Il furore del fitto a grano, tragedia della Brianza
Pietro Pensa, Il furore del fitto a grano, tragedia della Brianza in Quaderni Erbesi, vol. XII, 1991.
Il millesettecento è ritenuto un secolo felice per la Lombardia grazie all'attenzione che il governo austriaco prestò allo sviluppo dell'economia. Pochi sanno invece che proprio il sistema adottato per la conduzione dell'agricoltura fu il motivo dell'apparizione nel più ricco territorio del ducato di un tremendo male e del conseguente rimpianto dei tristi tempi spagnoli.
Per spiegare ciò, accomuno, in una singolare situazione socio-economica, due zone del Lario e del suo pedemonte, una la più povera, l'altra la più ricca.
La proprietà dei terreni
Dopo la fine della dominazione spagnola, ossia quando, nel 1722, si stavano conducendo i lavori per il catasto che avrebbe preso il nome di Maria Teresa, la proprietà dei terreni delle sette agenzie catastali in cui erano stati divisi i comuni della provincia di Como (Varesotto escluso), è indicata nella Tav. 1.
Pochissime erano le terre possedute a titolo feudale, presenti solo nelle Tre Pievi, in Valle Intelvi e nella pieve di Nesso. Massiccia in montagna era la presenza di beni comunali: del 60% in superficie a Menaggio, del 70% in Valsassina, dell'80% a Porlezza, con valor capitale rispettivamente del 25% e del 40%, mentre per i terreni di proprietà privata a Menaggio e in Valle Intelvi al 22% di superficie corrispondeva il 55% di valor capitale. Similmente, nelle zone collinari da Lecco a Incino il 40% in superficie di proprietà privata corrispondeva a circa il 70% di valor capitale.
In collina ridotta era la proprietà nobiliare, molti invece i possessi ecclesiastici, di chiese, di parrocchie, di conventi e di ordini.
Nell'alta pianura aumentava la proprietà nobiliare con il 32% di superficie corrispondente al 34% di valor capitale; parrocchie e clero sul 7% di superficie avevano il 9% di valor capitale.
Nel corso del 1700 si manifestò un progressivo disgregamento della proprietà ecclesiastica con un lieve rafforzamento di quella nobiliare, fenomeni ambedue che corrispondevano alla politica austriaca di eliminare entità ecclesiastiche e di favorire la nobiltà. Un editto del 1779 inteso a promuovere l'agricoltura favorì gli acquisti di fondi comunali, ma si risolse coll'apparire di un numero ristretto di speculatori.
Preciso, senza tuttavia registrare i nomi, che l'agenzia di Lecco comprendeva tutti i comuni della Riviera e delle valli del Lario orientale; quella di Menaggio riva e valli del Lario occidentale, Bellagio incluso; quella di Cantù la Brianza occidentale; quella di Erba il Triangolo Lariano e le colline centrali della Brianza; quella di Oggiono la Brianza a Sud di tali colline e quella di Merate la Brianza ad Est delle stesse.
Como giace nelle agenzie di Lecco, di Menaggio e di Erba, le medie colline nelle agenzie di Como e di Oggiono, le zone più piane in quelle di Cantù e di Merate. Ciò è messo in evidenza dal fatto che in montagna è alta la presenza dei beni comunali, mentre il latifondo si afferma procedendo verso la pianura; assai spezzettati appaiono, dall'alto numero di proprietari, i coltivi privati in montagna, di media superficie in collina, mentre i grandi prevalgono nella pianura
Il fìtto a grano
Nel secondo ventennio del 1700 nella Brianza occidentale e nella pianura briantea, come si rileva dall'unita cartina, i contratti agrari in corso erano di fitto a grano, mentre nella collina centro-orientale permanevano del tipo a mezzadria, sistema che era stato ovunque diffuso nei secoli spagnoli.
Premetto che l'istituto di colonia parziaria nella conduzione dei fondi agricoli era di antichissima origine, avendo già avuto regolamento giuridico nel codice di Hammurabi e nel diritto mosaico, che era praticato nella Grecia antica e nella Romanità. Nell'età feudale era stato connesso con la servitù della gleba, mentre all'apparire dei liberi comuni la mezzadria si era diffusa tra proprietari e servi della gleba redenti. Sostanzialmente consistente nella suddivisione a metà dei prodotti tra proprietario del terreno e coltivatore, con prestazioni minori ed onoranze, quale fornitura di pollame, di uova, di salumi, con suddivisione a metà delle scorte vive e morte a scadenza del contratto, la colonia parziaria è sinonimo di mezzadria ed anche di masseria. I contratti di mezzadria, per lo più della durata di tre anni, erano fatti a voce, o con carta privata, raramente con rogito notarile. Rappresentarono in ogni tempo la forma migliore di conduzione, perché la consuetudine generalmente seguita del rinnovo stimolava proprietario e coltivatore alla buona conservazione del fondo e alla condotta di maggior resa. A metà erano divisi anche i carichi fiscali.
