 6 dicembre diretti all'Aprica. Ancora si narra che lungo l'impervio tratto sopra Campodolcino, dove quell'esercito perdette uomini e mezzi per slavine di neve, nei giorni nebbiosi invernali si ode un'eco lontana di fanfare militari.

Leggende di abitati scomparsi

La tradizione di antichi abitati distrutti da cataclismi naturali e ricostruiti in posizione più felice è diffusa in molti villaggi ed è in genere accompagnata da leggende diaboliche di streghe e di esorcismi. A Dosso del Liro nell'alto lago occidentale narrano che il paese un tempo sorgeva più all'interno della valle, a Ganda, e che una frana, suscitata per sortilegio da una strega in odio ai compaesani che la detestavano, lo distrusse. Similmente, si assicura che ad Onno, nel ramo lecchese del lago, una parte dell'abitato, detta San Fedele, fosse stata abbattuta da frane e da acque rovesciatesi dal sovrastante laghetto di Crezzo per volontà di forze infernali. Nel mio stesso paese una leggenda tramandava la notizia della distruzione della parte più alta dell'abitato causata da un'alluvione suscitata da un incantesimo, accompagnata dalla scomparsa di un laghetto glaciale; quando ero sindaco scavi fatti misero in luce vetustissime fondamenta murali e ricerche idriche confermarono la possibilità della antica presenza di un laghetto glaciale, poi scomparso. Simile tradizione si ha a Primaluna. La vetusta chiesa di Sant'Alessandro a Lemna di Faggeto Lario, ancora praticata durante le visite dei vescovi Ninguara e Archinti alla fine del XVI secolo, fu distrutta, secondo la tradizione, da una frana e a testimonianza rimase il campanile romanico, poi colpito da un fulmine nel 1866 e abbattuto nel 1928. A Porlezza si è recentemente restaurata la chiesa di San Maurizio di cui solo Patissimo campanile negli ultimi secoli emergeva dalla frana rovesciatasi, non si sa quando, forse nel 1200, dal retrostante monte Calbiga. Non pochi sono analoghi fatti accaduti in Valtellina: così a Morbegno, un tempo situata poco lontana dall'Adda e poi eretta più in alto, così a San Giacomo e Filippo sopra Chiavenna dove leggende aleggiano attorno al santuario dell'eremita Guglielmo, così a Roncaglia di Valbregaglia, le cui abitazioni e la chiesa vennero distrutte verso la metà del 1600 dalle acque in piena delle valli Pluviosa e Diana, che lasciarono intatto il campanile di Sant'Abbondio, ancor oggi emergente nel verde dei castagneti. Una poetica leggenda tramanda di un villaggio esistente a Lenno, trascinato nel lago dal crollo della riva e racconta che un giorno, richiamati da un flebile suono di bronzi, quelli del luogo, affacciatisi all'acqua, videro sul fondo del lago un campanile di cui le onde muovevano leggermente le campane.

