...ma la storia più divertente è quella del "Giovanin perdu"
Pietro Pensa, ...ma la storia più divertente è quella del "Giovanin perdu" in L'Ordine, 8.12.1978.
Molto amore, in ogni tempo, per i fanciulli: l'avere figli fu sempre considerato lo scopo della vita.
La mortalità dei piccoli era, sino all'inizio di questo secolo, assai elevata: sui registri delle nascite conservati nelle parrocchie, è ricorrente l'annotazione dei neonati battezzati all'atto del parto dalla levatrice e poi subito morti.
Quando tutto andava per il meglio, era di rito portare il bimbo alla chiesa nel giorno che immediatamente seguiva quello della sua venuta al mondo: tanto era il timore, per la triste secolare esperienza, che male potesse accadergli.
Viveva ancora, al Portone, non molti decenni orsono, un vecchio la cui vicenda era in proposito, significativa. E' il Portone una frazioncina del Monte di Varenna, posta però nella Valsassina inferiore, assai lontano, cioè, dal comune di appartenenza, per motivi storici che ne facevano un punto forte, dal quale passarono anche i Lanzichenecci.
I pochi abitanti che vi stavano erano curati dalla chiesa di Gittana per raggiungere la quale in tempo buono occorre più di un'ora e mezza di cammino seguendo un sentiero che ancor oggi è chiamato "strada dei morti" per via delle bare che lungo di esso si portavano alla sepoltura.
Il vecchio di cui diceva era nato là verso la metà del secolo scorso, nel mese di gennaio, in un anno di gran neve. Lo avvolsero stretto stretto con le fasce di canapa, come una piccola mummia, lo coprirono di lana, lo posero in una gerla appena fatta che la comare si mise sulle spalle. Il padre ed il padrino aprivano la strada, facendo la calata nella neve. Dopo quattro ora di fatica i tre giunsero alla chiesa, il parroco battezzò il bambino e gli impose il nome di Giovanni. Prima di riprendere il cammino, i due uomini, un po' per festa e un po' per ridarsi forza vollero bere un sorso di nostranello, che sul Monte di Varenna aveva fama d'esser buono. Nel ritorno, già che la strada era ormai battuta, davanti camminava la donna, poi il padrino e da ultimo il padre che questa volta portava lui la gerla col piccino.
Giunsero al Portone che incominciava ad annottare e la madre attendeva, impaziente di allattare. Tolsero ìa gerla, ma il neonato era scomparso.
Il padre ricordò che, forse per stanchezza, forse per via del vino, era scivolato: certamente il figlioletto era rotolato nella neve. Tornaron tutti indietro ed era buio e s'era messo a nevicare. A mezza strada ritrovarono il bambino, era coperto ancora dalla lana e qualche centimetro di neve fresca aiutava a tenerlo nel calduccio.
Successe poi che in paese completarono il battesimo e ancora quando lo conobbi io lo chiamavano «Giovanin perdu» e fu lui a raccontarmi la sua storia.
La madre dava il latte al bambino sino a tardi e non era difficile vedere qualche piccolo, già di due anni, interrompere di giocare coi fratelli per andarsene dalla mamma che stava lavorando, e succhiare un po' di latte. Era credenza diffusa che una donna non restasse incinta sin che allattava e le poverette, troppo afflitte dalla maternità, speravano così di rimandare nuove sofferenze.
Quando andavano nei campi a lavorare, era generalmente la vecchia nonna che portava
nella gerla la cuna col bambino ben fasciata e che poi, mentre la madre lavorava, accudiva il lattante e i fratelli più grandini. Faceva pena e tenerezza veder delle nonne, ancor più vecchie che gli anni non comportassero, andar zoppicando con la gerla sulle spalle, e poi sedute sopra un sasso, filare e badare alle malefatte dei nipoti, perdendo la voce a richimarli per farli attenti ai pericoli.
Mentre le puerpere, dopo pochi giorni dal parto, riprendevano la loro partecipazione ai lavori agricoli, erano invece esentale dalle attività donnesche se i primi mesi dalla nascita del figlio cadevano in tempo invernale, forse perché il tipo di attività non favoriva l'afflusso di latte. Tale singolare fatto è espresso anche da un detto: Chi leva no fa gnà fil gnà tela (Chi alleva, non fila e non tesse).