Il fitto a grano, che consisteva nel pagamento con grano al proprietario da parte del coltivatore, il quale prese il nome di pigionante, considerava la fornitura del seme e della foglia del gelso dal proprietario, con divisione a metà del vino, dell'olio e delle gallette prodotte e con pagamento degli oneri fiscali da parte del pigionante.
Il 1700 fu il secolo del contratto a grano e della coltura del gelso; già nel 1750 il fitto a grano era diffuso in tutta la Brianza, con vantaggio dei possidenti, favoriti dal governo austriaco per il concetto che la proprietà privata, a differenza di quella comunale, conducesse a una migliore gestione dei terreni.
Il fitto a grano diede motivo a una nuova figura intermedia tra proprietario e pigionante: quella del fittabile che, affittando per denaro grandi proprietà in blocco, subaffittava piccole unità poderali a pigionanti ritraendo come canone frumento, mentre galletta e vino erano considerati a metà.
Naturalmente, il pigionante veniva continuamente ricattato dal fittabile con la minaccia di cacciarlo dal fondo e finiva con il cedergli parte della sua quota di galletta e di vino. La figura del fittabile appare ovunque nell'alta pianura e anche in collina e nei dintorni di Como.
Il nome di massaro andò perdendo nel 1700, specialmente in pianura, il suo significato di mezzadro. Mentre questo, quando conduceva il fondo con il godimento a mezzadria, disponeva di carri e di buoi, il pigionante non aveva bestiame e lavorava i terreni di sua mano. Una grande miseria, dunque, mentre la commercializzazione del grano veniva fatta a Milano dal padrone o dal fittavolo.
Ed ecco che alla povertà del pigionante si sposò un'altra povertà: quella del montanaro, che dalla mancanza di fertilità del suolo era costretto ad emigrare. Da quel connubio, però, come ho già scritto, venne una buona nutrizione per la povera gente di montagna, mentre la pellagra si diffondeva in pianura.
Rivenditori, infatti, prelevavano grano prodotto dai pigionanti di pianura e lo portavano in montagna dove la gente lo acquistava con i soldi guadagnati dagli emigranti.
In pianura l'oppressione del contratto a grano, quello che venne chiamato "il furore del fitto a grano", lasciava ai pigionanti poco terreno da cui ricavare granoturco o grani minori, per cui sulla loro tavola vi era solo polenta, né la trascuratezza per il bestiame consentiva di avere prodotti caseari; in montagna, invece, si cuoceva pane di frumento, che dava forza alle donne, ai vecchi e ai giovanissimi che coltivavano i campi e allevavano il bestiame per averne formaggio.
Sintetizza bene la situazione Raul Merzario in un bel volumetto, ponendo a raffronto il distretto di Gravedona con quello di Missaglia. Dopo aver osservato che il territorio del primo, composto da 20 comuni, è particolarmente infelice e montuoso, con il 6,4% coltivabile, il 11,6 boscoso e il 81,9 incolto, mentre le percentuali si invertono nel secondo, con il 83,3% di terra coltivata, il 11% di bosco e il 5,4% di incolto, così conclude: "una regione settentrionale senza sole e senza terra coltivabile; zone intermedie che risentono delle nocive influenze delle montagne alle loro spalle, ma dove la proprietà privata è più diffusa di quella comunale; al limite estremo meridionale la buona terra che inizia a coprirsi di gelsi, con pochi possidenti che si dividono quasi tutto il territorio".
Gli emigranti del Lario, portandosi fuori paese in altri stati d'Italia e d'Europa, lasciavano le donne a lavorare la terra, dando anche fondi a mezzadria "ai più rozzi ed ignoranti che attendevano al lavorerio dei terreni".
