I processi alle streghe: storia comasche di ordinaria follia

Centro di documentazione e informazione dell'Ecomuseo delle Grigne

Pietro Pensa, I processi alle streghe: storia comasche di ordinaria follia in Broletto, n. 15 (1989), pp. 30-41.

Il paese in cui si bruciarono più streghe fu l'Italia: non in Roma, dove non ci fu una vera e propria persecuzione, ma nella Repubblica veneta e nella diocesi di Como. Cesare Cantù seriose che, fatti venite dei Domenicani in Como all'inizio del 1200 dal vescovo Guglielmo della Torre che li stanziò a San Martino in Silvis, da dove nel 1234 si sarebbero trasferiti a San Giovanni Pedemonte, privilegiati poi, sempre dal Vescovo, con patente di portare le armi, l'Inquisitore frate Antonio da Casale nel solo 1416 "consegnò al braccio secolare ben 300 streghe, che furono tutte abbracciate" e precisò che nel 1484 "il Comune dovette porre sull'avviso un Inquisitore perché più non eccedesse nel suo ministero; avvertimento non ascoltato, giacché l'anno seguente furono in Como arse 41 streghe, e nella diocesi il numero dei processi eccedeva ogni anno il 1000 e l'inquisitore teneva 10 e più vicari che ne abbrustolivano un centinaio". Sempre il Cantù ricorda che il Muralto lasciò memoria di infinite streghe catturate nel 1514, di cui 300 date alle fiamme. Fra Bernardo Retegno, originario di Retegno frazione di Schi-gnano in Valle Intelvi, inquisitore in Como nel 1505, fu il grande teorico dei processi e ne scrisse la prassi nel suo manuale "De Stri-giis" seguito alla "Lucerna inqui-sitorum haereticae pravitatis", stampato per cura dell'Inquisitore di Milano nel 1566 e più volte poi ristampato. Dopo aver dimostrato che le streghe sono veramente eretiche, il Retegno indica come l'Inquisitore deve comportarsi. Il processo alle streghe nel suo aspetto giuridico Il processo contro una strega aveva un «duplice aspetto: quello statutario e quello ecclesiastico. Il primo, che si rifaceva alle leggi locali, rappresentava la reazione collettiva delle popolazioni e il loro interesse a liberarsi da malefici apportatori di danni; cronologicamente, precedeva quindi quello canonico e ne costituiva il presupposto. Il tribunale ecclesiastico conduceva l'istruttoria processuale e, stabilito che l'imputato fosse colpevole e meritasse una pena non solo canonica, il tribunale secolare decideva la pena e ne curava l'esecuzione. Salvo un caso del 1432 in cui gli uomini di Tosanna giustiziarono delle streghe senza sottoporle all'Inquisizione, le due giurisdizioni, statuale e canonica, procedettero d'accordo, e si trovarono in Valtellina addirittura esempi di Comuni che retribuivano l'Inquisitore ecclesiastico: così a Bormio, pur sempre gelosa dei suoi poteri giurisdizionali. Ogni processo era istruito e condotto con una prassi che per secoli non mutò e che, sostanzialmente, fu sempre così esasperatamente monotona e squallida da togliere interesse, se non in pochi casi, a chi ne esamina gli atti registrati dal notaio e spera di trovare qualche reazione significativa negli imputati. H concetto dell'imputabilità e della capacità giuridica dell'imputato, frutto dell'Illuminismo, presente nella legislazione moderna, era così lontano da destare meraviglia: tipico, ad esempio, è il caso del 1659, in cui i Consoli di Chia-venna convennero in giudizio bruchi che danneggiavano le colture, facendo affiggere sugli alberi delle selve aggredite le citazioni e dando motivo e disquisizioni processuali. Né ai maniaci, se non all'inizio del 1700, quando il fenomeno della stregoneria stava declinando, veniva riconosciuta l'attenuante della pazzia, né ai minori l'immaturità psicologica. La pena classica e maggiore per ' la strega, comminata dalle leggi sia ecclesiastiche sia statutarie, era l'arsione. Benché il pentimento di streghe confesse portasse teoricamente a pene minori, ispirate alla salvezza delle anime degli imputati, solamente verso la fine del seicento si giunse a concedere pena di morte meno penosa dell'arsione, e allora la grazia concessa dai giudici condusse a commutare l'arsione con la decapitazione. Nel 1500, in verità, qualche coraggioso, pur arrischiando di esser lui stesso accusato di stregoneria, cominciò a mettere in dubbio i pregiudizi verso le streghe e, sebbene senza effetti, presero a seguirsi pubblicazioni sull'argomento; solamente però nel 1701 Christian Thomasins trovò la giusta via, scuotendo la fiducia nelle confessioni ottenute con tormenti.

