La presenza dei Longobardi e dei Franchi sul Lario

Centro di documentazione e informazione dell'Ecomuseo delle Grigne

Pietro Pensa, La presenza dei Longobardi e dei Franchi sul Lario in Rivista di Lecco, 1979, n. 1.


Indice

CAPITOLO I - I LONGOBARDI CONQUISTANO L'ITALIA

I Longobardi

Non erano trascorsi neppure due decenni da quando i Bizantini, dopo una lunga e rovinosa guerra, erano riusciti ad avere ragione dell'ultima resistenza dei Goti e le popolazioni non si erano ancora riprese dalla dura prostrazione, che si verificò in Italia la calata dei Longobardi, la cui dominazione, ben diversamente da quelle precedenti, era destinata a trasformare profondamente la struttura sociale della gente dei territori conquistati.

Partiti più di un secolo prima dalla loro sede sull'Elba a cui erano forse giunti in precedenza provenendo dai Paesi scandinavi, i Longobardi si erano trasferiti nella Moravia, poi nel Norico, il territorio che sta intorno a Vienna, quindi nella Pannonia, l'attuale Ungheria, e avevano ottenuto la Croazia dall'impero d'oriente, col quale avevano stretto un patto di alleanza, o foedus.

Essi erano un popolo germanico, ancora barbaro, di costumi primitivi, abituato a continui spostamenti su carri, con donne, fanciulli e schiavi. Di aspetto selvaggio, Paolo Diacono, lo storico che ne tramandò le vicende (1), afferma che il nome veniva loro «dalla lunghezza della barba che non conosceva né forbici né rasoio» e narra che i Gepidi, loro nemici, li deridevano per l'aspetto «delle gambe fasciate in basso di bende bianche» che li rendeva «simili alle cavalle a cui si stringono i garretti» con simili strisce. Scrive ancora Paolo Diacono: «si radevano fino alla nuca, in modo che dietro erano completamente pelati, e davanti lasciavano cadere i capelli, spartendoli da una parte e dall'altra in mezzo alla fronte, sulle guance fino all'altezza della bocca. I loro vestiti poi, erano larghi e per lo più di lino, ornati di larghe liste di vario colore. Portavano calzari aperti quasi fino all'estremità del pollice, che si allacciavano con stringhe di cuoio incrociate».

II loro sistema sociale si basava su raggruppamenti familiari, ofare, uniti fra loro in modo da formare unità sempre maggiori i cui capi militari esercitavano anche funzioni giudiziarie e civili. Il potere, in effetti, era prerogativa dell'assemblea di tutti gli uomini liberi, e uomo libero era colui che portava le armi, o arimanno. L'assemblea dei guerrieri si riuniva all'aperto, generalmente una volta all'anno, nella primavera. Ad essa spettava la proclamazione del re, primo fra i capi militari o duchi, il quale avrebbe poi preso le grandi decisioni in nome del popolo.

Tale organizzazione, squisitamente militare, adatta alla vita di movimento, le cui risorse erano il saccheggio e la preda, si sarebbe a lungo riflessa nell'assetto dei territori in cui i Longobardi si sarebbero poi fermati, stanziando visi.

Viventi secondo una legge tipicamente germanica, destinata ad avere notevoli influenze future su quella dei popoli sottomessi, come vedremo più avanti, i Longobardi, essenzialmente ancora pagani secondo miti nordici, ufficialmente praticavano, quando scesero in Italia, l'arianesimo.

Era, questo, una forma del credo cristiano introdotta da Ario, presbitero di Alessandria, attorno al 318 d.C. Esso negava l'uguaglianza delle tre persone della Trinità, riportando a un Dio, dal quale il Figlio sarebbe derivato quale primogenito di tutta la creazione; non quindi uguale e coeterno col Padre. Con poche parole Paolo Diacono così sintetizza l'opinione popolare sulla differenza di credo tra ariani e cattolici: «Gli Ariani, invero, a loro eterna dannazione, ritengono il Figlio inferiore al Padre e lo Spirito Santo inferiore al Padre e al Figlio; noi cattolici invece crediamo,che Padre, Figlio e Spirito Santo siano un solo e vero Dio in tre persone di uguale potere e di pari gloria». Tale dottrina, innestandosi prima nei contrasti di supremazia tra episcopato asiatico e patriarcato di Alessandria, quindi nelle lotte politiche dell'Impero, condusse Costantino, preoccupato di riportare la concordia tra i popoli, ad indire un Concilio, che fu tenuto in Nicea nel 325 d.C.