Si diceva a Lecco che "l'industria della molteplicità degli habitanti sostiene il terreno, non il terreno gli habitanti". Il Merzario valuta che al tempo della preparazione del catasto teresiano gli abitanti della provincia di Como, Varesotto escluso, si aggirassero attorno alle 140.000 anime e valuta che il numero degli emigranti fosse di 11.000 uomini, oltre 1/5 della popolazione maschile. Un fiume di uomini, quindi, che si riversava a Venezia, in Toscana, in Germania, in Francia, nella Svizzera.
Ma non erano solamente ad emigrare i montanari, costretti a cercare introiti fuori paese dalla poca fertilità delle terre. A loro nel 1700 si aggiunsero anche i contadini della ricca Brianza, soprattutto delle zone vicine allo Stato Veneto, separate dal ducato solamente dal fiume Adda. Quella povera gente, letteralmente spogliata dai proprietari con il contratto a grano, era giunta a pensare con rimpianto alla dominazione spagnola che, pur nella sua fiscalità, con la mezzadria non era giunta a creare tanta miseria.
Nell'ASM, cartella Popolazione p.a., è conservata una carta anonima scritta da "un rustico di professione agricoltore", in cui è messa in luce la triste situazione dei contadini ed è proposto come rimedio il ritorno al 1600, quando si lavorava a mezzadria.
Trattato come uno schiavo, il contadino si scoraggiava e fuggiva, portando con se la sua esperienza.
Intanto era impressionante il mutamento del paesaggio agrario, dominato dal gelso, il cui numero, rilevato in 78.000 piante nel 1734 giunse a 3.000.000 nella prima metà del 1800: dove si trovava una unità ogni 12,65 pertiche nel 1734, si giunse nel 1841 a coprire più di 1/3 dell'intera superficie.
Lo sviluppo della gelsicoltura significava per il contadino più fatica e gli stenti erano ancora quelli medievali: il terreno a gelsicoltura era dissodato con la vanga, non con l'aratro.
All'inizio del 1700 uno dei vantaggi dell'agricoltore di pianura rispetto a quello di montagna era rappresentato dai secondi raccolti, quelli "minuti", vero sollievo dei poveri.
Poi ci si era rivolti al granoturco, coltura di grande resa per ettaro, ma, data l'entità del fitto, si poteva lasciargli poco spazio e sulla mensa del contadino vi era solo pane giallo di mistura e poca minestra di leguminacee; così, già nel 1811 si segnalava una grande diffusione della pellagra, male prima mai conosciuto. Ad Albese mangiavano carne solo il parroco e una famiglia di proprietari terrieri, ad Alserio quattro famiglie, ad Anzano solo il parroco.
Di fronte a tale realtà, in montagna i paesani si cibavano di pane di frumento, di minestra di riso, di legumi e di castagne.
Nel 1789, come si rileva da un documento in ASM, Popolazione p.a., e. I, le stesse autorità paventavano l'evento di aver espulso e ridotto allo stato di veri mendicanti i coloni debitori. Il parroco di Calò, villaggio nel centro della Brianza agricola, annota tra il 1815 e il 1820 come "partite" o "fuggite" dalla casa ben 20 famiglie, premute dalle pretese dei proprietari dei fondi da loro coltivati".
Eppure, strano evento, l'unico movimento economico di mercato fondiario era ancora realizzato da contadini fuggiti fuori terra, talora portando esperienza di filatori e tessitori, che tornavano ad investire nei terreni i denari guadagnati!
Il pericolo di una emigrazione in massa dell'uomo già nei tempi napoleonici preoccupò le autorità perché avrebbe significato la perdita delle donne che in gran numero lavoravano nel setificio, costrette a seguire l'uomo e a tornare all'agricoltura. Eppure, povere donne, riluttanti al lavoro della seta, ritenuto più pesante di quello dei campi, accettavano ancor più dell'uomo una vita impossibile.
Se le donne di montagna erano brutte per le fatiche che sopportavano, dalle descrizioni di chi le vedeva erano forse peggiori quelle di pianura, sia per gli sconsiderati orari di lavoro, sia per i maltrattamenti che subivano dai sovraintendenti degli opifici, sia infine per il cattivo nutrimento.
L'agricoltura nella Brianza e sul Lario come era vista da chi vi si dedicava nel 1700
Nell'archivio di Stato di Milano sono raccolte le informazioni sul territorio censito che nel 1722, nel corso della preparazione del Catasto teresiano, rappresentanti dei vari comuni fornirono agli addetti ai rilevamenti.