Per affermare la colpevolezza di un imputato occorreva sempre basarsi sugli indizi. Questi erano di due valori, remoti e prossimi. I primi erano cinque e tra quelli, accanto ad alcuni che potevano essere significativi, quali la discendenza da pregiudicati, altri erano ridicoli, come lo sguardo torvo e il non risentirsi dell'imputazione. Indizi prossimi erano invece la fuga all'arrivo dell'Inquisitore, la rigidità della membra, il non saper piangere, il comportamento in chiesa. Per ricorrere alla tortura allo scopo di ottenere la confessione, occorreva un solo indizio prossimo o tutti i remoti. Sugli indizi deponevano, dopo la cattura, i testimoni chiamati. Naturalmente, la tortura portava quasi sempre alla confessione; quando questa veniva ritratta, si ricorreva a nuovi tormenti. Elemento probatorio e fondamentale che veniva cercato a partire dal 1500, e particolarmente dalla giustizia statutaria, fu il bollo, prova del patto col Diavolo: quando era trovato poche speranze restavano all'imputato. Il bollo, in sostanza, era un segno o macchia sulla pelle, voglia o porro che fosse, cicatrice o abrasione, ritenuto suggello del patto, e bastava a svelarlo anche un angolo della carne con mancanza di sangue o insensibile alla puntura con uno spillo di ottone. Tra gli attori del processo appaiono: il procuratore del Fisco o pubblico accusatore; l'Inquisitore, il difensore di Ufficio, figura pres-socché sempre poco significativa perché non se ne trova uno che esplichi il suo compito con convinzione per il timore che ha di essere coinvolto nell'accusa; i periti, e precisamente: un consulente giuridico, generalmente scelto tra giuristi insigni, a cui il tribunale dell'Inquisizione trasmetteva gli atti per avere parere prima di emettere la sentenza; un medico a cui chiedere se sottoporre a tortura l'imputato; il cercatore del bollo, generalmente aiutante del mastro di giustizia che doveva mettere alla tortura e poi eseguire la sentenza capitale. Il processo iniziava per accusa, o per inquisizione, forse questa preceduta da fissione sulla porta della chiesa dell'ordine di denunciare i sospetti. Se gli indizi erano sufficienti e l'imputato non era confesso, si procedeva alla tortura, con la preparazione dell'accusato, tenendolo a digiuno venti ore, rasandolo completamente, tagliandogli le unghie. Per i tormenti vi erano attrezzature, ancora conservate nei musei: la corda, il tavolozzo o asse su cui legare l'imputato, gli aghi con cui pungere braccia, gambe, o sotto le unghie; il somaro o cavalletto costruito con assi che incontrandosi formavano uno spigolo aguzzo su cui l'imputato veniva messo a cavalcioni, tenendolo con contrappesi e obbligandolo a vegliare; i ceppi o morse di ferro e di legno; le uova di legno, da mettere sotto le braccia prima di legare. Venivano utilizzati anche getti di acqua gelata e candele per bruciare le piante dei piedi. Si sospendeva l'imputato con la corda e gli si davano squassi che gli slogavano le giunture, massacrando a tal punto il poveretto, sia fisicamente che moralmente, da indurlo, pur di essere calato, a confessare atti mai compiuti. Vi era chi moriva sotto la tortura, come Botton di Poschiavo nel 1672, ma anche chi, quale Margherita Pagani nel 1673, usciva vittorioso dalla prova Si usavano incenso, acqua benedetta, reliquie, per impedire che il Diavolo aiutasse la strega All'imputato venivano chiesti i nomi di chi gli aveva insegnato la stregoneria e così a processo seguiva processo. Chiusi gli atti, il Tribunale canonico pronunciava la sentenza e se l'imputato era giudicato colpevole, veniva abbandonato al Tribunale secolare che, disposta la confisca dei beni, eseguiva la sentenza Le pene, elencate in ordine crescente di gravità, erano sostanzialmente: 1) il confino in casa con condanna alle spese 2) il bando con la confisca dei beni 3) la prigione a vita nella casa comunale con la confisca 4) la decapitazione e la cremazione del cadavere 5) l'arsione da vivo L'ultima pena decadde dopo la metà del 1600. Se duri con le streghe furono i cattolici, non da meno lo furono i protestanti e sulla coscienza dei grandi Riformatori pesano le condanne di donne e di innocenti. La giurisdizione ecclesiastica venne abolita nei Grigioni nel 1525 dagli articoli di Jante e sembra che in Valtellina ciò sia avvenuto prima del 1548, confermato poi dall'articolo 40 degli Statuti valteflinesi, anche se il podestà di Bormio avesse affermato che il vescovo di Como aveva avuto l'ardire di istituire segretamente un proprio tribunale pear processare le streghe. Vi fu, dopo le sollevazioni che portarono al Sacro Macello in Valtellina, un breve ritorno dell'Inquisizione, che durò dal 1634 al 1639, anno in cui con l'articolo 28 dei Capitoli di Milano del 3 settembre, venne nuovamente tolta, lasciando l'incarico di condurre i processi agli stessi Podestà.

