La banda del mio paese, articolo di Pietro Pensa

Centro di documentazione e informazione dell'Ecomuseo delle Grigne

Pietro Pensa, La banda del mio paese, in "Ciao Como", 1979, pp. 84-88.

Spentosi ormai, verso la metà del secolo passato, il suono del sud, la zampogna del dio Pan, nostalgico suono che nelle sere d'estate raccoglieva i pastori a cantare sui pascoli più alti, cessato del tutto nei giorni di festa il vasto concerto della cornemüse a due canne che con l'insistere della voce bassa faceva impazzire uomini e donne spingendoli a cercare i luoghi più nascosti per ballare lontano dai fulmini dei preti, cominciarono ad apparire i primi strumenti di metallo. Quando giunsero lassù proprio non so dire; mi assicurano che tromba, clarino e tamburo vi erano ai tempi dell'ultima Austria e che proprio attorno ai suonatori si era formata la « resistenza » d'allora. Il gran capo, un Barindelli, tipo balzano e pieno di coraggio, nel '48 si mise in testa con la sua tromba ad un drappello, armato di fucili da caccia, di roncole e di forche; voleva che il prete li seguisse, ma quello piangeva protestando di esser vecchio e malandato; loro scesero a Lecco, saccheggiarono un negozio per mangiare, poi, ridottisi in pochini, raggiunsero a Monza quelli del borgo ed entrarono in Milano a dar manforte all'insurrezione nell'ultima delle 5 giornate.

A raccontar la storia era mio nonno che in quel tempo, ragazzetto, abitava in città con uno zio e frequentava le prime classi nella scuola del maestro Marcora. I miei, allora, nonostante le simpatie per l'Austria di mio bisnonno Carlo, uomo severo e amante dell'ordine costituito, erano in gran dimestichezza con i Greppi, di cui Marco fu membro del governo provvisorio; un diario di quei giorni, inviato dalla moglie di lui alla mia bisnonna Antonia, mi è rimasto e varrebbe pubblicarlo.

Raccontava dunque nonno Pietro che lui ed altri fanciulli eran stati chiusi in uno stanzone, mentre i grandi andavano alle barricate; eran riusciti a scappare ed eran corsi ad aiutarli. Quando, resi pazzi dalla vittoria, eran tornati tutti in casa, in Terraggio San Carlo, si eran visti capitare, conciati come ladri, quei pochi di lassù ed avevan fatto festa insieme a non finire. ,

Poi, ricomparvero gli Austriaci; si fermarono all'imbocco del ponte sull'Adda, credendolo minato; quando il prevosto Mascari andò loro incontro su un cavallo bianco facendolo scalpitare ad ogni arcata, rassicurati, promisero di non darsi a ritorsioni. Il Barindelli, però, che era tornato al paese con la sua tromba, fu messo in prigione a Bellano ed il mio bisnonno, che era deputato, stentò parecchio per poterlo liberare.

Nei dieci anni che vennero dopo, nonno Pietro, che frequentava le scuole sempre a Milano, si era fatto giovinotto e con l'amico Giuseppe Marcora figlio del suo maestro, che sarebbe poi diventato Presidente del Consiglio dei Ministri dell'Italia fatta unita, complottava. Quando la città venne di nuovo liberata nel 1859, lui fu nominato Guardia Nazionale di San Babila in Milano. D'allora è la prima notizia scritta sulla banda di lassù; ho due lettere, in proposito, indirizzate a nonno Pietro, certo in risposta a sue lamentele per troppo tiepido patriottismo dei compaesani. Dice la prima, della sorella Teresa, maestra: « Non è che quelli di Esino siano insensibili per la cacciata dei Tedeschi; è perché hanno paura che tornino indietro, come hanno fatto nel 1848. Ma basta. Vogliamo sperare che non sia più il '48 ».

E l'altra, dell'amico Grassi che poi gli fu cognato: « Ho da dirti che oggi si sentì nelle nostre contrade il frastuono del tamburo e della tromba della nostra Guardia Nazionale, la quale ora è perfettamente in ordine colla montura e coi fucili ».

La banda, dunque, pur piccolina, era formata. Il mio nonno, intanto, si era arruolato tra i bersaglieri lombardi con l'amico Marcora. Raggiunse Garibaldi a Milazzo, combatté, passò lo stretto col generale ed a gran tappe raggiunse Napoli; fu tra quelli che a Caiazzo rischiarono la disfatta — ho di lui un fascetto di lettere sbiadite che ho pubblicato nel centenario —, si guadagnò la sua brava medaglia di bronzo e infine ritornò. So che era deluso dall'epilogo che aveva messo nell'ombra Garibaldi e i volontari per l'arrivo dei regolari dal Piemonte.

Lassù, tutto andava ancora per il meglio. L'amico gli aveva scritto: « Benché in motti luoghi le autorità ecclesiastiche non vollero celebrare con rito religioso la sacratissima nostra festa nazionale del due giugno, il nostro Parroco ha funzionato con gran pompa ed ha avuto anche la compiacenza di benedire la bandiera della nostra Guardia Nazionale, la quale è di una bellezza sorprendente. Abbiamo fatto la parata al suono della banda ».