Condannate le enunciazioni di Ario quali eretiche e definito con formule assai elaborate il credo ortodosso del cattolicesimo, l'arianesimo entrò in una fase polemica che, con lotte e sussulti, avrebbe travagliato l'Impero sino agli ultimi decenni del secolo IV, incontrando avversari della statura di Sant'Ambrogio e di Teodosio.

Sconfitto alla fine, trovò rifugio tra i barbari. L'opera di evangelizzazione di Ufila, vescovo ariano che tradusse la bibbia in lingua gotica, converti i Visigoti che, venuti a stanziarsi dentro i confini dell'Impero dopo la battaglia di Adrianopoli del 378 d.C, assunsero l'arianesimo quale religione nazionale. Da loro, il credo di Ario passò agli altri popoli germanici, Burgundi, Svevi, Vandali, Longobardi e divenne la religione germanica per eccellenza, rappresentando la, contrapposizione di razza, di civiltà e di ideali, al credo romano di Nicea, fatto proprio dai popoli eredi dell'Impero.

La calata in Italia

Contingenti di arimanni longobardi avevano combattuto quali mercenari con l'esercito bizantino, in particolare nel corso della guerra gotica, durante la quale avevano conosciuto l'Italia. In tali occasioni, avevano assorbito in parte gli ordinamenti romani, conservando però linguaggio e costumi germanici loro propri.

L'impresa d'Italia fu accuratamente preparata da Alboino, re lungimirante ed abile, il cui padre era stato legato da parentela alla casa gota degli Amali, fatto che gli valse l'appoggio dei gruppi dei Goti rimasti in Italia dopo la sconfitta, incorporati nelle forze bizantine che la presidiavano.

I Longobardi, dunque, lasciarono la Pannonia all'inizio di aprile del 568, muovendosi in farà, con carri, donne e fanciulli, dando fuoco alle loro case, in modo da precludere ogni ritorno. Con loro scendevano in Italia forti contingenti di Gepidi, nazione che Alboino aveva sconfitto, uccidendone il re, Cuniberto, e sposandone poi la figlia Rosrrrunda. Alboino, prima di abbandonare la propria sede, l'aveva ceduta ai vicini Avari per assicurarsi le spalle. Raggiunta Grado scendendo lungo il Friuli, vi lasciò un contingente sotto il comando del nipote Gisulfo per parare una eventuale manovra avvolgente da parte di Bizantini che fossero sbarcati nelle lagune; a Verona pose un grosso esercito per bloccare una possibile discesa dei Franchi dalla Valle dell'Adige. Il 5 settembre 569 occupò facilmente Milano, sede del Vicarius Italiae e quindi pose l'assedio a Pavia, centro strategico di grande significato perchè facile appoggio a truppe nemiche che fossero sbarcate a Genova. La città capitolò solo dopo tre anni.

Altre forze di Alboino passarono la Cisa che resterà per antonomasia «il monte dei Longobardi», scesero in Toscana, attraversarono l'Umbria e proseguirono sino a raggiungere Spoleto e Benevento, formando nuclei capaci di bloccare città e strade dalle quali sarebbe potuta venire una riscossa bizantina; trascurate, per l'impossibilità di affrontare l'avversario sul mare, elemento estraneo alla vita dell'invasore, furono le coste che resteranno poi sempre la maggiore insidia alla potenza longobarda.

A mano a mano che il territorio veniva nelle sue grandi linee occupato, i capi militari, o duchi, Io andavano presidiando, iniziando una prima sistemazione territoriale in quelli che saranno poi i ducati longobardi.

