La camicia rossa di nonno Pietro

Centro di documentazione e informazione dell'Ecomuseo delle Grigne

Pietro Pensa, La camicia rossa di nonno Pietro in Martinella di Milano, 1958 (fasc. VII-VIII), pp. 373-381.

Nonno Pietro a 59 anni
Non ho mai conosciuto nonno Pietro: quando io nacqui egli era già sotto terra da cinque anni, nel cimitero vecchio del paese. Pure, quanto ho udito raccontare di lui dalla gente della vallata e soprattutto da zia Teresina, mi ha reso la sua figura così familiare, che se mi dovesse accadere davvero, come insegna la tradizione della montagna, di vedermelo venire incontro precedendo gli antenati allorché passerò da questa all'altra vita, non proverò certo soggezione, mi sentirò anzi protetto e consolato.

Zia Teresina era la sorella minore di nonno Pietro, prozia dunque: una donnina tutta grazia e gentilezza, sposata a zio Matteo, sindaco del paese, un uomo grande e grosso che sembrava dovesse schiacciarla solo ad appoggiarle una mano sulla spalla. Veniva in casa nostra, agghindata a festa con il costume antico, in visita ufficiale alla mia mamma cittadina, ogni principio di stagione, quando il caldo ci cacciava da Milano.

A noi bimbi, dopo aver dichiarato che l'aria di città ci aveva ridotti cerei come lumicini, regalava un palancone per ciascuno, di quelli che portavano l'effige del Re galantuomo, perchè comperassimo i millegusti colorati, uniche leccornie che si trovassero nella posteria del paese. Noi la chiamavamo zietta e le volevamo molto bene, benché i suoi modi tanto garbati ci incutessero un'ammirata soggezione. Timorosa di essere importuna, zia Teresina si accomiatava prestò, per poi non farsi più vedere se non quando la mamma avesse mandato a chiederle soccorso. Il che succedeva quando io ruzzolavo dalla scala.

Bisogna sapere che nella nostra casa, antica dì secoli, tanto antica che vi dormì perfino San Carlo in occasione di una visita pastorale, vi è una scala a chiocciola di pietra lucida che rappresentava per me, piccino, una tentazione. Avevano un bel dirmi di non scendervi mai da solo e di seguire in ogni caso il muro esterno procedendo passetto per passetto: in principio davo ascolto e mi tenevo alla periferia dove il gradino è largo, ma poi, a mano a mano che i giorni passavano facendomi scordare l'ultimo guaio, venivo attratto all'interno della chiocciola e finivo col mettere il piede sull'estremo stretto dello scalino, ruzzolando a spirale nel cortiletto di pianterreno. Urli, accorrere delle donne di casa, deliquio della mamma, pianti della sorellina, e mi trovavo seduto sul tavolo del portico, con qualche bernoccolo sulla fronte e altrove. Allora veniva fatta chiamare zia Teresina, la quale in gioventù oltre ad aver studiato da maestra aveva seguito un corso per infermiere. Quando la vedevo comparire i miei strilli raddoppiavano perchè conoscevo il supplizio al quale mi avrebbe sottoposto: lei mi tastava la fronte, provava la compattezza dell'osso, poi, con una decisione che sembrava impossibile in una donnina tanto delicata, si faceva portare un palancone, lo chiudeva in un fazzoletto grande di lino, e dopo avere unto con burro fresco la carne tumefatta, mi fasciava stretto il capo, premendo la moneta contro il bernoccolo. Dopo di che io cessavo di piangere certo com'ero che la zietta, in attesa dell'effetto della cura, avrebbe chiesto alla mamma di mostrarle la giubba rossa da garibaldino che stava racchiusa nella cassapanca, e si sarebbe poi seduta presso il tavolo a raccontare le storie del tempo passato, quando gli Austriaci comandavano ancora in Lombardia.

Nonno Pietro era nato nel 1837. Suo padre, il bisnonno Carlo, deputato all'estimo per il paese, era uomo severo, sempre pensoso e serio, che sapeva amministrare altrettanto bene il patrimonio familiare quanto quello del Comune; né era spirito che trovasse argomenti per lamentarsi dell'imperial regio governo: in montagna, si sa, chi non possiede molto del suo deve pur menar vita dura, chiunque comandi; e proprio non v'era ragione di incolpare gli Austriaci se la sorte voleva che per guadagnare i quattro soldi necessari all'esistenza la gente dovesse lizzare la legna giù per i burroni, sino alla lontana riva del lago.

