Tremagg, tirlindana e frosna: tutto era buono per pescare
Articolo pubblicato da Pietro Pensa in L'Ordine, 1.6.1979
Professionisti, piccoli barcaioli o anche dilettanti riuscivano a vendere le loro prede a Como, Bergamo e a Milano oppure a rifornire gli alberghi della riva già allora fiorenti grazie al turismo straniero
Accanto ai «padroni del lago» molti erano i pescatori che vivevano assai malamente. Per non pochi di loro valeva ancora, all'inizio del secolo, la descrizione del Cantù: «Distinto tra gli altri abitanti per sudiceria e vestir strambellato, la sua sussistenza dipende dal vento e dal tempo, senza che mai provveda a riporre un soldo allorché la fortuna gli dà di guadagnare due. Al più, quella volta pagherà il debito che avrà contratto con il fornaio, col pizzicagnolo o con l'oste. Per molti giorni di seguito neppur può uscire con la barca tempestando il lago; in altri non coglie tampoco un pesciolino. Quando la fortuna gli arride, quel povero prodotto non è tutto suo, ma ne deve un terzo a chi gli prestò le reti, le quali essendo di filo ed anche di seta, come quelle per gli agoni, importano grossa somma. Restagli dunque solo il residuo, perocché il pescatore non ha di suo che le braccia e la famiglia che dal lurido tetto gli chiede pane». E così continua Pietro Belli: «Il pescatore del Lario esercitava l'arte sua per eredità di famiglia e vi si dedicava tutto l'anno, pescando ora con una rete, ora con l'altra, secondo le diverse stagioni e le varie specie di pesci che voleva prendere. Passava quasi tutta la vita sulla sua navetta, recandosi or qui or là per il lago, dove lo attirava la speranza di maggior preda; vendeva la sua pescagione o in dettaglio ai privati, o sui pubblici mercati o in massa ai pescivendoli per contratti prestabiliti. Era una vita di privazioni e di incomodo: doveva affrontare il sole d'estate ed il freddo d'inverno, sfidare i venti e le pioggie, e, mentre i suoi paesani riposavano tranquilli la notte, egli vegliava al lavoro per procacciarsi un sudato guadagno. Tali fatiche, però, non gli impedivano di raggiungere la più tarda vecchiaia: la longevità, infatti, era un elemento caratteristico fra i pescatori del Lario, non meno delle loro navette, delle loro reti di seta, delle manteghette, delle bronze o ciocche, degli strumenti per la fabbricazione dei missoltini».
E vedevi, quei poveretti, ingegnarsi con ogni sorta di reti minori e di aggeggi inventati dalla scaltrezza umana nella secolare lotta per la sussistenza. Il tremagg, il tremagin e il tremagion, distinti dalla dimensione delle maglie della triplice rete, era un po', sin da antichissimi tempi, alla portata di tutti. Erano reti piuttosto elementari, maneggevoli, o fatte per ogni sorta di pesce o, anche, solo per il persico o per l'agone e, più o meno, venivano gettate non lontano dalla riva e ritirate anche più volte.
Soprattutto pittoresco, nel nostro lago, era però il pendent. Calato anche in coppia, a cübia, al largo, verso il tramonto, era trattenuto da galleggianti, su cui si poneva una bronza da mandria e un lume, per poter individuare la rete di notte: malinconici e pieni di poesia il tinnire del campano e il guizzare delle luci vaganti sul lago, trascinate anche per lunghissimi tratti dal muovere dell'onda. Tra i galleggianti, appariva caratteristica la manteghetta, pelle di capretto gonfiata che, vista di lontano, sembrava la testa cornuta di qualche strano animale acquatico.
I pescatori di poche possibilità si ingegnavano con ogni mezzo. Quasi sostituita la tirlindana, più complessa, all'antichissima molagna, questa era ancora sovente impiegata per la suggestiva pesca, con una gondola a due uomini, della trota di lago, il pesce più ambito specialmente quando gli allevamenti artificiali non si conoscevano ancora. La lenza di rame con i fili di seta portanti le esche guizzava lunga nell'acqua e, dopo l'abboccata, era straordinaria l'abilità dei nostri pescatori nella schermaglia con la trota, che, se pure assai più breve e minore, richiama al pensiero l'indimenticabile «Il vecchio e il mare» di Hemingway. Né i pescatori trascuravano di porre, nei luoghi adatti, la complicata spaderna. Io li ammiravo nel vederli togliere dalla cassetta che li conteneva i numerosissimi ami connessi con fili alla lunghissima e robusta corda di canapa senza impigliarli tra loro e senza ferirsi, attaccarvi pezzetti di pesce o vermi e bruschi prima raccolti e quindi distender lentamente l'ordigno, fissandone un estremo ad una pietra. Li seguii più di una volta, all'alba, quando recuperavano il filo e vi trovavano le anguille, ma anche, talora, lucci, persici e cavedani.
L'abilità più straordinaria della nostra gente di riva stava, però, nell'uso della frosna: ognuno si vantava dei più magistrali colpi. Ed invero, conducendo il quattrass nella notte sull'acqua immobile, alla luce della lampara, era meraviglia vederli scagliare la lunga asta col tridente a 7 o 9 denti e colpire addirittura longitudinalmente la trota, con una assoluta sicurezza. Il fascino della notte, appena illuminata dall'isolata luce, richiamava a mitiche storie.
Vi era infine, sulle nostre rive, un terzo tipo di pescatore. Erano famiglie locali che conducevano una discreta vita sostentandosi con più di una entrata. Possedevano qualche vigna, pochi olivi, un piccolo munì sulla vicina altura dove tenevano una o due mucche. La pesca rappresentava per loro, particolarmente conservando i missoltin, un cibo discreto per tutto l'anno.
Vedevi, così, tutta la famiglia partecipare all'attività del capo, particolarmente allo sbocco dei torrenti. I ragazzi, con pietre, costruivano una guida ai pesci che vi rimontavano, spostandoli verso il centro della corrente, dal quale, poi, per l'impeto dell'acqua venivano respinti sui fianchi, finendo in secca. Il padre, frattanto, più sotto a riva, pescava col sibiel.
E tanto ancora si potrebbe raccontare sugli infiniti modi di prendere il pesce: e dei legnèe preparati presso le rive con fascine ammucchiate, che venivano circondate con reti due volte all'anno per prendere i pesci raccoltisi tra i legni, fatti fuggire gettando della calce; poi, ancora, lungo i tratti di fiume, delle lunghe file di bartavei, gabbie di rete conica a due o tre cerchi, nelle quali era facile l'entrata, impossibile l'uscita, ed erano adottati anche sulle spiagge durante il fregolo dei persici; delle gueglie, infine, una volta ingombranti il letto dell'Adda e causa di continui liti tra Como e Lecco, perchè accusati di alzare il pelo dell'acqua.
Professionisti della classe maggiore, pescatori minori e infine sovente anche i pescatori familiari di cui ho detto avviavano i loro prodotti a Como, a Bergamo e a Milano, quando non agli alberghi della riva, tanto fiorenti tra i due secoli per il turismo straniero. Vedevi le donne di Spurano caricare i pesci nel gerlo all'alba, al rientro dei pesca; portarli a Como. A Bellano la pescagione veniva messa sul treno e giungeva sino a Milano: non mancava il ghiaccio a conservarla e diremo poi da dove giungesse. Tutto un piccolo, attivissimo mondo dunque, che viveva su viveva dell'acqua, straordinario bene che noi stiamo distruggendo.