La ritirata dei Bizantini sul Lario

Un nucleo di Bizantini, sospinto dalla pressione degli invasori, si era frattanto ritirato sul Lario al comando del magister militum Francione, ponendosi a difesa nel triangolo Como-Lecco-Colico e adiacenze, nella speranza di una riscossa al sopraggiungere di aiuti da Oriente. Era appena caduta Pavia che Alboino, alla fine della primavera del 572, veniva assassinato in Verona. Paolo Diacono ci ha tramandato la leggenda della vendetta della moglie Rosmunda costretta dal re a bere durante un banchetto in una tazza ricavata dal teschio del padre ucciso; accordatasi con Elmichi, sostenuto dai Longobardi di Verona già corrotti dall'oro bizantino, indotto il forte Peredeo al delitto dopo esserselo reso complice giacendo con un inganno con lui, la donna fece aggredire nel sonno il grande re. Molti indizi lsciarono ritenere che a quell'avvenimento non fossero stati estranei i Bizantini, ansiosi di eliminare un sovrano, tanto superiore in avvedutezza e intelletto al suo popolo (2).

Costretti a fuggire, i due regicidi ripararono con la figlia di Alboino in Costantinopoli, dove si avvelenarono poi vicendevolmente in un'altra tragedia di ambizione.

I Longobardi di Pavia, non corrotti dai Bizantini e gelosi della loro indipendenza, si elessero Clefi quale nuovo re. Sotto il suo regno, si scatenarono le vendette contro i Romani, ritenuti conniventi alla cospirazione che aveva eliminato Alboino. Mentre sembra che durante i tre anni di regno di quello, che desiderava non inimicarsi la chiesa, non si fossero verificati atti di grande ferocia, dopo la sua scomparsa si abbattè quella tremenda repressione che avrebbe creato ai Longobardi l'aureola di efferatezza tramandataci dalla leggenda.

Sospinti da quella furia di distruzione, molti possidenti romani si rifugiarono nel territorio tenuto da Francione; l'isola Comacina divenne il deposito delle loro ricchezze; forse le venne da quel fatto il nome di «Crisopoli» (3).

Dopo un anno e mezzo Clefi fu ucciso da un paggio. Alla sua morte seguì un periodo di interregno, destinato a prolungarsi sino al 584. Ogni duca governò per suo conto, mentre Bisanzio continuava con l'oro la sua opera di disgregazione della compagine longobarda.

Così scrive Paolo Diacono: «Dopo la morte di Clefi i Longobardi restarono dieci anni senza re; ciascun duca, 35 in tutto, governava la sua città. In questo periodo molti nobili Romani furono fatti uccidere per soddisfare l'avidità dei vari capi longobardi; gli altri Romani, ossia la popolazione minuta dell'Italia, furono divisi fra i conquistatori e assoggettati al pagamento di un tributo in ragione dì un terzo delle loro rendite». Così i duchi longobardi conquistarono e sottomisero buona parte dell'Italia, saccheggiando le chiese, uccidendo i preti, distruggendo le città e stremando gli abitanti (4). Il vescovo di Milano riparò a Genova; anche altri presuli abbandonarono le proprie sedi; tra i pochi rimasti fu quello di Como, non per coraggio come affermarono alcuni storici comaschi, ma perchè la sua città era ancora controllata dai Bizantini.

La difesa di Francione

Francione, nel frattempo, si era andato rafforzando nel lembo di paese da lui tenuto. Mentre da Paolo Diacono conosciamo solo l'epilogo della sua vicenda di leggendaria ventennale resistenza, durante la quale non poco sangue orientale si sarà certamente mescolato a quello celtico della nostra gente [ariana, qualche sporadica notizia nonché il destino che ebbe il territorio nel seguito ci permettono di delimitarne i confini.

L'opera geografica di Giorgio Cyprio, compilata su fonti ufficiali risalenti proprio a quel periodo, nel darci un elenco delle località più importanti appartenenti all'Impero d'oriente raggruppate secondo i corpi militari a cui appartenevano i distaccamenti, elenca «Nesos Comanikeia» e «Kastron Marturion» quali dipendenti dalla eparchia urbicaria, nonché «Baractalia» da un'altra eparchia (5).