Alterne vicende della giurisdizione ecclesiastica

Il giudice ecclesiastico dell'eresia e quindi della stregoneria, era nel diritto canonico, come già osservato, il vescovo della diocesi; tale compito e autorità gli rimasero anche dopo che i processi vennero condotti dall'Inquisitore, ma molto diversa fu la situazione tra i territori in cui agiva il vescovo e quelli in cui, chiamata da lui, era attiva l'Inquisizione. Così, mentre in diocesi di Como, dove risiedevano i Domenicani, imperversavano i processi, in diocesi di Milano, dove dilettamente aveva giurisdizione l'arcivescovo, di streghe solo si parlava, ogni malefatto accadeva in sordina. Così, mentre a occidente del Lario ardevano i roghi, ad oriente solo dopo l'introduzione dell'Inquisizione fatta da San Carlo, si ebbero processi e mai roghi, profondo divario che fu tipico del bacino dell'Adda.

I ceti sociali investiti dalla lotta alla stregoneria

Quell'allucinante fenomeno che fu la stregoneria investì soprattutto la gente umile. Gli studiosi locali furono portati a giustificarlo con l'ignoranza dei poveretti; il che sarebbe ammissibile se gli attori principali di quelle vere tragedie che lo accompagnarono con i processi canonici e statutari non fossero stati persone di ceto colto quali erano sacerdoti ad ogni livello e giureconsulti: per avere una precisa idea di tale realtà basta leggere lo scritto di E. Motta sugli Inquisitori in Como. Se poi si pensa che fu lo stesso Bernardino da Siena, con una predica del 1427 nel Campo della sua città, a lanciare contro le streghe che uccidevano i bambini per cavarne gli unguenti necessari ai loro malefici, l'opinione del popolo, incitandolo alla denuncia, si comprende quella tremenda campagna condotta tra il 1434 e il 1447 per sterminare le streghe e perderne il seme, restando perplessi sul culto a San Bernardino nelle nostre valli, dove per secoli lo si venerò nelle non poche chiese a lui dedicate.

Nel 1652, nel corso del processo che condusse alla sua decapitazione, Anna Jon Bich aveva detto: "Se io avessi una grossa borsa di denaro non vorrei durare fatica a farmi liberare, perché si imprigiona solo la gente povera, non già i ricchi". In effetti, se il più dei processati erano gli umili, a cui si sarebbero confiscati i beni, accuse di stregoneria non mancarono anche a persone in posizione politica o finanziaria più alta, per le prime allo scopo di rovinarne l'ascesa, per le seconde al fine di avere denaro, motivo dominante di tutto il fenomeno. Per non ricordare qui il processo a Giovanna D'Arco e il modo tenuto dal pontefice Giovanni XXII per disfarsi di un vescovo, già da me esposto, accenno, per rimanere nella zona di questo studio, a Baldassare Pestalozza, membro di una delle più importanti famiglie di Chiavenna che, versando la somma di 50 fiorini al vescovo di Como, aveva ottenuto la cessione di una parte del feudo vescovile di Samolaco. I Peverelli, famiglia chiavennasca in contrasto con lui, lo accusarono di stregoneria, sobillando non pochi testimoni a deporre contro di lui. Né mancarono altri casi in quella che si chiamava "buona società", con processi "triangolari" a donne, che venivano poi condannate a pene minori, quali l'arresto domiciliare perpetuo, previo il pagamento di forti fideiussioni da parte dei parenti: sempre, dunque, era il soldo a dominare e il gran muovere di denaro che accompagnava i processi e che serviva a pagare e ad arricchire inquisitori e uomini di legge, di rango maggiore e minore, finendo a gravare sulle Comunità. Quando queste si trovavano in difficoltà perché l'immissione di denaro che veniva dalla confisca di poveri possessi di gente umile, non era sufficiente per le spese processuali, si giungeva a vere "autofé", bruciando insieme più streghe per far venire dalla sua sede il boia una volta sola a decapitarle. A dare alimento a quella assurda atmosfera in cui fiorirono i processi fu la fantasia popolare, la quale, pur in uno schema sempre uguale a se stesso per secoli, prendeva corpo nella leggenda delle streghe che a mezza setimana, volando su bastoni, su scope o su caproni, forse al seguito di Diana e di Erodiade, andavano ai consessi sabbatici, tregende nei luoghi più paurosi delle valh, dove, inchinandosi al Diavolo e vituperando la Croce e l'ostia santa, si abbandonavano a orge, a danze, e a connubi sessuali coi demoni. A quelle fantasie, udite raccontare e credute, si riferivano nelle loro confessioni volontarie donne nevrotiche ed isteriche, invasate dal culto per il demonio con quello stesso slancio, quasi carnale, che ispiravano in quei secoli certe sante verso il Cristo, o, in rivelazioni estorte sotto tortura, tante povere donne qualunque che pure, nel parlare, invocavano Dio e la Madonna perché le aiutassero. Intanto, l'Inquisitore faceva mettere a verbale le tante cose impossibili, o invasato pure lui in una stupida credenza nelle presenze demoniache, o spinto da smania di potere e di soldi: così fra Modesto di Vicenza, che nel 1523 aveva introdotto in Sondrio l'Inquisizione, "furibondo accusatore pur di far scudi"; così fra Antonio da Casale, inquisitore in Como nel 1515, che nel gennaio di quell'anno faceva vendere da fra Cherubino, come risulta da un atto notarile, i beni confiscati a Caterina detta Balzarita di Nobiallo, bruciata come strega.

