Origine e sviluppo dell'industria lecchese del ferro

Centro di documentazione e informazione dell'Ecomuseo delle Grigne

Articolo di Pietro Pensa da Economia Lariana, 1963, n. 12.


Parlare di ferro nel Lecchese è come parlare di zolfo in Sicilia, di marmo a Carrara, cioè come dire del più importante, del più caratteristico aspetto economico delle nostre terre; parlare delle vicende storiche di chi ne praticò l'esercizio significa illustrare le caratteristiche di intelligenza, di iniziativa, di tenacia della nostra gente. Osservo subito, perchè si indulga alle manchevolezze della mia ^esposizione, che si tratta di vicende, non che secolari, millenarie, e scégliere, nella dovizia di ricordi storici, quel poco che basti a tracciare la linea maestra di una evoluzione, non è semplice assunto. Vicende millenarie, ho detto, vicende che, quanto meno, risalgono ai tempi romani.
Se infatti la voce di Strabone che accenna alla coltivazione delle nostre miniere è in contrasto con quella di Plinio, certamente occorre portarsi alla civiltà che si distingue come gallo-romana per trovare la prima coltivazione delle miniere del Varrone. Lo dicono la tradizione affermatasi ed accolta dagli storici, lo dicono i nomi di schietta origine latina di quei territori lontani ed anche i termini usati dai fraini o minatori per gli oggetti attinenti alla loro arte, di cui nei tempi andati si trovarono vetustissimi esemplari, lo dice la ricchezza di attrezzi e di pezzi rituali di ferro nelle antiche necropoli, lo dice infine l'esistenza di fortificazioni romane non solo là dove la via maestra che portava al settentrione le richiedeva, ma anche nei luoghi dove solo una ragione specifica, quale poteva essere la sicurezza del trasporto del minerale, le poteva giustificare. Così scrisse il Giovio nel '500: « Nella montagna che dal Varrone ha il nome si osservano filoni del ferro incastrati in una pietra cornea. Ivi da tempo immemorabile vi si affaticano gli operai, ed infatti avvien sovente che là dove si attende profitto da un buon filone, altro poi non si trova che rottami e frantumi, per cui svelasi che l'uomo in altri secoli sudovvi attorno ». E più recentemente l'Arrigoni: « Un giorno, potresti aggirarti entro le buie viscere del monte, e non basterebbe a percorrerle tutte. Ti parrebbe di trovarti in una città sepolta. Questa non può sicuramente esser che l'opera di molti secoli e di numerose braccia ».
Purtroppo non ci sono rimasti documenti, e tale assenza di testimonianze scritte si protrae, su su per i secoli, sino ai primi albori del nostro millennio, anche se qualche frammentaria notizia ci rende certi che la coltivazione del ferro continuava ad essere esercitata. Poi, d'improvviso, dal 1300 al 1400, abbiamo una fioritura di atti notarili di compra-vendita, di divisioni, che ci rivelano quanto grande fosse il valore di un possesso di miniere in Valsassina. « Niuna cosa — scrive un anonimo — è più prezzata in Valsassina, che un edificio di ferro con la ragione dell'acqua bastevole, niuna cosa più stimata che la ragione delle miniere, e di scavare vene, niuna al certo più invidiata, et desiderata che un valente magliaro pratico et laborioso fraino ».
Sono i secoli d'oro dell'arte armoraria milanese, i secoli in cui, come recentemente disse uno studioso, l'industria della costruzione di armature, di maglie, di spade, poteva, con le centinaia di botteghe aperte nella città, essere paragonata per importanza, fatte le debite proporzioni, all'industria automobilistica di oggi. In ogni parte d'Europa era d'obbligo, per signori e guerrieri, essere vestiti da armaioli di Milano.

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