Gli storici Besta e Bognetti giustamente videro in tali nomi l'Isola Comacina, Castelmarte e il Baradello (6). Aggiungasi a ciò quanto scrive l'attendibile storico comasco Benedetto Giovio il quale afferma che Francione, «dopo avere più anni difesa Como» si ridusse nell'Isola «fino allora insieme con altri luoghi circonvicini tenuta a nome dell'imperatore d'Oriente» (7). Paolo Giovio, poi, rieccheggia una leggenda cara a tutti gli storici comaschi, tenuta ancor viva dal nome di un canale allo sbocco dell'Adda nel Lario: l'esistenza del «borgo Francione» che avrebbe preso il nome dal magister militum e che qualche studioso vorrebbe posto là dove sorge oggi il piccolo villaggio di Sant'Agata (8).

È da ritenersi, dunque, che il fronte meridionale fortificato del territorio tenuto dai Bizantini seguisse approssimativamente il tracciato che aveva tra Lecco e Como la strada romana Aquileia-Eporedia (Ivrea), con principali punti fortificati in Lecco-Civate, chiave delle vie della Valsassina e del lago orientale, in Castelmarte, arbitro dell'accesso alla strada della Valassina a Bellagio, nel Baradello, sentinella di Como e della via Regina. Il punto più meridionale del sistema fu probabilmente il Monguzzo, necessario alla rete segnaletica e, con Castelmarte, indispensabile protezione a Incino (9).

È, infatti, impensabile che un notevole corpo militare potesse disporre solo delle vettovaglie di una terra povera quale quella lacuale: Erba con le sue pertinenze era con ogni probabilità la fonte più importante di approvvigionamento di Francione. Meno facile è ricostruire la situazione alla confluenza delle valli dell'Adda e del Mera: qui i Bizantini si appoggiavano ai Franchi di Austrasia che, un tempo loro pericolosi avversari per le mire espansionistiche che nutrivano verso l'Italia, erano divenuti ora alleati nella comune avversione ai Longobardi. Non si conosce chi tenesse Valtellina e Valchiavenna; può essere che Francione avesse aperto le due valli ai Franchi, come suppone Io storico Besta (10), analogamente a quanto i Bizantini avevano fatto per Susa e per Aosta; non va infatti scordato che Trento era in mano di Gisulfo nipote di Alboino e che numerosi passi da là portavano facilmente in Valtellina. Noi pensiamo che, comunque, la bassa Valtellina fosse sempre tenuta da Francione, così come pensiamo che la lungimiranza bizantina abbia provveduto a premunirsi da un futuro ritorno di inimicizia, dopo l'annientamento dei Longobardi: se realmente sorse allora il «borgo Francione» il recondito scopo deve proprio ricercarsi in quella eventualità.

Ai fortilizi già esistenti certamente i Bizantini altri ne aggiunsero, adatti ai nuovi fronti verso sud, est ed ovest, giacché quelli ereditati dall'ultimo impero avevano come fronte il settentrione. Esporremo più avanti le ipotesi su tali opere (11). Naturalmente, i Longobardi al rafforzarsi delle difese di Francione dovettero contrapporre un infittirsi di raggruppamenti arimannici: in particolare, ad occidente, dove era da temersi una calata franca tra Verbano e Ceresio, si schierarono gli arimanni del Seprio, a oriente, verso Lecco e Valsassina, quelli di Bergamo, mentre l'alto Milanese fronteggiava a meridione.

Autari nominato re dopo 20 anni di interregno

L'azione diplomatica di Bisanzio, nella impossibilità di un intervento diretto per l'impegno in corso verso i Persiani, lavorava sull'inimicizia tra Franchi e Longobardi; spinse tre duchi longobardi a un'incursione nel Vallese, mentre a loro volta i Franchi dopo il 580 più volte effettuarono puntate nel territorio longobardo. Sessantamila arimanni, poi, probabilmente quelli di Verona, furono assoldati dall'impero d'Oriente per la guerra persiana, mentre altri erano scesi tacitamente ad accordi.

Con il correr del tempo, però, quendo meglio si delinearono le intenzioni avversarie, i duchi si resero conto che la loro disunione avrebbe portato al vantaggio finale degli avversari e si accordarono cosi di eleggere un re, che fu scelto l'anno 584, nella persona di Autari, figlio di Clefi, duca, si ritiene, di Bergamo. Sotto Autari, monarca giovane quanto avveduto e deciso, prese definitiva forma quel sistema che avrebbe consentito per ben due secoli a un esiguo numero di Longobardi il fermo controllo nelle nostre valli montane, e che bene si sarebbe sposato a remotissime forme politico-sociali.

