Folclore e storia di un paese della nostra montagna: le abitudini di vita (2)

Centro di documentazione e informazione dell'Ecomuseo delle Grigne

Pietro Pensa, Folclore e storia di un paese della nostra montagna: le abitudini di vita (2) in "Rivista di Lecco", anno XVI (1957), nn. 4-5, pp. 27-30.


Indice

La foggia del vestire

La canape, come si è detto, la lana e il filugello erano le materie prime da cui le donne traevano gli indumenti per gli uomini e per loro stesse: la generale miseria obbligava a cercare di che vestirsi dalle risorse locali.
Sta scritto su un documento del 1500: «scalzi e malvestiti», e ancora cinquant'anni addietro era uso comune, da cui si sottraevano solo i pochissimi abbienti, il camminare a piedi nudi durante la stagione clemente, o tutt'al più con i "peduli" cuciti di pezze. Solo d'inverno gli uomini impiegavano grossi scarponi chiodati, mentre le donne dovevano accontentarsi di zoccole di legno con punte di ferro.
L'abbigliamento femminile fu sempre assai semplice; interessante è rilevare dalle carte dotali come ben poco variasse con il correr dei secoli: sotto, la «camisa di tela nostrana», che per le spose di famiglia benestante era ornata con «li suoi pizzi»; poi una sottanina o «sochino di tela», quindi la «strusa» o veste, in cui la parte inferiore o «socca», generalmente tessuta con i prodotti del filugello, era sorretta da un « busto con maniche di canevazzo » cucito d'un pezzo.
Di rado il busto era staccato dalla sottana; le giovani usavano tenerlo leggermente aperto sui collo per mostrare la «peturina» fiorata.
Le «struse» più ricche avevano le parti di colore vario, ad esempio la socca turchina ed il busto verde chiuso da «bindello rosso». Era uso portare uno «scossale di bella tinta» arricciato talora in basso a formare il «farebalà», il «fazzoletto fiorato» in capo, chiamato in dialetto « panel giardini», ricco sovente di frange. Agli sponsali le ragazze avevano « calzette rosse scarlatate », le abbienti «scarpe di Bulchero», le altre zoccole con nastri colorati; raro l'ornamento di gioielli, « collo di granate con bottoncini d'oro » oppure a collo di corai con una croce d'argento ». In capo, nei giorni di festa, la raggerà di memoria manzoniana, avente nel dialetto locale il poco poetico nome di «spazzorecc».
Durante l'inverno molto in uso era la "mezzaluna" ordita di canape e tessuta di lana, talora con bei colori, «la socca color d'oro con il busto scarlatto».
Semplicissimo il vestire maschile: camicia di canape grezza, calzoni di fustagno «con anta» davanti, busto di fustagno abbottonato e alla festa giacchetta con camere pure di fustagno; ai piedi i peduli, al capo il «capei trentin» grigio fuori, bianco dentro. D'inverno una pesante casacca di lana foderata detta «tricotrè» e sulle gambe grosse uose che scendevano a coprire gli scarponi di cuoio.
Con l'avvento della villeggiatura estiva, affermatasi dopo la costruzione della strada carozzabile, i costumi locali furono rapidamente abbandonati, cosicché da un paio di decenni sono completamente scomparsi.