Sempre nello stesso Archivio si conservano le risposte a 45 quesiti sottoposti ai comuni del Ducato nel 1751. Dagli uni e dagli altri documenti si trae un suggestivo quadro dell'ambiente e della vita di quei tempi, magistralmente illustrati nella sua operetta da Raul Merzario.
Premesso che, come sempre avviene quando si tratta di rapporti tra Fisco e contribuenti, le informazioni peccano di esagerazione negli aspetti negativi della realtà, e talora addirittura di menzogne, raccolgo qui alcune considerazioni ricorrenti.
Ogni paese lamenta la propria posizione geografica, la poca fertilità, le infelici condizioni climatiche. Così Livo, nell'alto Lago occidentale, posto a 675 m slm, ha il territorio oscurato da un monte e produce cereali sufficienti per soli due mesi; Garzeno, pur avendo vasta superficie, ha coltivabile solo 1/24 della stessa; Pellio, sempre in alto Lago occidentale, è sottoposto a diluvi a partire da ottobre sino a tutto aprile.
A Grona, in Valmenaggio, appare il sole in primavera inoltrata e persiste la brina tanto che sembra sempre inverno; Bene è talmente circondato da monti che si vede il sole solamente per sei mesi all'anno e anche allora i raggi giungono obliqui. Griante, posto tra lago e monti, ha pochissimo terreno coltivabile. A Lanzo, in Valle Intelvi, si miete la segale a fine agosto e si raccolgono le castagne in novembre; Laino sempre in Valle Intelvi a m 600 slm, è lontano da borghi ed è quasi sempre deserto.
Né tanto migliore appare la situazione ad oriente del lago: Cortabbio è situato ai piedi di un monte che anticipa l'inverno; a Margno le continue alluvioni lasciano i fondi talmente inghiaiati che non possono essere più coltivabili; a Esino i disagi si ingigantiscono, essendo uno dei paesi più alti delle valli.
L'incombenza dei monti è percepita come minacciosa anche in collina: Annone lamenta la sterilità del terreno; a Pusiano dal monte scendono acque piovane incontrollate che distruggono i vigneti, tanto che si pensa che i padri, forse venuti dal settentrionale, si accontentarono, scegliendo quella dimora, di essere solamente di fronte al sole; Cesana delle 4730 pertiche di territorio, ne ha 1820 di monde nudo; Oggiono, pur essendo in collina, subisce influenza negativa dai monti di Sirone e di Villa Vergano.
In complesso, la montagna appare nelle dichiarazioni degli abitanti come mitico territorio su cui il bestiame al pascolo è minacciato da orsi, da lupi e da altri animali selvatici che lo sbranano, tanto che "talvolta una povera donna manda sulle alpi quattro o cinque bestie e si riduce a ricondurne una". Lavoro faticoso risulta dalle informazioni quello della raccolta di fieno montano, che ogni anno porta la morte di qualche donna o per caduta da sassi spiccati o per morso di vipere. La superficie coltivabile nei paesi di montagna risulta esigua e localizzata nel primo cerchio concentrico al nucleo abitato: la consuetudine ereditaria portava a un continuo spezzettamento della proprietà privata, tanto che non vi era abitante che possedesse più di una pertica di terreno.
In montagna, in compenso, si avverte positivamente il senso comunitario e il pericolo di disgregazione del sistema socio-economico, tanto che gli emigranti, assenti addirittura per anni, tendono ad acquistare fondi al loro ritorno, se i risparmi lo permettono.
In pianura, al contrario, si risente l'individualismo agrario che, per motivi fiscali, genera un pensiero negativo e mendace portando, su suggerimento dei padroni, a testimonianze non veritiere.
Dalle descrizioni catastali il paesaggio appare con una tipologia insediativa assai varia: in montagna i paesi sono accentrati, con povere case addossate le une alle altre, con muri semicadenti di pietra e con tetti di paglia; in Valcavargna le abitazioni sono addirittura in rovina; in Valle Intelvi e nel Bellagino molte case sono chiuse, mentre in paesi infelici come Grona gli abitanti sono talvolta addirittura costretti a "spiantare le case".
Ben diversa al confronto appare la pianura che, pur avendo comunità accorpate, è caratterizzata da cascine isolate nella campagna, dove si accentra la forza di lavoro contadina.
Per concludere, dalle informazioni appare chiaro il concetto che in montagna si vive grazie all'industria degli uomini che con l'emigrazione temporanea, talora protratta per lunghi periodi, suppliscono alla mancanza di risorse agricole e provvedono a pagare gli aggravi fiscali.