Iniziarono nel Quattrocento i primi "sfrusadur" nostrani

Centro di documentazione e informazione dell'Ecomuseo delle Grigne

Articolo pubblicato da Pietro Pensa in L'Ordine, 13.7.1979


Come scrissi, a determinare il ritmo delle attività delle popolazioni, sia delle rive che delle valli, fu pur sempre l'agricoltura. I campi erano coltivati ovunque, dal lago sino a 1000 m. di altitudine; vidi più sopra, persino a 1800 m. di altitudine, campetti di rape: tanto era il bisogno di terra! I prodotti ricavati non avevano una grande varietà. Dai documenti mi risulta che la segale fu di uso antichissimo: è infatti graminacea ben resistente ai mutamenti di clima. Il mais, o furmentasc, detto in italiano granoturco non per una provenienza dal medio oriente, ma perchè «turca» era chiamata ogni roba forestiera, introdotto in Europa da Colombo, cominciò a diffondersi nel Veneto a metà del 1500, da noi soltanto verso la metà del secolo successivo, ma molto lentamente; eppure sul Lario è chiamato «carlone»», in quanto si dice che il primo a farlo conoscere fosse stato San Carlo. La sua coltivazione, intensa, è però del 1800. Serviva per preparare la polenta che in genere era composta di farina gialla mescolata a farina nera ricavata dalla fraina.

Questa, o fórmenton, in italiano grano saraceno, era diffusa nelle nostre valli anche perchè permetteva una rotazione di coltivazione. Ad autunno era bellissimo vederne i campi di un bianco rosato contrastare in colorazione ancor fresco dei prati. Una farina ghiaiosa, di gusto particolare, di cui diremo ancora.

Importantissima fu però per la nutrizione la patata. Trovò da noi un clima ed un terreno ottimi: vi furono paesi in cui diventava cosi buona da essere venduta fuori terra per semente. Introdotta dagli Spagnuoli tra la fine del 1500 e l'inizio del 1600, con provenienza dal Cile, dove cresce spontanea, solo all'inizio del 1800 venne veramente diffusa, dimostrando la sua eccezionale utilità. Sul Lario la introdussero gli Austriaci, dopo la carestia del 1817. In quell'anno, infatti, si verificò una tremenda crisi, che per poco non provocò delle sollevazioni popolari. Le autorità di Como corsero ai ripari e spinsero la coltivazione della patata che a cavallo dei due secoli era stata propugnata dal famoso Augustin Parentier.

E' da ritenersi che la denominazione dialettale della patata, tartiful, di chiara origine tedesca, sia proprio da attribuirsi all'introduzione che ne fecero le autorità austriache.

Sino al periodo tra le due guerre, ancora assai curata in molti luoghi del nostro lago era la vite. Oggi è quasi ovunque scomparsa: un poco se ne è salvata in Tremezzina, tra Menaggio e Gravedona, nonché nel centro lago orientale e nei dintorni di Bellagio. Benché non più diffusa come nei secoli passati, durante i quali le uve di Cultonio, nei pressi di Bellano, erano celebri in tutta Italia, pure, quando io ero ragazzo si producevano ancora centinaia e centinaia di ettolitri di vino. Mette tristezza vedere perduto il grande lavoro degli avi che, muricciolo sopra muricciolo, avevano costruito i terrazzamenti per vigna che ancora oggi reggono all'abbandono. E' uno spettacolo guardarli sulla montagna sopra Rezzonico e, ancor più, sulle basse pendici del Muggio, protese sino sopra gli strapiombi del Pioverna.

Negli antichi statuti, le comunità stabilivano le norme per la vendemmia, così come determinavano i tempi di raccolta delle ulive. Anche gli uliveti, purtroppo, sono quasi tutti scomparsi: ed era pur bello il paesaggio del lago visto nella straordinaria cornice di cipressi ed ulivi, che s'incontravano tanto frequenti lungo i sentieri della fascia più bassa dei nostri monti.

Il torchio per l'uva era attrezzo costoso e ben poche famiglie lo possedevano. Ne affittavano l'uso dietro compenso o di giornate lavorative o di vino.

Accanto alle attività fondamentali di cui ho scritto, se ne conducevano numerosissime altre che provano lo spirito di iniziativa della gente del Lario.

Non vi era villaggio che non avesse uno o più mulini mossi dall'acqua. Vi si macinavano il granoturco, la fraina, la segale, il frumento ed anche il miglio. Vi erano poi mole per le noci, da cui si ricavava olio; per le mele, che davano il sidro.