I contrasti cominciaron dopo, quando anche Roma divenne italiana; durarono, fra tregue ed ostilità, cent'anni giusti e toccò a me, quando fui sindaco, di metter su tutto la parola fine; ma voglio raccontare. Al centro delle baruffe furon la banda e il cimitero. Bisogna sapere che lassù la gente era cresciuta a dismisura; avvenne così che il camposanto, un pezzetto di terra fra i sassi del dosso della chiesa, non fu più sufficiente ad accogliere i defunti. I sindaci — i comuni erano due, in contesa fra di loro salvo quando si trattava di esser contro il prete, uno solo in un'unica parrocchia — decisero di aprire un nuovo cimitero assai più in basso. Il curato si oppose dicendo che avrebbe inquinato una sorgente da cui attingeva acqua, salutare per di più. Nacque lite, si intromise anche il prefetto e l'opera fu fatta. Se non che, dopo qualche anno accadde che di notte, nei mesi dell'estate, si videro levarsi fuochi fatui dalle sepolture. La gente sussurrò che il prete non aveva benedetto il posto con sincerità, ma i più saggi compresero che il terreno, argilloso, non consumava.

Morto quel curato, ne venne un altro e si portò un fratello per coadiutore, sacerdote pure lui; eran gli ultimi rampolli di un'antica famiglia di Valsassina, che nei secoli passati aveva dato notai, guerrieri e grandi imprenditori del ferro, più volte tristemente nota per prepotenze e per delitti. I due, in fondo non cattivi ma senza comprensione, erano grandi cacciatori e al tempo delle passate facevan levar le donne per la Messa alle tre della mattina; al coadiutore, poi testa balzana, piacevan le sottane e una volta un marito lo appostò di notte presso una cascina col fucile; lui, agile e svelto, riuscì ad uscir dal tetto e a dileguarsi nel bosco sovrastante; molti anni dopo, però, si sussurrava ancora del bambino che era nato, e che, fatto grande, gli assomigliava per davvero.

La banda, intanto, era diventata assai brava e veniva chiamata anche in paesi lontani. In fondo, era un peccato dirne male: se in quei tempi anticlericali, non parteggiava per i preti, pure teneva occupati gli uomini nei giorni festivi ed anche il trombone, ubriacone intemerato, riusciva sempre a dominar la sbornia e a trarre note di basso dallo strumento.

Accadde, nel 1912, che si inaugurasse la strada della Valsassina inferiore. Nell'agosto, il senatore Gavazzi, conservatore, celebrò l'apertura a Taceno; pochi giorni dopo, per ripicca, l'onorevole Cermenati, liberale, ripeté a Bellano l'inaugurazione; i due percorsero in senso opposto la nuova via. La nostra banda era stata invitata e dall'uno e dall'altro; andò con Cermenati. Il prete, che sosteneva i conservatori, se l'ebbe a male: disse in chiesa che non avrebbe più permesso che la banda seguisse i funerali. Tra le proteste, si dovette sottostare. Quando, però, capitò che morisse il capobanda, i suonatori si nascosero dietro la chiesa; appena uscì il feretro si accodarono e presero a suonare; i preti allora gettarono le cotte e abbandonarono il corteo. Ne nacque scandalo; intervenne la curia e un bel mattino parroco e coadiutore scomparvero alla chetichella, destinati ad altre cure.

Venne poi la grande guerra e i piccoli contrasti caddero del tutto. Ripresero quando, un decennio dopo, si dovette tornare al cimitero vecchia perché il nuovo non consumava. Il parroco di quegli anni si oppose e mostrava la mappa che lo indicava proprietà della Chiesa. Prevalse infine il buon senso: il cimitero fu ingrandito e vi sorse anche una chiesetta. Proprio attorno a questa doveva chiudersi l'ultimo atto della vicenda. Fu una quindicina d'anni fa. La banda, purtroppo, si era sciolta ed io, che ero sindaco, ne provavo dispiacere. Una mattina il nuovo curato, che veniva di pianura, scese sotto il muraglione del camposanto e diede fuoco ai fiori secchi che vi erano accatastati. Soffiava un po' di vento, le fiamme in montagna vanno verso l'alto, la chiesetta si incendiò.

Non ne facemmo questione, riuscii a raccoglier soldi e manodopera e la ricostruii. Fosse la buona volontà che ci mettemmo, fosse che i tempi eran cambiati, un giorno il parroco mi disse: « So che le spiace che la banda non ci sia più. Se ci pensassi io a rimetterla insieme un'altra volta? ». Così la nostra banda è rinata al segno della pace. Quel che più conta è che tanti sono i giovani e suonan bene e con passione. Davanti a tutti stanno in fila le ragazzette e quando soffian nel clarino sembran proprio ricamare. Ne ho scattato la fotografia e la metto qui, nella sua grazia, a far contrasto con quella marziale dei bisnonni del 1900.

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