Non tutti però, nella valle, la pensavano alla stessa maniera, né l'amico Lelio Mornico della villa Monastero di Varenna, né quel bel tipo di Paolo Barindelli mezzo artista e mezzo contrabbandiere, patriota arrabbiato che avrebbe dato fuoco anche al paese se dentro a quello avesse potuto bruciare l'imperatore e i suoi sgherri maledetti, né infine i molti tapinelli che in un rivolgimento vedevano la possibilità di migliorare le proprie condizioni.

Quando Pietro fu grandicello, il padre lo mandò a Milano, dal cognato Carlo Forni perché seguisse gli studi nella metropoli; il ragazzo entrò nella scuola del maestro ragionato Giuseppe Marcora, e con buon frutto, come si vede da un libro di premio « per savia condotta, diligenza e progresso negli studi » della classe 2a maggiore, che ancora conservo. In quegli anni a Milano si viveva la vigilia del Risorgimento, e Pietro, insieme al cugino Antonio Forni, che sarebbe poi diventato quel santo maestro dei sordomuti del Milanese di cui ancor oggi è ricordo, sorbì nella casa dello zio la linfa del patriottismo.

Quando la Rivoluzione scoppiò, i grandi rinchiusero i ragazzi in un camerone della casa del Terraggio San Carlo e andarono a battersi. Fuori crepitavano le fucilate e i piccoli, elettrizzati e smaniosi, si ingegnarono a calarsi dalla finestra nella strada e corsero alle barricate.

Sulla montagna, alla prima notizia degli avvenimenti di Milano, portata il giorno 19, una vampata di patriottismo aveva travolto tutti; in un battibaleno si era costituita la Guardia nazionale che, armata di picconi, di scuri, e dei due o tre preziosi fucili da caccia esistenti in paese, al comando di quel Paolo Barindelli di cui si è detto, benedetta dal parroco Don Giacomo Manzoni, scese a Bellano a congiungersi con i volontari delle terre vicine. Il 19 stesso si provvide a costituire dei blocchi lungo la strada dello Spluga, sia per arrestare gli eventuali soccorsi che dal settentrione fossero giunti alle truppe austriache di Milano, sia perchè « se i Giuba intendessero tornare alle loro tane, vi trovassero morte e sepolcro ad un punto solo » (1). Poi una cinquantina fra i migliori furono inviati a Lecco, da dove, unitisi ai patrioti della fervente città e della Valsassina, si avviarono verso la metropoli; a Monza giunsero « in tempo di cambiare la piega di quel fatto d'armi; di risolvere la vittoria a vantaggio di quei fratelli cittadini » dopo di che corsero « alla volta di Milano, e là sotto quelle mura stavano combattendo col miraggio della disperazione » (2).

Nella città si vivevano le sublimi Cinque Giornate. Vogliamo trarre alcune frasi da un breve diario dei primi due giorni, rapidamente steso in una lettera che, appena rotto il blocco delle truppe, sarebbe giunta agli amici di Esino per far conoscere loro la passione di quelle ore. Sono dapprima notizie entusiastiche, e quasi gioiose: « 18 marzo. ... Si chiudono le botteghe, si sbarrano le porte, la gente corre; e la voce si sparge che si devono tentare colpi decisivi. Una gran folla ingombra i cortili del Broletto... Guardia civica, vogliamo la Guardia civica, W la Guardia civica, sono le grida principali. In mezzo allo schiamazzo si decide d'andar tutti unitamente dal Municipio al Governo per istituire la Guardia civica... Per l’aria sventolano fazzoletti e bandiere tricolori: la maggior parte ha la coccarda nazionale... Le signore compaiono ai balconi e gettano nastri tricolori in mezzo agli evviva ».