Il modi di nutrirsi

Estremamente semplice il nutrimento: durante l'estate polenta di granoturco puro o misto a fraina, con formaggio magro o insalata condita di « agra », specie di latte acido che ricorda lo yogourt; durante l'inverno molte patate e castagne, minestra di latte, e ancora polenta e formaggio magro. Qualche cibo caratteristico del luogo rappresentava una leccornia riservata ai giorni festivi o d'eccezione: il "zenzinal" pasticcio di polenta con ripieno di formaggio filante; la «miascia» sorta di torta di farina gialla impastata con latte acido e foglia di menta e cotta tra due letti di brace;, i "granei" polentina gialla con burro fritto; la «mesa» polenta di fraina in latte e burro; il "paradel" focaccia di farina bianca impastata con uova; e infine i "ravioeui" di farina imbottiti di formaggio grattugiato, riservati ai giorni di S. Vittore, del Corpus Domini, di S. Antonio e di S. Giovanni.
La carne era pressoché sconosciuta; solo quando una mucca «andava a pic» in qualche difficile passaggio di montagna, tutto il paese ne mangiava. Ancora tramandato dai più vecchi il ricordo della cattura di qualche grosso orso la cui carne nutrì per giorni la popolazione.
Un tempo nelle fertili zone intorno al paese crescevano molti noci e molti meli. Era uso ottenere dai primi olio, macinando i gherigli nei mulini mossi dalle acque dei torrenti, sidro dai secondi. Talora si utilizzavano anche le bacche di faggio, dalle quali si cavava un olio leggero ma assai profumato.

Diritto familiare

La podestà paterna era assoluta e indiscutibile: il padre poteva correggere i figli e la moglie con pene corporali, purché «non cum sevitia et crudelitate, rumpendo ossa sive debilitando membra » (capo 28 degli Statuti). Mai venne meno, nel correr dei secoli, la consuetudine di lasciare ai figli maschi i beni slabili, perchè questi non passassero a forestieri. Alla figlia che andava sposa era assegnata per lo più una dote in denaro e in beni mobili; raramente, e solo quando il marito era del luogo, venivano aggiunti appezzamenti di terreno. Non infrequente il caso di figlie uniche alle quali veniva concessa tutta l'eredità paterna solo se il marito, forestiero, si stabiliva nel paese e ne diventava «vicino». Il valore della dote si aggirava, nelle famiglie più abbienti, attorno alle 500 lire.
Lo statuto (capo 226) prescriveva poi che alle figlie nubili toccasse della eredità paterna non più di quanto avessero avuto in dote le maritate.
Le antiche usanze nuziali si sono in parte trasmesse sino ai giorni nostri.
Fra i promessi era consuetudine trovarsi il sabato sera nella casa della ragazza, dove le donne filavano e cucivano per preparare il corredo. Generalmente gli sponsali avvenivano a Carnevale o subito dopo le ricorrenze pasquali. Erano invitati i parenti più prossimi che formavano il corteo alia Chiesa. All'uscita, dopo la cerimonia, gli sposi trovavano la strada sbarrala da fasci di legni é talora da fuochi, che lo sposo, aiutato dai partecipanti al corteo, doveva disfare o domare, mentre la sposa distribuiva confetti ai ragazzi. I vedovi si sposavano preferibilmente sul far del mattino per evitare gli scherni, gli urli, i suoni di campani da pascolo.
Se la sposa aveva dato motivo a voci poco convenienti, era di prammatica prepararle, lungo la via alla Chiesa, l'«ambulata» di cenere e di detriti di fieno. E invano lo Statuto (capo 92) intimava «quod non sit aliqua persona quae audeat extrahere de aliqua re aliqui limneotae nec aliqui personae venienti prò ipsa limneota, nec aliqui capere nec derobare illis qui venissent pro ipsa, nec etiam limneoto, nec facere aliquas rostras nec clausuras in vìa».
Passata una settimana dopo che la sposa era stata "menata nella casa" dal corteo dei parenti e dagli amici ed ivi accolta sulla soglia dalla suocera per il saluto augurale, era consuetudine che ella tornasse per alcuni giorni nella casa paterna per «andà a toeu la lingua» atto chiamato nelle carte medioevali "revertalia" e in lingua toscana "ritornata".
I diritti della moglie sulla propria dote erano sanciti dallo Statuto (capo 228) il quale intimava «quod res mulierum dotalie non possint contestari, robari, nec in deposito poni», mentre (capo 227) era invece sancito «quod nullus vir possit instituere uxorem suam sibi heredem» né lasciarle altro che gli alimenti «secundum decentiam».
Il capo 53 stabiliva poi «quod mulier adultera perdat dotem».