Pur nel tremendo travaglio delle invasioni, infatti, nel lento acquietarsi degli sconvolgimenti provocati da quegli improvvisi abbattersi di violenza, una nuova forma di civiltà si era andata preparando. Dopo il disgregarsi dell'impero, la mancanza di un potere centrale, l'insicurezza dei transiti sulle grandi vie consolari, la crisi del commercio con il conseguente decadimento dei grandi centri urbani, il disagio spirituale avevano provocato il risorgere delle strutture del tempo preromano, rimaste nella coscienza dei popoli.

Si preferirono i piccoli aggregati, particolarmente i villaggi nelle valli più sicuri dalle sorprese, le vie locali nascoste, più protette dal brigantaggio; l'amministrazione centrale era ridotta a un puro organismo fiscale ed era seguita una autarchia economica, ed anche di autogoverno, assai diffusa. L'antichissimo regime della proprietà del suolo, specialmente dei beni comuni, che non derivava da istituti romani ma si riattaccava agli ordinamenti liguro-celtici, contrariamente al tipo di economia imperiale agraria intesa a sviluppo definitivo con utilizzo individuale della terra, riaffiorava, aperto a nuove forme. La chiesa stessa, erede di un passato indigeno, andava mantenendo, nell'ordine plebano in corso di formazione, le comunità secondo il remoto assetto preromano.

Si andava tornando, insomma, all'«ethnos ligure» così come si era formato dalle prime manifestazioni neoeneolitiche, vivificate, dopo la stasi dell'età del bronzo, dal contatto con gli incineratori protoceltici dei campi d'urne e quindi dal rigoglio della prima età del ferro portato dall'invasione celtica.

Il nuovo assetto socio-economico del territorio

Nell'antico diritto germanico, dal principio che la sovranità risiedeva nel popolo dei liberi, esprimendosi quindi nell'assemblea di tutti coloro che portavano le armi, derivava la concezione che la proprietà del suolo conquistato fosse un diritto collettivo, nel quale si potevano affermare delle concessioni, o gewaehren, verso un singolo o verso pluralità di terzi. Nel disporre del territorio e nel creare quei gewaehren, il re poteva sostituirsi al popolo quale suo rappresentante, eletto dall'assemblea degli armati. I Longobardi invasori, trasformando la loro organizzazione mobile militare in una stabile forma di stato, affermarono il loro diritto su tutte le terre conquistate, ma, incapaci di riformare e di organizzare una produzione agricola collaudata peraltro da secoli di conduzione romana, si limitarono a chiedere al produttore diretto, là dove a mano a mano i corpi di esercito si andavano stanziando, il terzo dei prodotti dell'annata. Chi non risiedeva sulla terra, ossia l'antico proprietario che viveva nella città, non fu preso in considerazione, o ucciso o perdutosi, con la fuga, nella massa del popolo minuto.

«Populi adgravati inter longobardos hospites divisi» scrive Paolo Diacono; «i popoli sottomessi vennero distribuiti tra gli ospiti longobardi», vennero cioè assegnati ai gruppi di invasori che andavano fissandosi nel territorio, ossia alle fare, dal nome germanico che ha in sé il concetto del migrare, dello staccarsi dal popolo di un gruppo in missione militare e che finirà con l'indicare il piccolo nucleo gentilizio che sotto il comando del capo arimanno formerà un distaccamento e diventerà presidio di una località. Centro delle fare furono i castelli o le torri, ripresi per lo più dagli antichi fortilizi romano-bizantini, a cui restavano assegnati quale gewaehr i distretti rurali, già accertati dalla giurisdizione battesimale, eredità degli antichissini pagi preromani, ossia quel populus dai sicuri confini, a cui spettava ora di versare agli hospites la tertia del prodotto che, infine, equivaleva al tributo che i coloni un tempo versavano al loro padrone romano.