Poi via via più drammatiche:

« ... Il grido d'andare alla Polizia a liberare i carcerati prevale. ... Pareva che non si avesse a combattere, ma invece all’imboccare della contrada del Marino salta fuori la truppa che fa una tremenda doppia scarica di moschetti sulla gente che si avanza. Il fragore delle fucilate si fa sentire terribile... Dappertutto si fabbricano grandi barricate; il selciato delle strade è tutto levato. Gran gente si dispone sui tetti e si sporge a rovesciarli sulla testa delle truppe; altri spingono mobili alla finestra da gettare giù. Così è cominciata la nostra rivoluzione... Milano è decisa a vendicare finalmente le ingiurie che erano diventate intollerabili ».

infine, il 19, rivelano a volta speranza a volta timore, e sono come un appello agli amici della montagna:

« Domenica 19. ... Si suona a stormo per tutte le chiese; si sentono continue fucilate, pare che vi siano anche cannonate. La giornata di oggi ha da essere molto più terribile di quella di ieri. Le porte sona chiuse e nessuno non può ne entrare né uscire. Il Broletto è tutto circondato da truppe... Non si sa quale esito potrà avere la nostra Rivoluzione... la grande speranza è che tutte le altre città si sollevino immediatamente, come pure tutte le campagne ». E ancora: « ... i Piemontesi devono essere stati avvisati, e devono essere già in marcia con le artiglierie. Continuano le schioppettate e le cannonate, e di tratto, in tratto anche campane a martello » Poi : « ... non si può fare ancora il minimo pronostico; giungono notizie, ma troppo buone per essere credute... I nemici hanno la forza imponente e in noi forse è illusione. Ma che farci? Siamo in ballo e bisogna ballare... Gli abitanti delle case colpite fuggono nelle altre, e si devono alloggiare e mantenere donne, ragazzi, vecchi, infermi ».

Il 22 sera i valorosi di Lecco, del lago e della montagna, reduci dall’aver battuto a Monza la guarnigione austriaca, riuscivano a forzare « Porta Commina, per cui quella porta è aperta a ricevere i soccorsi che le popolazioni vi mandano » (3).

Il 23 Milano era finalmente libera! Una lettera giunta ad Esino verso la fine del mese, così sintetizzava le Cinque Giornate e partecipava la gioia del trionfo:

« Il popolo di Milano cominciò la rivoluzione coi bastoni e scacciò i nemici coi fucili che tolse loro, perchè prima in Milano ve n’era pochissimi... Che gioia fu mai quella di tutta la città quando la mattina del giovedì la città si trovò libera! Tutti si baciavano e si abbracciavano; si piangeva dalla contentezza, si rimaneva sbalorditi; pareva un sogno, e anche adesso si stenta a credere al cambiamento successo. In questi giorni siamo in carnevale; per tutte le case sventolano delle belle bandiere; il popolo è tutto armato e contento » (4).

Intanto, lungo la strada dello Spluga, presso Bellano, ci si preparava a ricevere le truppe austriache in fuga. Ottenute armi dall'Arsenale di Lugano, circa 800 uomini furono armati di fucili, vennero piazzati 18 cannoncini da montagna « e su tutte le alture, ove vennero ammucchiati sassi, sono assegnati i posti a quelli che non hanno fucili, organizzati i corpi di lapidatori che non attendono altro che i Santi Stefani, croati e tedeschi, per esercitare le loro funzioni e per scacciare con gli scogli volanti gli scogli fuggenti di Radeski. contro i quali, per buona sorte, non si infransero i Meneghini » (5).

Tanto fervore, sempre alimentato dall'esemplare valorosissimo Comitato di Lecco nei cinque drammatici mesi di quell'anno che ben a ragione il Carducci definì l'anno dei potenti, doveva purtroppo infrangersi contro la triste fatalità dei rovesci dell'esercito piemontese.

Il primo agosto, d'ordine del comitato di pubblica difesa di Milano, veniva proclamata la leva in massa di tutte le Guardie nazionali. Il giorno 2 la notizia giunse a Esino. I volontari scesero a Perledo, accompagnati dal parroco. Nella chiesa della pieve il prevosto, dopo aver tenuto una funzione solenne, pronunciò un discorso caldo di patriottismo, quindi accompagnò gli armati a Varenna, dove il curato Don Enrico Ruspini scese sul piazzale antistante la Chiesa e impartì la benedizione. Era tempo piovoso; la marcia continuò sino a Lecco; le truppe pernottarono a Pescarenico. Sul far del mattino fu fatta l'adunata e finalmente il battaglione, al comando del maggiore Bartolomeo Adamoli, si mise in marcia alla volta di Milano. Consumato il rancio ad Olginate, alla riva di Calco si cominciarono a incontrare militari in fuga da Milano; dopò breve si seppe che la città era capitolata.