Lo spaventoso cataclisma del 1815

Nel 1815 il Tambora, un vulcano dell'isola di Sumbawa nell'Indonesia, ebbe una spaventosa eruzione che ne ridusse l'altezza di 1300 metri, scaricando nell'atmosfera oltre 100 miliardi di metri cubi di polvere finissima. A Giava, pur distante 300 miglia, il cielo fu coperto da dense nubi che il sole per lungo tempo non riuscì più a penetrare. Una pioggia di ceneri coprì tetti, strade e campi con uno strato di parecchi centimetri, mentre in quella paurosa oscurità giungevano i rombi delle esplosioni che impaurirono talmente da fare immaginare alla guarnigione militare olandese che si trattasse di colpi di cannone sparati da pirati e da fare inviare navi a portare soccorso ad ipotetici punti della costa assaliti. Nel mare si andavano formando isolette di pomice, che ancora quattro anni dopo galleggiavano sulle onde. La polvere proiettata dall'eruzione alle maggiori altezze andò diffondendosi dall'Indonesia a latitudini più alte e mantenne per due anni una corona che interessò l'intera Europa, Canada e Stati Uniti: un freddo intenso sopraggiunse nell'estate del 1816; si ebbero tre ondate di gelo fuori stagione, una all'inizio di giugno, una dopo un mese e una verso la fine di agosto. La neve riapparve sulle colline, il gelo indurì i campi, la brina vi si depositò, le colture furono devastate, le foglie degli alberi si annerirono. Tra un sopraggiungere di freddo e l'altro, accompagnati da venti e da tempeste, giorni di caldo portavano una ripresa delle coltivazioni, ma le speranze appena formulate crollavano. Si scriveva in tutto il mondo della scarsità di cibo e la cronaca dava notizia di agricoltori costretti a macellare i propri greggi e addirittura di altri impiccatisi per le privazioni. La gente si infagottava di panni e i prezzi delle derrate salirono alle stelle. La paurosa deficienza di viveri ebbe gravi risvolti sociali: in Francia si collegò la situazione economica alla sconfitta subita nel 1815 da Napoleone a Waterloo e alle devastazioni militari; erano sufficienti banali imposizioni di tasse per far scoppiare tumulti. L'indebolimento della popolazione in Oriente per la deficienza alimentare fu responsabile della prima epidemia di colera, che, nato nelle terre di pellegrinaggio del Gange, si propagò all'Afganistan e al Nepal, per raggiungere poi il Caspio e di là diffondersi verso di noi. Gli scienziati attribuirono i motivi dell'anno del gran freddo al formarsi di macchie solari e all'espandersi dei ghiacciai artici nell'Atlantico settentrionale. Solo da non molto si conosce la vera origine di quella tragedia, il cui ricordo lasciò nei nostri bisnonni la paura del ripetersi di un anno senza uccelli, l'ann del dersett, che, come esporrò scrivendo di carestie e di morbi, seguì il più spaventoso anno di fame che nella storia si ricordi.

Orsi, lupi e vipere

A rendere ancor più difficile la vita della nostra gente, quasi non bastassero morie e disastri naturali, vi erano gli animali feroci. Che per allontanare gli orsi si facessero suoni e rumori lo raccontavano, decenni orsono, persino a Brunate, dove in passato le fiere scendevano dal monte San Primo. E a Torno si diceva che in ogni cascina era uso tenere una specie di tamburo da impiegarsi quando i bestioni apparivano. In un diario del secolo scorso sta scritto dei bambini: «Fatti grandicelli, gerlo in spalla e fuori a custodire capre e pecore, cordurle al pascolo e, quando le vedevano assalire dall'orso, gridare e far rumore per vedere di spaventarlo». Dei lupi, poi, quando era ragazzo i vecchi mi raccontavano ancora molte storie, il che dimostra che la loro scomparsa non era troppo lontana. Uno ricordava addirittura l'ultimo attacco di tre lupi a un «monte» del mio paese, dal quale non si erano ancora ritirate le mucche per portarle al villaggio: la neve, mi diceva, era caduta quell'anno assai precoce e le belve, affamate, avevano raggiunto a sera tarda la stalla; lui e un compagno erano rimasti assediati tutta la notte e, mentre le vacche muggivano paurosamente, avevano tenuto a bada con le forche i lupi che tentavano di entrare dalle finestrelle. A Tremenico si raccontava di una calata notturna di lupi sino alla piazza della chiesa sul finire del secolo sventata dalla gente del luogo, accorsa con tizzoni ardenti. A Buggiolo, nella Valle