Un volontario della spedizione Medici
Articolo di Pietro Pensa in Martinella di Milano, 1961 (fasc. XII), pp. 543-564
Quando avviene, nel parlar di cose e di gente del Mezzogiorno, che il mio interlocutore cada nel luogo comune, troppo comune ahimé in questa nostra Italia così poco fattasi da esser tutta intenta a spezzettarsi in Regioni un'altra volta, di voler tagliare al Po la misera Penisola, le mie proteste sono tanto risentite da meritarmi l'epiteto di meridionalista. Né me ne inquieto, vuoi perchè sono convinto difensore della gente di laggiù che, posta tra noi, dopo breve tempo sa diventar milanese più di noi nel perdere il gusto della vita per lavorare come forsennata, vuoi perchè mi sento erede di una vecchia colpa di famiglia: il mio nonno fu infatti uno dei duemilacinquecento volontari del generale Medici che aiutarono Garibaldi a conquistar le due Sicilie.
E già che oggi tanto si scrive attorno ai Mille, voglio raccoglier qualche nota su quelli ohe li seguirono, che, pur vantando una battaglia di Milazzo, ebbero la sorte che tocca sempre a chi vien dopo, di essere cioè scordati e trascurati.
Spigolerò qua e là da un fascio di vecchie lettere, qualcuna scritta a penna con accurata calligrafia, altre vergate affrettatamente a matita, e da un piccolo taccuino stampato nel 1859 con le date di quell'anno, ma contenente appunti del 1860, fatti durante la campagna di Sicilia da nonno Pietro, studente di 20 anni che offriva con semplicità la vita «per far l'Italia unita».
Prima mi si conceda però di raccontare come venni in possesso di quelle carte, perchè mi sembra che l'episodio rispecchi molto bene il travaglio dei primi decenni della nostra imita.
Si deve dunque sapere òhe nella mia famiglia, vecchia di secoli della montagna di Valsassina, si dava di tempo in tempo il caso che qualche rampollo divenisse sacerdote: uno fiorì nel primo cinquecento ed ebbe voce di santuomo quando ancora S. Carlo non aveva condotto il clero sulla retta via, uno nei primi decenni del seicento e lasciò registrazioni accuratissime sulle prime morti di peste, interrotte bruscamente alla data marzo 1630 con un piegar di scrittura ed uno sgorbio che fanno pensare ad un improvviso e sinistro intervenir del male; e uno ancora nel settecento. Ultimi della serie, un mio prozio ed Uno zio paterni, chiari sacerdoti venerati ancor oggi dopo morte dalle loro pecorelle.
A bilanciare tanta santità non potevano mancare e non mancarono in famiglia teste calde e poco conformiste. Così accadde che mio nonno Pietro e suo fratello Carlo si trovassero, proprio negli anni del gran contrasto tra Chiesa e nuovo Stato, uno con la pecca di esser reduce delle campagne garibaldine, l'altro con l'abito talare e quindi convintissimo assertore dei diritti conculcati di Pio IX. Non che i due non si volessero un gran bene, ma il contrasto ideale che li separava non poteva trovare compromesso: cadde solo quando nonno Pietro era morto da gran tempo e in un modo strano che ancora mi turba e che voglio raccontare.
Già scrissi che io non conobbi nonno Pietro, perchè nacqui quando egli riposava in cimitero; ho invece un dolcissimo ricordo del prozio Carlo, parroco di Limonta, uomo burbero e severo con i molti nipoti, ma tenerissimo con me ragazzetto.
Limonta, per chi non la conoscesse, è una terricciuola posta un poco sopra il lago, in quella triste e pur grandiosa sponda del ramo di Lecco, dove in tempo d'inverno il sole non appare. E ha tanta storia, che risale ai tempi degli imperatori e che ispirò il nostro Grossi. Se vi accadrà qualche volta di andare in gita a Bellagio, percorrete i quattro chilometri che da questa separano Limonta, sostate un momento nella bella piazzetta della Chiesa, poi battete al presbitero e fatevi mostrare il portichetto medievale col suo sfondo di verde e di azzurro.
Da piccini, quando il babbo si prendeva quindici giorni di vacanza e trascinava la mia mamma cittadina a grandi camminate attraverso le vallate della Svizzera come allora usava, mia sorella ed io eravamo affidati alle cure della zia che viveva a Limonta col prozio. Non sto a dire quanti ricordi mi allaccino a quei lontani giorni: il traghettare il lago sul battello dove i biellismi dei motori avevano tal fascino per meda suggerirmi sin da allora il proposito, mantenuto poi, di costruire macchine pur io; il libero correre nel giardino ricco di alberi da frutta; il recitare le preghiere al giunger della notte accanto a un finestrino aperto sul buio della chiesa, buio tanto misterioso da incutermi una paura che mi impediva di prender sonno e che diveniva ancor più forte quando la zia per consolarmi mi parlava dell'Angelo custode, perchè il pensiero di quell'essere presente e non visibile raddoppiava i miei timori; le piccole avventure, un pò incontrate come accadde quando la donna di fatica senza avvedersi ci chiuse nel pollaio e le galline ai nostri strilli presero a svolazzarci attorno rese pazze da un terrore pari al nostro, un po' cercate, qual avvenne allorché entrati di soppiatto nella cella campanaria riuscimmo a trarre dei rintocchi e provocammo le ire del sacrista accorso a tanto sacrilegio; tutto suscitava in noi sensazioni intense e nuove che pur oggi trovo fresche come allora.
Divenuto io più grandicello, lo zio prese a condurmi con sé quando andava a Civenna o a Magreglio per qualche ufficiatura ed io mi sentivo assai fiero della confidenza che mi dava. Salivamo su per il sentiero tagliato nel fianco del monte, tanto erto che il lago sembrava esser sotto a perpendicolo.
Lui camminando mi narrava le storie dell'Abate di S. Ambrogio, che giungeva un tempo da Milano a governare il suo piccolo regno di Limonta mentre i sudditi scendevano all'imbarcadero con la portantina per condurlo sulla piazza della chiesa ad amministrare la giustizia. Poi la sera, tornati a Limonta, mi mostrava le prigioni dove ancora erano infisse nel muro le catene, e il vetusto baldacchino con le stanghe disfatte e tarlate.
Altre volte mi parlava del Medeghino e mi spiegava come durante le guerre col Duca ancorasse le sue navi tra Bellagio e Limonta e di lì scendesse a razziare le terre per raccogliere viveri da condurre a Lecco e a Musso assediate. Io, incantato da quelle storie, lo coprivo di domande. Sì che un giorno, vedendomi desideroso di altre notizie attorno alle guerre svoltesi sul lago nel passato, mi disse scuotendo il capo: «Sei proprio come tuo nonno Pietro! ».
(...)