Grazie all'esperienza degli anziani anche l'incendio faceva meno paura
Articolo pubblicato da Pietro Pensa in L'Ordine, 20.4.1979
I vecchi riuscivano a prevedere dove si sarebbero dirette le fiamme e indicavano i punti in cui si sarebbe potuto arrestarle - Numerose le dispute tra paesi confinanti - Come andò che un ricco alpeggio venne perduto per un caldaro di gnocchi
Se l'eccessivo sfruttamento e la presenza di capre portavano inevitabilmente a frane per il dilavare delle acque e per i danni ai virgulti nuovi, in compenso la sapiente cura di un patrimonio tanto importante impediva che altri danni, quello degli incendi particolarmente, lo minacciassero. Rammento con quale premura negli anni della mia fanciullezza gli uomini accorrevano al minimo cenno di fuoco. Al primo avviso suonava a martello la campana della chiesa e si formavano le squadre per lo spegnimento. A guidarle erano gli uomini più anziani, che, prevedendo dove si sarebbero dirette le fiamme, a seconda del soffiare del vento, indicavano i punti in cui si sarebbe potuto arrestarle.
Non molti anni addietro, quando ero sindaco del mio paese, un vasto incendio devastò il versante del lago sopra Lierna. Perduto l'interesse di un tempo, pochi del luogo accorsero alla chiamata, ed erano tutti giovani e inesperti. Si aggiunsero fortunatamente molti uomini reclutati un po' ovunque dal Corpo Forestale, squadre preorganizzate nelle vallate vicine e con un buon compenso. Si affrontò per due giorni il fuoco, ma con poco risultato, nonostante l'impegno. Sin che io chiamai un anziano, malandato in salute e zoppicante, a dirigere la bisogna: lui spostò le squadre in particolari località, anche lontane dai focolai che si vedevano al momento, fece aprire dei corridoi e lasciò che il fuoco vi arrivasse; in brevi ore l'incendio era domato. E pure, anche quando molti ancora erano gli esperti, la violenza del fuoco piegava talora la volontà dei boscaioli. Una volta, da giovinetto, assistetti alla morte di uno di loro. Dopo un giorno di inutile lotta, condotta in verità fiaccamente perchè l'aria era calma e non violenti i focolari, si levò una forte breva: le fiamme presero a rincorrersi su per i fianchi del monte come impazzite. Era uno spettacolo apocalittico, di una paurosa inimmaginabile grandiosità. Si udiva, pur di lontano, il crepitare delle erbe che bruciavano e il friggere dei virgulti che con gli umori della corteccia verde e viva reagivano al fuoco, coprendosi alla radice di un nero denso e fumoso. Tanta era la forza dell'incendio che venne deciso di affrontarlo lungo un costolone lontano che dalla vetta scendeva sino a valle: si sarebbe creato un corridoio spoglio per accendere ai suoi margini un nuovo fuoco che, facendosi incontro all'altro, con quello si consumasse. Gli uomini si disposero a catena, e, presi dall'ansia di giungere in tempo, battevano irosi con le scuri sugli arbusti. A metà della notte l'opera era compiuta e fu acceso in più punti il nuovo incendio. In breve, un nastro di fiamme si snodò da valle sin su, in un fantastico guizzare; sorgevano luci inusitate creando sui dossi e nei valloni paurosi chiaroscuri da paesaggio infernale.
Il fuoco ondeggiò un poco, contrastato dalla breva, poi, trovato alimento solo ad occaso, prese ad avanzare contro vento. I due incendi si facevano incontro; allorché vennero ad unirsi, le fiamme salirono più alte e parve che un furore di distruzione accompagnasse il loro ultimo ardere: poi, quasi di schianto, a partire da sopra dove più rado era il bosco, si spensero e alla vivida luce subentrò il rossigno dei braceri. Proprio allora, mentre cedeva, l'incendio prese la sua vittima. A mezza montagna, quando per l'urgere del tempo era stato appiccato il nuovo fuoco, il lavoro di isolamento non era stato del tutto compiuto; alcuni uomini eran così dovuti accorrere per impedire che il fuoco si facesse un corridoio e proseguisse oltre la cresta. Erano quasi riusciti alla bisogna, se non che, per una forte raffica di breva, le fiamme ripresero forza; essi intuirono il pericolo e si ritrassero di corsa; uno di loro, più anziano, esausto dalla fatica, non fu abbastanza rapido e si trovò circondato. Noi, disperati della nostra impotenza, lo seguimmo da lontano farsi sotto a un roccione, mentre l'anello gli si stringeva attorno: la sua figura comparve scura contro il bianco della roccia illuminata. Una vampata avanzò dal basso, lo raggiunse; lo vedemmo chinarsi, cadere al suolo. Le fiamme gli passarono sopra, indugiarono un istante, si persero in alto. Lo trovammo poco più tardi, neppur deturpato, soffocato dall'alito terribile, e aveva un'espressione rassegnata e serena.