La scomparsa delle documentazioni processuali

Purtroppo, dei tanti incartamenti dei processi condotti dagli Inquisitori nella diocesi di Como ben poco ci è giunto: i domenicani di San Giovanni Pedemonte erano stati banditi dalla città nel 1300 perle rivalitià guelfo-ghibelline tra Vittani e Rusconi e avevano trovato ospitalità a Morbegno, dove a metà del 1400 si stabilirono nel convento di Sant'Antonio. Ripresa l'attività in Como, il loro convento fu soppresso nel 1700 dagli Austriaci e il loro archivio andò disperso: mentre pochi documenti vennero mandati nella Curia generalizia, la maggior parte forse finì in archivi privati, con l'intenzione di recupero in un desiderato sufc-cessivo ritorno. Una discreta messe di verbali di processi rimase invece negli archivi comunitari dei territori venuti in mano grigione, in particolare nel Poschiavino e nel Bormie-se, dove i processi furono condotti non più dall'Inquisizione, ma dalle autorità statutarie, in gran parte delXVTI secolo, periodo che segnò un acme della stregoneria: basti pensare, infatti, che nella sola Val-furva nei 5 anni che seguirono il 1672 vennero bruciate 35 streghe. Un tal padre Carlo l'8 dicembre 1583 così scriveva al suo superiore Carlo Borromeo, illustrandogli la morte delle streghe: "Io non basto a spiegare con qual intimo cordoglio e quanto di pronto animo abbiano incontrato il castigo. Avanti condotte al supplizio, confessate e comunicate, protestavano ricevere tutto dalla mano di Quel di lassù, n pena dei loro traviamenti e offrivano il corpo e l'anima al Signore. Brulicava la piena di una turba infinita, stipata, intenerita a lacrime, gridando a gran voce: Gesù! Le stesse miserabili poste sul rogo, tra il crepitar delle fiamme udivansi replicare quel santissimo nome, e come pegno di salute avevano al olio il santo rosario". Tale era lo stato di suggestione di quel tempo! Il maggior numero dei processi è a carico di povere donne, portate, con la prassi indicata da fra Rete-gno, a dichiarare assurde colpe sotto tortura. Forse suggerite loro le confessioni, in modo indiretto, dallo stesso Inquisitore, appaiono nei resoconti i paesaggi paurosi dei ritrovi e i gióch con la presenza del Diavolo, e così pure i trasferimenti nell'aria a cavallo dei bastoni o di caproni. I luoghi ricorrenti nelle confessioni sono: per la Valtellina il Tonale, il monte Camino, la Val di Togno e anche il Crappo del Castelletto, il castello di Moncucco, il Grumello e il prato di Combaro; la piana di Fraele per Bormio, la Val Mazzone, la Motta di Gianiola, il campo di Scatono per il Chiavennasco; il prato di Mezzegra per il Lario occidentale. Se le streghe cadevano in stato isterico di insensibilità, confessando, rimanevano "gelte" e si pensava che il loro spirito si fosse recato in barilotto a fare malefizi.

(...)