Per raccogliere il tributo in natura era necessario un locale ben chiuso, atto ad evitare il deterioramento delle derrate. Un simile magazzino militare, che sostanzialmente dovette equivalere al luogo di raccolta del'annona per i gruppi dei confinari romani, prese in bocca dei Longobardi il nome germanico di sala. Nei territori prealpini tale toponimo è rimasto ad alcuni paesi, che probabilmente furono i centri di raccolta di vasti cirondari agricoli. Ricordiamo: Sala Comacina, Sala al Barro, Sala di Calolzio, Sala di Val Blenio, Sai di Val d'Agno. Fu dato lo stesso nome anche a luoghi di raccolta minori: ad Esino, si ha la località di Sai al margine della zona agricola del paese superiore, e similmente Sai ai margini della zona agricola del paese inferiore. Nel centro, fra i due, vi era la stazione arimannica, posta sul promontorio dell'attuale chiesa (12).

Praticamente, l'hospes figurò come padrone e il terziatore come colono, rapporto che è da ritenersi un avvio al futuro frazionamento fondiario; in seguito, infatti, sciogliendosi la farà avrà luogo la ripartizione dei poderi.

Si formò, così, una nuova società, inizialmente assai misera, in cui convissero accanto il Longobardo guerriero e il coltivatore, senza più il ricco padrone di un tempo.

I dominatori, barbari ancora nelle loro forme di vita, vissero in rustiche capanne di legno e di paglia, la casa, mentre la solida dimora romana, la domus dove abitava il gruppo familiare, scomparve, lasciando il suo nome alla chiesa, o duomo, in quanto costruita di pietre e di mattoni.

Sia arimanno che coltivatore abitarono nelle povere capanne, le une presso la torre, le altre nei villaggetti delle pertinenze.

Solamente la sala fu un locale più ricco, in gran parte di pietra; il nome ancor oggi definisce il locale migliore di un'abitazione.

Un altro termine toponomastico da riferirsi a quel tempo è gaggio, dato a foreste ed anche a boschi minori presso i centri arimannici, non cedui, ad alto fusto, cintati perchè gli animali non stroncassero i virgulti, destinati a fornire il legname per la costruzione di palizzate, come già era consuetudine presso gli eserciti romani per la costruzione delle opere difensive del limes.

Anche augia è termine longobardo, che indica le grosse praterie adatte al pascolo dei cavalli degli arimanni. Autari, come si è detto, procedette all'organizzazione del nuovo sistema, che già era stato adottato in una prima approsimativa organizzazione durante gli anni di interregno. A lui spettò la suddivisione definitiva del territorio fra i duchi, gli antichi capi militari divenuti signori territoriali. Vedremo, in particolare,'dopo la conquista del lembo lariano, come a guidarlo furono concetti militari, così come ragioni tattico-strategiche suggerirono la distribuzione dei nuclei di arimanni nell'interno dei distretti. Quanto non fu dato alle fare, andò a formare il patrimonio della corona che, quindi, risultò costituito da vaste aree sparse nei vari ducati. Scrive Paolo Diacono: «Per restaurare il potere regio, i vari duchi cedettero metà delle loro sostanze al patrimonio della corona in modo tale che ci fosse un fondo da cui il re, i suoi congiunti e i suoi collaboratori impegnati nelle varie cariche potessero attingere per mantenersi». Quel fondo, di carattere territoriale, sarebbe stato amministrato direttamente dai gastaldi del re, che avrebbero fatto incanevare i prodotti della terra, con una consuetudine destinata a sopravvivere in Lombardia, nelle corti fiscali, dai rustici legati da una condizione servile, ben diversa da quella dei terziatori. Ne vedremo più avanti gli esempi nella nostra zona, come più avanti tracceremo il quadro dell'amministrazione dello stato.

Aggiunge Paolo Diacono, che sotto il governo di Autari tornò l'ordine e cessò ogni violenza.

La caduta di Francione

Quando Autari venne eletto, nel 584, Childeperto, re dei Franchi, comperato dell'oro dell'imperatore d'Oriente Maurizio, passò in Italia con forti truppe. Sembra che ottenesse successo, ma che poi si accordasse con i Longobardi stringendo un patto con loro. Di nuovo, nel 585, i Franchi, riguadagnati dai Bizantini, ruppero guerra ai Longobardi, ma una minaccia degli Alamanni li costrinse a desistere.