Il ritorno fu precipitoso e triste, ma, benché i Comitati si fossero già rifugiati in Svizzera, lo spirito indomito dei montanari non volle ancor cedere. A Varenna si apprestarono opere per arrestare i nemici; a Fiumelatte e a Morcate si eressero barricate e si ammucchiarono macigni da precipitare sul nemico. (6)

Inutili tentativi; dopo qualche giorno gli Austriaci sbarcarono in forze. Una delle loro prime visite fu per il parroco Don Ruspini a cui incussero tale spavento da procurargli una grave forma di nevrastenia. Poi salirono ad Esino, dove i patrioti avevano nascosto i fucili, e arrestarono Paolo Barindelli, conducendolo a Ballano, dove fu poi a lungo trattenuto. Si racconta anche « di un fabbro ferraio di Varenna al quale venne fatta una perquisizione e trovandosi tra i suoi ferri vecchi una baionetta rosa dalla ruggine, fu preso a fucilate » (7).

La paura incominciò a regnare dovunque. Pure, la breve parentesi, dando a gustare il sapore della libertà a gente che per tanti secoli passati aveva conosciuto una fiera indipendenza, aveva lasciato il suo seme. Già nel novembre dello stesso '48 si verificarono i primi moti della Val d'Intelvi per opera di Andrea Brenta di Varenna, che, sorpreso per tradimento dopo la breve rivolta di Como durante le feste di Pasqua del 1849, veniva condannato a morte e fucilato il 14 aprile.

A Varenna si tenevano riunioni patriottiche in casa Mornico. Ma uno dei congiurati, l'amministratore della casa, tradì ed un giorno approdò un vapore carico di soldati austriaci proveniente da Bellagio. I due fratelli ebbero l’intuizione di quanto stava accadendo; Carlo, notaio, attardatosi a nascondere i documenti, riuscì a sottrarsi camuffandosi da muratore, mentre Lelio si inerpicava per la montagna rifugiandosi ad Esino in casa dell'amico Carlo Pensa non sospetto per il suo prudente comportamento, e passando quindi nella Svizzera.

Nei dieci anni che corsero dal '48 al '59, Pietro continuò i suoi studi a Milano, e, pur dedicandosi a quelli con profitto, non mancò, coltivando la tradizione delle 5 Giornate, di cospirare nella grande attesa.

Durante l'estate ritornava ad Esino e portava ai giovani amici di lassù il calore delle aspirazioni dei patrioti. Il padre gli raccomandava di guardarsi da pericolose illusioni, lo ammoniva dicendo che il '48 aveva insegnato abbastanza, ma Paolo Barindelli, per nulla domato dalla triste esperienza della prigione e dalla costante sorveglianza della polizia, lo incoraggiava a prepararsi. Così che il 1859 lo trovò tra i primi nella Guardia Nazionale della Parrocchia di S. Cabila, 4.a legione, 16.a Compagnia.

Milano è tutta fervente per la riacquistata libertà, di mantenere la quale sono questa volta ben più fondate le speranze. Dalla montagna, invece, giungono notizie di indifferenza e di timore. A Pietro che scrive lamentandosene, così risponde la dolce sorella Teresina: « Ho sentito dalla tua lettera che hai dispiacere perchè quelli di Esino sono insensibili per la scacciata dei Tedeschi. Non è che loro rincresca per la partenza degli Austriaci, ma è perchè hanno paura che tornino indietro come hanno fatto nel 1848. Ma basta! Vogliamo sperare che non sia più il '48! » (8).

Deliziosa sincerità!

Finalmente, sul principio del 1860, i montanari si rinfrancano, il timore scompare: l'entusiasmo dei giovani ha ragione della prudenza dei vecchi. Si ricostituisce la gloriosa Guardia nazionale, e Matteo Grassi, il giovane maestro, ne dà notizia all'amico Pietro:

« Riguardo alle novità del paese, ho a dirti che oggi si sentì per la prima volta nelle nostre contrade il frastuono del tamburo della Guardia nazionale, la quale ora è perfettamente in ordine colla montura e coi fucili; oggi è poi giunto anche l'istruttore che è un Ungherese e questa sera si darà principio alla manovra; tutti hanno un contegno veramente militare e gran precisione ed esattezza ad eseguire i fuochi di parata. Benché in molte città e paesi le autorità ecclesiastiche non vollero prestarsi a celebrare con rito religioso, il nostro Parroco ha funzionato in tutta pompa e ha avuto la compiacenza di benedirci la bandiera, la quale è di una bellezza sorprendente. Il tuo nonno mi ha detto che per le feste di Pasqua tu ti recherai qua ad Esino; io non vedo l'ora di favellarti per trattenermi con te sulle novità che corrono in Italia » (9).