Come si disse e come meglio ora si può comprendere, illustrata quale abbiamo l'importanza dei beni comuni nell'economia dei monti del Lario, ogni villaggio era estremamente geloso del proprio territorio. Di conseguenza, in ogni secolo e sino all'inizio di questo, le liti per i confini territoriali erano assai frequenti ed aspre. Ho nel mio archivio decine di documenti, dal medioevo ad oggi, riguardanti controversie tra paesi vicini. Non rari sono i casi di dispute protrattesi dal 1200 fino ai nostri giorni: nei momenti più virulenti si nominavano arbitri, si giungeva a un compromesso e veniva redatto il relativo atto notarile; passate però alcune decine di anni, nascevano discussioni sugli scritti e risorgevano i contrasti. Vigevano, poi, consuetudini per le quali i vicini di un comune potevano portare le proprie bestie a pascolare in una determinata zona del comune confinante e i vicini di questo, a compenso, potevano far legna minuta da focolare in analoga zona del primo, diritti che nella giurisprudenza antica erano definirti come jus pasculandi et buscandi. Si può comprendere come tali promiscuità fossero la più frequente causa di disaccordi.
In genere, si ricorreva a liti giudiziarie davanti ai tribunali dello Stato solo dopo continui episodi di intolleranza. Trovai un documento del 1400 con cui il podestà di una valle avvertiva il duca Francesco Sforza di una violenta battaglia svoltasi tra gli uomini di due comuni per pascoli, zuffa condotta con le armi e che aveva portato al ferimento di parecchi: il podestà confessava, però, di non aver potuto conoscere i nomi: aggiustamento di conti, dunque! Senza andar così lontano, posso io stesso ricordare un duro alterco accaduto sul crinale dei monti di Lierna, che ebbe come conclusione l'invio di due boscaioli, feriti a colpi di falcetto, all'ospedale di Lecco.
Una pittoresca storia, peraltro, è stata tramandata sulla soluzione pacifica di una lite per il possesso di un'alpe tra due villaggi vicini. Quell'alpe si apre in dolci ripiani circondati da erode alla testata di un 'impervia valle, mentre in basso, allo sbocco di questa, su ripidi pendii battuti dal sole cresce invece una magra e dura erba, pastori del villaggio che sta proprio laggiù, costretti negli afosi meriggi d'estate ad abbandonare quei pendii perchè bruciati dalla calura, si attardavano all'ombra dei faggi guardavano verso l'alto, dove nell'alpe verdeggiava ancora tenera l'erba e dicevano, con malinconia, che quel luogo sarebbe dovuto esser loro ma che l'avevano perduto per colpa di un caldaro di gnocchi. La faccenda sembra fosse andata così.
In lontanissimi tempi tra quel villaggio e un altro, situato in una vallata vicina, geograficamente spostata, vi era contesa attorno ai boschi e ai pascoli di quell'alpe. La controversia, forse perchè i due paesi erano in fondo amici come lo sono ancor oggi, non era mai esplosa in liti violente; anzi, era giunta a un compromesso per cui le due popolazioni si erano fatte reciproche concessioni, rimandando a tempi migliori la soluzione della vertenza. Accadde un giorno che quelli del villaggio più basso, di cui ho detto, si trovassero in difficoltà per una grave taglia e che chiedessero ai vicini, più ricchi, un prestito di danaro. Fu accordato che la somma sarebbe stata restituita nell'ultimo giorno dell'anno successivo. Per garanzia, gli uomini debitori ponevano la rinuncia alle pretese sull'alpe e sul bosco contesi.
Passarono i mesi, il benessere ritornò e, puntuali, i contraenti salirono dai creditori nel giorno di San Silvestro per restituire la somma. Quelli li accolsero con festa e all'atto in cui i sopraggiunti fecero per pagare, risposero che vi era tempo e che prima sarebbe stato il caso di consumare in allegria una buona refezione di fine d'anno. Detto fatto, mentre le donne preparavano un caldaro di gnocchi, il gruppo fece sera giocando alla palletta nella piazza della chiesa. Poi tutti si misero al tavolo e la cena durò a lungo e fu inaffìata da buon vino; l'allegria regnava tra i commensali. Venne la notte e ancora continuò lo scambio di cortesie: mai si era data tanta cordialità. Fattosi tardi, quelli del paese debitore ricordarono che erano venuti per rendere la somma prestata e vollero consegnarla. Gli altri, con un sorriso, fecero notare che la mezzanotte era passata da un gran pezzo e che secondo gli accordi il pagamento doveva essere fatto alla fine dell'anno trascorso! Fu così che quelli del villaggio di sotto persero per sempre la bella alpe della montagna e ancor oggi ne provano rimpianto.