Autari, allora, mandò Evino duca di Trento contro Gasulfo, duca dell'Istria, che gli si era ribellato passando ai Bizantini. Nel contempo fece attaccare da altre forze Francione per eliminare il pericoloso cuneo lariano nel cuore del territorio longobardo. Paolo Diacono si limita a scrivere che venne assediata l'Isola Comacina dove si era rifugiato il magister militum bizantino, che «l'assedio durò sei mesi, che poi Francione consegnò l'isola ai Longobardi e dietro sua esplicita richiesta ottenne da Autari il permesso di recarsi a Ravenna con la moglie e i bagagli». Aggiunge che «sull'Isola vennero scoperte molte ricchezze, evidentemente ivi portate da tutte le città vicine» (13). Come avvenne l'attacco contro i Bizantini, nella pressocchè totale mancanza di notizie, si può solo arguire. Il fatto che gran parte del lago, isola compresa, cadde poi sotto il duca di Bergamo, mentre Como, già municipio nell'impero, fu assoggettata a Milano, nonché una notizia tramandataci da Paolo Giovio, il quale scrisse che «Francilione combattè in nome dell'imperatore Maurizio contro i Longobardi sia in quel di Como che nell'isola Comacina e in Valtellina» (14), lasciano supporre che l'attacco principale si sia sviluppato da est per opera dei Longobardi di Bergamo che, dopo aver vinto la resistenza di Lecco ed esser scesi in Valsassina, raggiunsero probabilmente la bassa Valtellina attraverso la via del Troggia e del Bitto, e, sfondando verso il centro Iago, aggirarono lo schieramento di Francione. Ridottosi questi nell'isola, sostenendo probabilmente senza eccessiva difficoltà la pressione dei Longobardi del Seprio che dovevano premere lungo le non facili direttive delle valli Intelvi e Menaggio, potè reggere a lungo, anche perchè padrone delle acque, per affrontare le quali i Longobardi, inesperti, dovevano far costruire nuovo naviglio. Tale è la ragione della più che onorevole resa di Francione. Il territorio del Lario cadde dunque pur esso nelle mani dei Longobardi, non come gli altri, probabilmente non esposto cioè a saccheggio, ma conquistato in guerra regolare.

Autari ne curò l'organizzazione. Ne esporremo l'interessantissimo quadro, che verrà in luce, in suggestiva atmosfera, mercè l'opera dei suoi immediati successori.

Note

1) PAOLO DIACONO, Storia dei Longobardi; nella garbata traduzione con note di Federico Roncoroni, Ed. Rusconi, Milano 1970.
2) La storia longobarda fu ampiamente studiata e analizzata da: BOGNETTI GIANPIERO in: Santa Maria di Castelseprio, Ed. Fondazione Treccani, Milano 1948 e in: Storia di Milano, Ed. Fondazione Treccani, Milano 1954.
3) BESTA ENRICO, Le valli dell'Adda e della Mera, Ed. Nistri, Pisa 1940, pag. 55 e segg.
4) PAOLO D., op. cit., L. II, 32, p. 101.
5) GEORGII CYPRII, Descripto orbis Romani, Ed. Gelzer, Lipsia 1890, p. 28.
6) BOGNETTI G.P., S. Maria cit. p. 148. BESTA E., Le valli cit. p. 59 e p. 366 n. 3.
7) GIOVIO BENEDETTO, Historiae patriae libri duo, Ed. Ostinelli, Como 1887, p. 9.
8) Furono trovati in luogo recentemente importanti reperti archeologici di cui è preannunziata relazione.
9) PENSA PIETRO, Ipotesi sul limes prealpino tardo-romano barbarico a meridione dei laghi lombardi e sull'arroccamento lariano in corso di pubblicazione.
10 BESTA E., Le valli cit., p. 60.
11) Il Bognetti ritiene che i Bizantini abbiano tenuto un sottile diaframma fortificato, di cui probabilmente il Lario fu il cuore, tra Longobardi e Franchi lungo tutto l'arco alpino.
12) PENSA PIETRO, Le antiche vie di comunicazione del territorio orientale del Lario e le loro fortificazioni, Ed. Cairoli, Como 1977.
13) PAOLO D. op. cit., L. Ili, 27, p. 131.
14) GIOVIO PAOLO, Larius, in «Larius» I, Ed. Alfieri, Milano 1959, p. 83.