La presenza di Carlo Borromeo nel Lario occidentale

Centro di documentazione e informazione dell'Ecomuseo delle Grigne

Articolo di Pietro Pensa da Communitas, 1983-1988, pp. 17-30.


Quando, nel 1984, quarto centenario della morte di Carlo Borromeo, stavo scrivendo una vicenda accaduta al tempo del santo e da secoli tramandata in casa mia, per meglio entrare nello spirito della gente di allora avevo ripercorso nelle nostre valli i sentieri e gli itinerari seguiti dal quel grande arcivescovo. Mi impressionò rilevare come i segni e i ricordi lasciati da lui non fossero pochi ad occidente del lago, e non solo nel Porlezzino e nella Valsolda, diocesi di Milano, ma anche nell'Alto Lago e nel ramo occidentale del Lario, diocesi di Como.
Che tra i vescovi comaschi e quelli milanesi non ci fossero state buone relazioni per secoli, non solo, ma prepotenze e guerre nel perseguire una supremazia economica, è risaputo; ed io, reduce dalla preparazione di uno studio sul potere temporale del presule di Como di prossima pubblicazione, avevo proprio allora attentamente individuato i motivi che in tutto il Lario di estrazione comasca avevano posto i paesi delle rive e delle valli contro il vescovo di Como, facendoli alleati di quello di Milano. Giunto però, nelle mie indagini, solo all'apparire del ducato, mi venne naturale andar oltre, per spiegarmi quali fossero le origini che resero popolare nell'occidente lariano la figura del Borromeo, tanto da fargli anche dedicare chiese, cappelle e splendidi affreschi.
A questo scritto, dedicato alla presenza materiale e leggendaria del santo sul ramo comasco del lago, premetto dunque le mie conclusioni.
L'arcivescovo di Milano, forse per la distanza materiale della sua sede, ma forse ancor più per il carattere emotivo delle popolazioni del Lario ambrosiano che, ricche di sangue celtico, erano più riottose al dominio signorile di quelle comasche, di estrazione soprattutto mediterranea, non solo accettò, ma promosse, pur essendo feudatario del territorio, l'autonomia delle libere comunità, approvando sul Lario ben dieci statuti civili e criminali.
Como, all'opposto, impose a tutte le terre della diocesi gli statuti della città; se ne sottrassero solo le Tre Pievi e Mandello, che, peraltro, più di una volta aveva oscillato nella sottomissione tra l'una e l'altra città.
Durante i secoli delle signorie vescovili e delle lotte tra guelfi e ghibellini il fenomeno di accentramento di ricchezze nelle mani di famiglie nobili che accumulando cariche ecclesiastiche nei propri cadetti attingevano ai beni della Chiesa, aveva dato motivo nel Lario sotto la diocesi di Como più che in quella milanese, in cui erano costantemente prevalsi i Torriani, al sorgere di eresie popolari, provocate da un diffuso desiderio nella plebe di tornare a una genuina eguaglianza cristiana.
La reazione a forme di degenerazione dottrinale aveva spinto il vescovo di Como a chiamare nella città nel 1200 i frati domenicani, mentre la gestione inquisitrice nel Lario ambrosiano permaneva nelle mani dell'arcivescovo.
La presenza domenicana nella diocesi di Como finì con non essere più rivolta solo all'eresia, ma a dirigersi contro la stregoneria, fenomeno vasto e sconvolgente che le persecuzioni degli Inquisitori indirettamente diffuse e incoraggiò. Giustamente Cesare Cantù lo definì un traviamento dell'umano intelletto, uno di quegli amari frutti che porta la pianta dell'ignoranza, riferendosi non solo al povero popolo, ma agli stessi inquisitori. Reduci quindi nel 1500 da quei roghi che avevano bruciato centinaia di streghe, come lo stesso Cantù tramanda, e dato motivo alla beatificazione di quelle discusse figure che furono Pietro Martire e Pagano da Lecco, inquisitori, le popolazioni del Lario occidentale non poterono non guardare a Carlo Borromeo che come a un vescovo santo il quale riportava la vera parola di Cristo in una terra sconvolta dalla prepotenza, dal peccato, dal denaro.
Il Borromeo, divenuto arcivescovo dopo il Concilio di Trento e, a differenza dei predecessori, stabilitosi in modo fisso nella diocesi, iniziò la sua opera pastorale che, durata vent'anni, può essere distinta in due fasi: la prima, certamente la più proficua, diretta a riportare la diocesi a una vera fede cristiana e ad estirpare il male, sorretta quindi da spirito di comprensione e da bontà; la seconda, invece, caratterizzata da severità e da un duro atteggiamento contro il protestantesimo; da vero santo la prima, da uomo di governo la seconda.
Fu proprio il primo volto di Carlo Borromeo, riaffiorato anche quando per la seconda volta egli visitò il Porlezzino, nel 1582, con atteggiamento ben diverso da quello che egli assunse nel seguente 1584 nella svizzera di Roveredo, a rendere popolare il santo nel Lario occidentale e ad ispirare le belle figurazioni che, rifacendosi alla sua vita, decorarono le chiese dopo la sua elevazione agli altari.
Premesso quanto sopra, che mi fu assai utile porre in evidenza nel racconto che scrissi su quei tempi, ora esporrò quanto si conosce delle due visite dell'arcivescovo alla montagna tra Lario e Ceresio, riferendomi letteralmente, più che a documenti, in realtà non molti e poveri, conservati nella Curia e nelle parrocchie, a quanto ne scrissero gli storici del tempo e alle tradizioni giunte sino a noi.

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