Nel territorio a sud di Acquaseria-Bellano, i cui monti sono calcarei o dolomitici, diffuse erano le calchere, per la preparazione della calce viva, che veniva venduta anche in pianura. Vidi, poi, persino a 1500 m. di altezza, fabbrichete di mattoni, vecchie anche di due o tre secoli, cuocere ancora i cupp che rendevano tanto pittorici i tetti degli antichi villaggi; oppure cuocere quei lunghi mattoni variegati fatti dei quali erano i bei pavimenti delle nostre chiese che, purtroppo, per essere moderni, i nostri parroci hanno sostituito con le banali piastrelle preparate in Emilia. Utilizzavano le argille moreniche abbandonate dall'antico ghiacciaio.

Non va, infine, dimenticata una nefasta attività che, se portò denaro a molti nostri territori, fu purtroppo il seme di una arretratezza di sviluppo di cui ancora oggi soffrono parecchi nostri bellissimi villaggi. Voglio dire del contrabbando. Piaga antichissima, raccolsi su di essa decine di documenti dal 1400 in su; già ne scrissi e presto riprenderò l'argomento in un lavoro che ho in corso sulla fine del medioevo. Si trattava allora del passaggio di «biade» dal ducato alla repubblica di Venezia e ai Grigioni. Ne era interessato tutto il lago; celeberrimi erano gli sfrusadur che portavano le loro merci, attraverso i laghi di Olginate dì Garlate, dalia ricca Brianza al Bergamasco; i barcaioli di Mandello, di Varenna e di Bellano non eran da meno con le loro barche che risalivano sino all'Adda ed al Mera; dalle strade della Valsassina passavano carri e carri carichi per il transito nelle vallate bergamasche possedute da Venezia.

Ai tempi della mia fanciullezza era, invece, in pieno fervore il contrabbando con la Svizzera. Debbo dire, per porre l'argomento nei suoi giusti termini psicologici, che noi del Lario abbiamo l'animo dello sfrusadur. I nostri nonni hanno infatti sempre visto lo Stato nella figura dello sfruttatore. Mai, allora, la mano dello Stato giungeva sino a noi per aiutarci; se oggi, pure inferiore al nostro desiderio e al nostro bisogno, non mancano i contributi per le nostre strade, per le nostre scuole, per i nostri acquedotti, nella seconda metà del secolo scorso il governo si faceva vivo soltanto attraverso il fisco che mandava l'esattore a riscuotere i tributi da poveri montanari che già morivano di fame. Dal che, ingannare lo Stato non era considerato una colpa. L'unica attenzione, quindi, doveva esser posta a non venire colpiti. L'attività del contrabbandiere, d'altronde, era sino ai tempi della prima guerra mondiale un mestiere durissimo e pericoloso.

Da ragazzo più di una volta mi accompagnai con gli sfrosadori che agivano sui monti a settentrione di Menaggio. Ho di allora ricordi esaltanti: lunghe marce con le bricolle attraverso i passi tra Cardinello e Bregagno, soste presso Buggiolo e Seghebbia, nella notte, un povero cibo mangiato così, frettolosamente, mentre qualche amico contrabbandiere mi mostrava alla tenue luce di una sigaretta accesa i bellissimi tatuaggi che portava sul petto e sulle braccia; poi, rapide discese giù dal Passo Stretto verso la Valsolda, oppure la traversata in cresta lungo la valle Menaggio, un veloce calare in un punto deserto della riva del lago e lì le barche piatte, poco visibili, dei pescatori di Lezzeno che attraversavano il lago, raggiungendo la sponda più orientale, dalla quale altri spalloni prendevano il tabacco per risalire il monte sino ai passi sulla Bergamasca. Né meno avventurosi erano i tragitti che dalla Valtellina raggiungevano le nostre valli. sempre a destinazione di Valtaleggio e Valbrembana. Più di una volta, da bimbo, mi destavo al sordo ritmico batter dei peduli di contrabbandieri, che in fila indiana andavan costeggiando la mia casa diretti verso la montagna, rapidi e cauti.

Né mi potrò dimenticare un giovane amico del Piano di Val Menaggio che, in uno scontro con le guardie, uccise un finanziere. Languì a lungo in carcere e vi morì.

Debbo dire, per dare più senso al folclore di quella ormai leggendaria attività, che più di un sacerdote della Valle Cavargna, indottovi dalla tremenda miseria della sua gente, fu alleato di quei poveretti. Ne conobbi uno, nativo delle mie parti, che più di una volta, grazie alle sue gambe di montanaro, riuscì a salvare contrabbandieri dalle sorprese della Finanza. Sull'argomento, ritornerò ancora.