Per addormentare il bambino mentre si dondolava cuna, si canticchiavano i "nainan", sorta di cantilene ritmate, che, se pur prive di nesso preciso suscitavano figurazioni poetiche:
Nainan nainan nainan nainoie
quand che te saré grand te'n daré a scole.
E te 'ndare a scòle a sant Gioan,
se no t'imparare al sarà dagn to dagn.
Ol me ben temp in du el monai (ragazzi) andàa,
mi l'ho perdù e i oltri aglià trovàa.
Mi l'ho perdu al tòr d'un laresin
al l'ha trovàa el pighess (ragazze) ch'andave in Ciarin.
Mi l'ho perdu al tor d'une bedoie
al l'ha trovàa el pighess ch'andave a fa la foie (a raccogliere le foglie secche per lo strame)
Ol me bon temp in du el monai andàa
mi l'ho perdu e i oltri aglià trovàa
Nainan nainan nainan.
Se il piccolo non si addormentava e persisteva ad essere inquieto, gli si somministrava un po' di infuso di papavero!
Appena svezzato, al bimbo si dava il povero cibo di tutti, ma, giacché non era per lui digeribile, la madre lo masticava accuratamente e, toltolo poi di bocca ben insalivato, col cucchiaio di legno glielo porgeva: poca sì l'igiene, ma molto rispetto alla norma «prima digestio fit in ore»!
Il padre costruiva un ingegnoso attrezzo che permetteva al figlioletto, posto diritto nel foro tondo di un assicello di castagno scorrevole tra due guide sostenute da montanti su una piattaforma allungata, di correre avanti e indietro e di imparare cosi a camminare. Appena aveva un'istante di sosta, la madre però, come tutte le madri di questo mondo, se lo poneva sulle ginocchia a tenendolo per le mani lo buttava all'indietro e lo riprendeva, canticchiando una delle moltissime filastrocche:
Trà un scià, tra in là
in d'ol brei de la mi cà.
Va a Belàn per pan,
a Comm per pomm,
in Valtoline per farine,
buie buie petascine.
Fatti più grandicelli, i maschietti venivano vestiti, sino ai cinque anni di età, con un pelandrin sorta di tunichetta cucita con avanzi di mezzotono che li rendeva simili a tanti fratini; in testa durante l'inverno portavano una cuffietta composta da due pezze a triangolo della stessa stoffa, quasi piccole mitre, tenute da due legacci sotto il mento. Le ragozzette portavano una camiciola e una vestina, o traverse, un tantino più lunga, un fazzoletto sul capo, e un grembiulino. Gli uni e le altre quando non andavano a piedi nudi infilavano zoccolette.
Non era raro il caso di vedere sorellina o fratellino maggiore messi alla custodia dell'ultimo nato anche sa da poco, essi stessi avevano imparato a reggersi da soli.
Nutriti con qualche castagna, o con una focaccetta di biada, con un po' di latte avevano sempre fame!
Pure, la sera, i genitori si dedicavano con affetto a loro con piccoli insegnamenti, cercando di aiutare nella pronunzia i più piccoli con scioglilingua e di render pronti di ingegno i maggiori con rompicapi.
In un paese noto per la peculiarità linguistica del sc alla genovese, composto di due frazioni, una più in alto denominata Crées, una più in basso, Piàag, che si canzonavano tra toro proprio per via della diversa altitudine, si scioglieva la lingua ai bambini facendo loro dire più volte e sempre più in fretta: Quand a Crées el pscioca (fiocca, nevica) A Psciàag el psciov (piove).
Ma pittoreschi erano soprattutto i còos bes còos, gli indovinelli. Eccone alcuni:
- Al va ent pien, al ve fò oido Entra pieno, esce vuoto: "il Cucchiaio"
- A l'è me, al tegno mi; a glie dòvre i oltri, ma mighe mi. È mio, lo tengo io: lo adoperano gli altri, ma non io: "il proprio nome"
- Une vege vege, la gà ent apena un denc, la s'fa senti da tut la gent Una vecchia vecchia, ha un solo dente, ma si fa sentire da tutti: "la campana"
- No s'va mighe in lecc content se no l'è un tocch in ent Non si va a letto tranquiiii se non è spinto dentro: "il catenaccio"
- Al va ent biench, al ve fo negro; al va ent negro e al vée fo biench Entra bianco, esce nero: entra nero, esce bianco: "il sacerdote che va e viene dalla sagrestia"
- Longhe, longagne, che stravalghe la muntagne Lungo sempre più lungo che valica la montagna: "il sentiero".