Pietro, però, non venne per la Pasqua; scrisse che gli studi lo trattenevano a Milano, che sarebbe tornato solo all'inizio dell'estate. Lo attesero per allora, ma a giugno giunse la notizia che si era imbarcato con i Bersaglieri lombardi del Medici per raggiunger Garibaldi.

Stupore in paese, entusiasmo e santa invidia tra i giovani, tragica tristezza nella casa.

A settembre cominciarono ad arrivare le prime lettere: parlavano di Milazzo, poi di Messina, del Volturno, con entusiastiche descrizioni di sanguinosi scontri che non erano atte certo a tranquillizzare i genitori. E la sorella, con lo enigmatico ed incerto indirizzo: « Palermo o dove», oppure: «Napoli o segue», scriveva:

« Dopo la tua partenza da Milano in casa nostra non si sentono altro che gemiti e lamenti. Che hai fatto? Sino a quest'ora non avevi mai dato un minimo disgusto ai genitori e adesso hai causato uno di quei dispiaceri che non ti immagini neppure... ».

Il poveretto, facendo seguito al resoconto di una battaglia con i Borbonici, nel corso della quale erano stati fatti prigionieri 2.500 nemici e messi in fuga i rimanenti sin sotto le mura di Capua, rispondeva:

« Ho io fatto un qualche delitto partendo per unirmi ai miei compagni e aiutar così a formar l'Italia una e indipendente? » e subito dopo:

« Stamattina Garibaldi, fatta la rivista ci lodò, ci ringraziò e ci disse che ci siamo battuti da veri Italiani! ».

Come Dio volle, l'eroica campagna finì, e Pietro, che si era guadagnata una medaglia di bronzo e un diploma di encomio e di benemerenza decise di seguire la carriera militare « l'unica veramente nobile in questi tempi ».

Giunsero dalla montagna lettere tristi e deprimenti; egli allora, da bravo figlio qual era, come se ne davano in quei tempi dabbene, depose il proposito di diventare ufficiale dell'esercito di sua maestà il Re d'Italia e ritornò a Milano per condurre a termine i suoi studi.

Come fu ingegnere, entrò nella carriera delle ferrovie del nuovo Stato; ma proprio quando le prospettive di avanzare rapidamente, in grazia del gran bisogno di tecnici che v'era, si mettevano assai buone, sì che già si era fidanzato con il proposito di crearsi presto una famiglia, le sorelle scrissero che Carlino, il fratello minore, aveva deciso di farsi sacerdote e che i genitori si struggevano al pensiero della solitudine prospettatesi alla loro prossima vecchiaia. Batti oggi, batti domani, Pietro, sempre per ubbidienza decise di prendersi anche la patente di maestra e di tornare sulla montagna. La fidanzata cittadina non volle saperne di seguirlo lassù; lui la lasciò, rimase scapolo ancora qualche anno, sin che alla fine sposò la figlia di Paolo Barindelli il patriota, ed ebbe molti figli, tra i quali mio padre.

Mi hanno raccontato che delle sue vicende di garibaldino nonno Pietro ben raramente parlava; teneva però gelosamente nascosti i diplomi, la giubba rossa e le lettere di allora, tanto più nascosti in quanto che, se fossero caduti nelle mani del fratello prete, santo e saggio uomo ma naturalmente invelenito contro quell'Italia che aveva imprigionato il Papa in Vaticano, sarebbero finiti tra le fiamme.

Nonno Pietro morì nei primi anni del secolo, dopo una vita di sacrificio che, se gli aveva meritato varie medaglie del Ministero della Pubblica Istruzione e l'affettuosa stima della gente delle vallate del Lecchese, aveva però limato assai la sua pur forte fibra.