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Da tempi immemorabili era usanza, e lo è tuttora, distinguere con un soprannome ogni famiglia e con un soprannome ogni persona, il primo giustificato dal presentarsi di molti fuochi di ugual casato, il secondo dovuto allo spirito caustico della gente della nostra montagna che ama cogliere in ciascuno il lato più caratteristico; ed invero i nomignoli sono una pittura quanto mai efficace degli individui a cui sono affibbiati: «il secco», «il frasca», «il signorino», «il malizia», «lo stracco», «il gagliardo», e così via.
I soprannomi delle famiglie si sono mantenuti inalterati per secoli; talora si rileva, leggendo le antiche carte, come abbiano addirittura sostituito il primitivo cognome, come nel caso dei Pirelli, di origine esinese, i quali anticamente erano Morioli.

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Molto rispetto si ebbe sempre per i genitori e per i nonni ai quali ci si rivolgeva col «voi» chiamandoli con gli appellativi «pa» e «mam» seguiti dal nome di battesimo.
Ai figli era uso imporre il nome dei nonni, sì che gli stessi nomi si ritrovano per generazioni e generazioni, alternati l'uno all'altro.

Abitudini varie

Per gli acquisti era usanza recarsi alle maggiori fiere dei dintorni, a Varenna alla festa del Rosario, a Bellano a S. Andrea e al primo lunedì di Quaresima.
La strada veniva allora percorsa in numerose comitive, già che grande era il pericolo di imbattersi nei banditi. Nel viaggio di andata le donne e i ragazzi portavano fascine sulle spalle, per venderle sul mercato e aumentare così il piccolo gruzzolo destinato alle compere.
Durante il periodo invernale salivano al paese gli artigiani ambulanti: l'impagliator di sedie, lo spazzacamino, il magnano, l'arrotino, rimanendovi per mesi ad esercitare il mestiere, ospitati e nutriti gratuitamente dalla famiglia più abbiente del paese.

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Gli svaghi erano pochi. Nei giorni festivi gli uomini solevano disputare, nelle due anguste piazze di S. Antonio della Terra superiore e di S. Giovanni della Terra inferiore, la partita alla «palletta», sorta di gioco nel quale la piccola palla è lanciata col pugno ed il conteggio dei punti viene fatto a somiglianza di quello del tennis. Avvenivano incontri anche con squadre di altri paesi valsassinesi.
Assai praticata la «morra», gridata nelle osterie o anche sulla pubblica piazza.
Alle giovani donne era riservato il gioco del «bec» fatto all'aperto lanciando con una bacchetta un treppiedi di legno. Sempre appetita la danza, anche in tempi in cui era proibita; se ne hanno memorie scritte del 1500. Molto coltivata infine la musica; la banda del paese già nel 1800 era conosciuta per la sua bravura e veniva invitata nelle ricorrenze dalle Terre dei dintorni.
Le malattie più comuni nei secoli passati erano la polmonite e il mal di cuore, la prima giustificata per lo più dalla cattiva abitudine di tenere durante l'inverno troppo riscaldata la stanza di soggiorno, uscendo ed entrando nella quale si tenevano sempre gli stessi abiti, la seconda dalle gravissime fatiche del lavoro dei boschi e della campagna.
Frequenti un tempo le morti sotto le valanghe, per incidenti nel lizzare la legna, per morsi di vipere, per fulmini, per cadute dagli alberi e, prima del settecento, per stenti e per fame.
I rimedi in uso contro i mali di petto erano le polentine di seme, i decotti di fior di tiglio e di sambuco e di lichene di montagna; per le contusioni si impiegava acqua di fiori di arnica; bevanda comune per i sofferenti la camomilla.
Notevole sempre l'emigrazione: temporanea, di taglialegna verso la Valtellina e i Grigioni nei secoli passati e di muratori verso la Svizzera oggi, permanente un tempo verso le varie città d'Italia e specialmente verso Genova e Venezia, poi verso la California e l'Argentina ed ora verso l'interno della nazione e particolarmente verso Milano.