del Rezzo, ancor oggi si conserva memoria di un lupo che scese in paese e portò via un bambino dalla culla. In Valchiavenna, sulla montagna di Cranna che si affaccia sulla Valbregaglia italiana dove sorgeva Piuro, un maestro intelvese, Giovanni Maria Quaglio, fu chiamato nel 1674 a costruire una chiesa dedicata a San Giuseppe al posto di una precedente cappella eretta a protezione di lupi che infestavano la zona. Ho cercato di sapere dalle vecchie carte qualcosa di più su quello che per secoli dovette essere un continuo incubo per i nostri avi, e ho raccolto notizie sui vari nostri paesi, su quelli che hanno le montagne alte principalmente. Premetto, innanzitutto, che la piaga delle fiere era vecchia quanto l'uomo e che sempre diede gravi preoccupazioni ai governanti. Lo rivelano i più antichi statuti: quello di Bormio, compilato nel 1300 e rimasto in vigore sino al 1797, nell'articolo 216 commina un premio di quaranta soldi per chi cattura un lupo grosso e di cinque per chi prende un lupacchiotto; nell'articolo 217 sono stabilite da quattro a otto lire per ogni orso, da consegnarsi al macello comunale; negli statuti della Valsassina al capo 156 è indicato un premio di settanta soldi terzuoli per un lupo grosso e di venti per un lupacchiotto, mentre negli statuti di Milano per il territorio tra Adda e Ticino nel capo 448 venivano fissate quattro lire imperiali per un lupo grosso e la metà per un lupo piccolo. In una grida di Ludovico il Moro del 1472 i compensi vennero addirittura raddoppiati rispetto ai precedenti e quadruplicati per lupi rapaci «avidi di carne umana». Nel seguente 1475 il premio fu portato a quattro ducati; tanta era la diffusione della fiera! Del 1504 si ha una notizia raccappricciante: in un solo giorno nelle campagne milanese e comasca i lupi uccisero venti fanciulli sparsi per i pascoli a custodia di greggi; durante Testate del 1500 nel solo Luganese ne avevano trucidati trenta. Venne concesso, allora, di portare armi e alla guardia degli armenti si andò in comitive, che nel dialetto antico erano chiamate ausende o usende. In un diario dei Torriani di Primaluna è scritto nel nel 1600 e nel 1601 orsi e lupi erano talmente aumentati che gli uomini in certe ore non osavano uscire dalle case. Fu forse proprio in quei tempi che si introdusse l'abitudine, da me già illustrata, di chiudere con alte porte a catenaccio le entrate nei paesi durante l'inverno, quando cioè il bestiame era tenuto nelle stalle dei villaggi. L'audacia dei lupi era infatti senza limiti. Ho una cronaca esinese del 1564 in cui è scritto che in una notte di autunno, guidati forse dall'odore, in quanto il morto era stato ferito in una rissa e seppellito fuori dalla terra consacrata perché colpevole di eresia imparata lavorando quale boscaiolo nella Valtellina grigiona, alcuni lupi famelici dissotterrarono il cadavere trascinandolo giù per la ripa e facendone scempio. Ancora nel Settecento, benché meno grave, il flagello continuava: in una supplica del 1751 al Governo, i Valsassinesi, chiedendo che fosse loro concessa esenzione da tasse su boschi e su pascoli, facevano presente che l'agricoltura e l'allevamento erano assai ostacolati dalla presenza di lupi e di orsi, per i quali veniva accordata una taglia, rispettivamente di lire 24 per i primi e di lire 12 per i secondi. Precisavano che mediamente venivano uccisi ogni anno non meno di 12 lupi e di 6 orsi. Nell'Archivio di Stato di Milano è ancora conservato un fascetto di ricevute del Notaio del Pretorio, a cui coloro che avevano ucciso un animale feroce dovevano presentare la pelle, dopo averla fatta bollare dal baricello sotto il naso con un segno di croce fatto con ferro rovente. Si sarà notato come il premio per un orso fosse la metà di quello concesso per un lupo, in quanto il primo animale era considerato meno pericoloso, come dimostra del resto il fatto che i pastorelli riuscivano a metterlo in fuga con frastuoni e con rumori. Mentre ho potuto raccogliere molte notizie su catture nel 1700, con l'aumentare della popolazione e quindi con l'avanzare della presenza umana anche nei luoghi più reconditi, le fiere andarono scomparendo in Brianza e sul Lario; l'ultima uccisione df un orso in Valsassina è del 1867, a Premana del 1881, e nel Colichese del 1885. I lupi, come esposto, erano ancora