Mio padre portò il lutto per qualche anno, poi finì con l'accasarsi; mia madre era la seconda di tre sorelle rimaste sole superstiti di ima di quelle famiglie della borghesia milanese fanatiche della loro città come se ne davano in principio del secolo. Si può immaginare lo scandalo delle altre due quando seppero che voleva sposare un montanaro, divenuto cittadino per ragioni di lavoro, ma pur sempre montanaro. Tanto dissero e tanto fecero che la mamma per poco non rinunciava al proposito; alla fine, innamorata qual era e ingenua come i suoi vent'anni, decise di visitare lo zio prete del futuro marito e di chiedergli consiglio; il sant'uomo la consolò, le disse che il nipote era un bravo figliolo, con un unico difetto, quello di amare troppo Garibaldi, ma che la colpa non era tutta sua. Si fece il matrimonio, ma le sorelle indignate si tennero lontane dagli sposini. Sin che nacqui io. Mio padre, ligio alla tradizione, volle che vedessi la luce sulla montagna avita, e la mamma dovette affrontare il viaggio da Milano sin lassù. A Varenna l'attendeva una slitta, ma gli scossoni sull'acciottolato della mulattiera la convinsero presto a proseguire a piedi.

Era la mattina del Corpus Domini. Manco dirlo, appena giunta alla casa vecchia, io pretesi di venire a questo mondo. Non vi erano levatrici; fu chiamata zia Teresina. Suonavano le campane a festa; le donne del paese, radunate sotto il portico di pianterreno, pregavano perchè non accadesse malanno. Tutto andò per il meglio e persino le sorelle, avvertite per telegrafo, decisero di deporre ogni risentimento e vennero al battesimo. Alla stazione le misero in sella a due muletti, che fecero rivivere loro le pene di Don Abbondio. A un certo punto, approfittando del distacco dei conducenti attardatisi a chiacchierare, le due bestie si fermarono a mangiare qualche ciuffo di erba; una allungò un poco troppo il muso e l'inesperta amazzone rotolò di sotto. La china era scoscesa e paurosa e finiva a picco sul torrente, ma per fortuna un isolatissimo carpine arrestò la poveretta che se la cavò con qualche graffio e con un gran spavento non propizio certo a riconciliarla con la montagna. Comunque, il battesimo mi fu somministrato e dicono che venne persino suonato in mio onore il grande organo del '500.

Crebbi sano e divenni grandicello nonostante il ruzzolare per le scale di cui ho raccontato. Ora avvenne che quando ero dodicenne e la cara prozia Teresina era morta ormai da un paio di stagioni, la mamma, giungendo ad Esino all'inizio dell'estate, trovasse la casa infestata dalle tarme. Obbrobrio simile non si era mai dato, già che tutti gli anni, prima di partire, ogni abito veniva accuratamente posto in naftalina.

Si cercò la causa e, passando da una all'altra stanza, si giunse alla fine alla cassapanca che conteneva la giubba rossa di nonno Pietro; all'aprirla, un nugolo di tarme svolazzò attorno. La mamma fece chiamare le cognate e venne tenuto consulto: zia Teresina, anima cara, ormai sotterra, il babbo quasi sempre assente, e lontano, in ogni caso da quei ricordi, nessuno certo si sarebbe accorto della scomparsa. Così la fine del cimelio fu decretata.

Ricordo che venne acceso il fuoco nel camino e che le fiamme, o per la gran luce del giorno estivo, o fosse il rosso vivo del panno garibaldino, avevano riflessi di sangue. Quando si spensero dopo l'effimera vampata, nel focolare rimase un pugno di cenere senza brace, e nel mio cuore di ragazzo, pieno di entusiasmi, la prima vera tristezza della vita.

Note

(1) N. 22 del giornale « Il 22 Marzo » - Lettera del Commissario di Bellano.

(2) Il Comitato di Pubblica Sicurezza sedente in Lecco al Corpo Municipale di Como - A.S.M. 22 marzo 1848 -Cart. 140 fasc. 68.

(3) Il Comitato di Lecco al Municipio di Morbegno - A.S.M. 22 marzo 1848 - Cart 197 fasc. 86.

(4) Lettere dall'archivio di casa Pensa.

(5) N. 22 del giornale « Il 22 Marzo» - Lettera citata.

(6) Memorie di Domenico Arrigoni raccolte dall'Adami in «Varenna e Monte di Varenna».

(7) Gazzetta di Venezia 5-12-'48.

(8) Lettera dall'archivio di casa Pensa.

(9) Lettera dall'archivio di casa Pensa.