L'osservanza religiosa

Benché un po' scanzonata, la gente della valle fu sempre sostanzialmente religiosa.
Le festività sino a pochi decenni addietro venivano scrupolosamente rispettate; ned primo quarto del secolo ancora, quando accadeva che in giorno di domenica la minaccia del maltempo mettesse in pericolo il raccolto, prima di scendere sui prati a raccogliere il fieno si correva a chiedere il permesso al parroco.
La Chiesa durante la Messa non solo, ma anche nelle ore di dottrina era gremita: presso la balaustra stavano i ragazzi, tenuti quieti e rispettósi dal Priore della Confraternita del S. Sacramento che era detto il « bacheter » perchè usava una verghetta di nocciolo per farsi ubbidire ed anche per destare chi dormiva; poi venivano gli uomini, a destra quelli della Terra inferiore, a sinistra quelli della superiore, e infine, nella zona verso la porta, separate da un basso tendaggio, le donne. Prima di entrare nella Chiesa, queste lasciavano sul sagrato le zoccole, allineate in lunghe file.
Le grandi solennità venivano celebrate con particolare risalto.
Alla vigilia del S. Natale si distribuivano pane e sale per lascito di famiglie abbienti, nella notte poi la banda accompagnava con la musica la S. Messa. Sul far del mattino del primo giorno deiranno i ragazzi andavano da casa in casa a porgere gli auguri dicendo : Bon dì bon an, Cosa me div per Cap d'an?
e ricevevano in dono pezzi di "zenzinal" sorta di torta di farina e di noci secche preparata per il Natale. All'Epifania poi esponevano alle finestre le scarpe piene di fieno per i cammelli, in cui i Re Magi avrebbero lasciato in cambio frutti e torrone.
Nella festività di S. Antonio i muli vengono condotti nella piazza dedicata al Santo ed ivi benedetti.
A Pasqua ancor oggi gruppi di giovani e di uomini vanno attorno, per lo più suonando strumenti a fiato, a raccogliere uova per poi mangiarle in allegra compagnia. Era uso nella ricorrenza accendere falò sulla montagna.
Nei tre giorni prima dell'Ascensione lunghe processioni si recano con il Parroco in testa in tre diversi punti dei dintorni del paese a far le rogazioni, per cacciare gli spiriti maligni e benedire la campagna.
Nella festività di S. Giovanni, protettore della Terra inferiore, si usa ogni otto anni salire in gara la «cuccagna» altissima pertica ingrassata, sulla cui cima sono posti doni diversi. A S. Pietro viene celebrata la Messa nella Chiesuola di Ortanella; a ferragosto sin dai secoli passati è uso far gran festa, ballare e divertirsi.
Assai osservate ancor oggi sono le ricorrenze dei Morti; al vespro del giorno di Tutti i Santi gli abitanti scendono al cimitero in processione salmodiando e chiamando i Defunti. Nelle case, prima di coricarsi, venivano lasciati piatti di castagne perchè i Trapassati potessero nutrirsene. Nella mattina del giorno seguente una processione scende ancora al Cimitero per riaccompagnare i Morti nelle loro tombe.
Molto sentito fu del resto sempre il culto dei Defunti: la cura con cui viene tenuto il Camposanto e il gran concorso di popolo ad ogni funerale ne sono una riprova. Un tempo le salme venivano poste nella bara avvolte solo in un lenzuolo e il feretro, dopo aver sostato nelle Chiese minori, veniva portato a spalle al Cimitero.