nel ricordo quando io ero ragazzo, ossia presenti ancora alla fine del secolo scorso. Diverse, naturalmente, erano le cose in Valtellina: un'accurata schedatura cronologica, ricavata da giornali, registra casi ancora frequenti di presenza dell'orso dal 1885, sempre più diradati sino al 1905. Preferiti dal plantigrado erano i boschi delle Orobie, ma la sua presenza era notevole in quegli anni anche nel Chiavennasco e sui monti tra Val di Sotto e Val di Dentro. Mario Cermenati osservò scrivendo nel 1887,1888 e 1894, che le località più frequentate e dalle quali gli animali irradiavano nei territori vicini erano il fitto bosco della Margata vicino a Castello dell'Acqua, in faccia a Teglio, la zona valliva tra Val Cervia e Val Tartano, quella sopra Morbegno e Val Gerola, da cui gli orsi raggiungevano la Val Lesina e il Legnone. Il Cermenati precisava che la fiera non era aggressiva, si limitava a difendersi e che attaccava solo pecore e capre. La toponomastica sia della Valtellina che delle valli lariane e bergamasche testimonia la presenza nel passato degli orsi e dei lupL =j Da quella presenza effettiva gli uni e gli altri passarono alla leggenda, e ne scriverò. Alla leggenda passò anche l'eglìele, l'aquila che io ebbi ancora la ventura di veder distendere «il nero volo solenne» nel cielo della mia valle. Poi il lupo trasmigrò alle fiabe per i bambini, non più feroce e truculento, ma sciocco e credulone, compare gabbato dell'astuta volpe, anche questa sempre più rara, braccata per via della rabbia che porta attorno; animale tanto interessante pur esso, come ebbi occasione di constatare in quella femmina che veniva sul limitare dell'orto di uno di lassù a chiamare il grosso cane che vi stava e poi correva con lui nel bosco per passarvi una notte d'amore, e continuò la tresca sinché il cane finì male per una schioppettata, e ancora per qualche notte si sentì squittire per richiamo, guaire quindi « di inquietitudine, per levare, alla fine, alti ululati di dolore. Ne rimasero, di animali pericolosi, e purtroppo si moltiplicarono là dove l'uomo ha abbandonato il territorio lasciando che erbe selvatiche, rovi e virgulti chiudano in un arruffato disordine i sentieri antichi: le vipere. Ora, a rendere innocuo il morso vi sono i sieri; un tempo i rimedi erano primitivi e allora bisognava guardarsi, specialmente dalla varietà scura di color ferrigno, la berus, detta in dialetto semplicemente vipera, che entrava sovente anche nelle case, portatavi in qualche fascina di frasche da bruciare; l'altra, l'aspes, più tozza, quasi marrone con grandi macchie brune, temibile specialmente quando di primavera esce dal letargo, incuteva meno spavento; non vi era montanaro, ragazzo che fosse, a lasciarsi sorprendere; appena la vedevano, subito un sasso volava e quella restava stèsa in terra col capo fracassato. Quando riusciva, calpestata tra l'erba, a mordere una gamba, allora il malcapitato si faceva un taglio col curlascin, raggiungeva un compagno che gli succhiava il sangue e gli cauterizzava la ferita con un ferro rovente. Non si lasciava poi che il poveretto dormisse; ricordo (avrò avuto non più di dieci anni), che sotto casa mia, dove c'è un lungo corridoio erboso tra due file di piante, un uomo venne fatto passeggiare per un giorno e due notti; lo tenevano a turno sottobraccio, lui si lamentava che voleva dormire, quelli lo scuotevano e l'obbligavano a camminare senza posa. Si salvò, ma ebbe a lungo disturbi. Che la vipera fosse pure tanto temuta lo dice un antico gergiòl. Vi era dipinta prima la Madonna di Lezzeno, ma fu poi sostituita da una statuetta dell'Immacolata che schiaccia il capo al serpente. È scritta questa dedica: Eretta nel 1885 / da Spazzadeschi Alessandro / miracolosamente scampato / da mortale insidia di tre serpi / Restaurato dal figlio Alessandro / morso da vipera/e pur lui salvato. Conoscano dunque queste testimonianze i nostri ragazzi e le conoscano anche i cittadini che vengono nei nostri paesi durante i facili giorni dell'estate e ne vedono l'aspetto oggi domestico e garbato. Sappiano come fu dura la vita dei nostri vecchi, sempre all'erta per il pericolo che, pur nei momenti più impensati, sovrastava; sappiano e giustifichino così, comprendendo, il carattere nostro che non ha perduto ancora certe durezze e certe diffidenze.