La parlata

Il dialetto era assai simile a quello della Valsassina, con notevoli influenze, però, dalle parlate dei paesi del lago. Da notarsi che tra le due Terre, superiore e inferiore, vi erano differenze di pronuncia e di parole che, se pure lievissime, rivelavano un sentimento abbastanza comune tra i paesi della montagna lombarda, la gelosia cioè, sino alle sfumature, di ogni forma locale. II dialetto originale sta orinai quasi scomparendo, influenzato da altri simili e particolarmente da quello milanese, il cui contatto è continuo, sia per la villeggiatura estiva, sia perchè molti uomini e molte donne trovano da anni occupazione temporanea nella grande città e nei dintorni. E non ci sarebbe che da rallegrarsene, già che le forme più dure di pronuncia e di linguaggio ne sono state ammorbidite, se non si dovesse rimpiangere la perdita di tanti modi di dire che rappresentavano l'eredità di esperienza delle generazioni passate: proverbi che accompagnavano la vita in ogni sua espressione;

da quelli semplici che dicono del tempo:

  • Nev su la foeuia / Ne cava la voeuia (Se la neve cade sulla foglia poi ne viene tanta da toglierci la voglia)
  • Sant Lorenz de la grand caldura / E Sant Vincenz de la grand fregiura / Ma tant vun che l'alter poc i dura (San Lorenzo del gran caldo e San Vincenzo del gran freddo, ma tanto l'uno che l'altro duran poco)

a quelli che insegnano il modo di coltivare e di gettare la semente:

  • Sta lontan fradel / Se te voeuret che veglia bell (Sta lontano fratello se vuoi ch'io diventi bello)

a quelli che osservano i fatti di ogni giorno:

  • Osteria noeuva tucc i se troeuva / Osteria veggia tucc i se specia (Osteria nuova tutti vi si trovano, osteria vecchia tutti vi si attendono)
  • Gh'è el pret che marida / Ma se ghe fuss quel che dismarida / El lavoraria tutt l'an (C'è il prete che sposa, ma se ci fosse quello che annulla il matrimonio lavorerebbe tutto l'anno)
  • Pan e pagn / In bon compagn (Pane e panni sono buoni compagni)
  • El lagrini dei donn / In fontann de malizia (Le lacrime femminili sono fontane di malizia)
  • Chi maneggia no fameggia (Chi si dà da fare non fa fame)
  • Ogni quei tanti dì e ogni quei tanti mes / L'acqua la torna ai so' paes (Ogni tanti giorni e ogni tanti mesi l'acqua ritorna ai suoi paesi)
  • La scender / La romenta el foeugh (La cenere dà la forza al fuoco)
  • Ona donna per camin / On prevet per campanin (Una donna per focolare, un prete per campanile)
  • Tucc i baia, tucc i roba / E a la soa moda / I è tucc giust (Tutti gridano tutti rubano e a modo loro tutti hanno ragione)
  • Chi mett i scarp a la matina / I e ten fina a la sira (Chi mette le scarpe alla mattina le tiene sino a sera, ossia: chi nasce fortunato, fortunato muore)

a quelli infine, bellissimi, che danno profondi insegnamenti morali:

  • Gna per vin gna per fen / No bisogna lassa sta de voress ben: / Se cala el vin se bev l'acqua / Se cala el fen se vend la vacca (Ne per vino ne per fieno bisogna tralasciare d'amarsi: se manca il vino si beve l'acqua, se manca il fieno si vende la vacca)
  • El difficoltaa i se trova / O per mancanza de forza / 0 de bona volontaa (Le difficoltà si trovano per mancanza di forza o di buona volontà)
  • No bisogna sornà spinn / Per minga andann de scolz (Non bisogna seminare spine per non restare scalzo)
  • Fa via nev e coppa gent / L'è tutt tra via el temp (Spalar neve e ammazzar gente significa perdere il tempo)

per concludere, con la scanzonata bonomia propria della nostra gente montanara:

  • I proverbi di vicc / In bon de fa cavicc; / Ma bisogna osservai / Perchè i ga tegnuu sett an a fai (I proverbi dei vecchi servono solo a far cavicchi, ma bisogna osservarli perché ci son voluti sette anni a farli)