Di questi tempi era l'agone la preda più facile e gustosa

Centro di documentazione e informazione dell'Ecomuseo delle Grigne

Articolo pubblicato da Pietro Pensa in L'Ordine, 15.6.1979


Messo ad essiccare appeso a cordicelle, veniva poi riposto nella «missolta» a strati disposti l'uno sull'altro - Il missoltin migliore era quello di giugno, al tempo della fregola, perchè più magro: un cibo prelibato del quale il lago di Como andava famoso


Il grande momento della pesca era l'inizio di giugno, quando gli agoni andavano in fregola. Non contento del suo nome scientifico, chiamato antesino quando ancora piccolo, agon quando pronto ad essere pescato, misoltin allorché mummificato per essere mangiato durante l'inverno, ai pescatori di ogni rango che lo catturavano si aggiungevano, nella prima decade di giugno, anche giovanotti che giungevano dalla montagna per unirsi a qualche amico della riva nel raccogliere col sibiel, la semplicissima rete a sacchetto attaccata ad un asta, l'agone in fregola.

Ognuno, per tradizione aveva lungo la riva il suo posto. Se, per caso, qualche forestiero, e le leggi ormai glielo permettevano se in possesso di regolare licenza, lo usurpava gli si faceva capire di andarsene con le buone maniere, che, naturalmente, se quello avesse fatto il sordo, si sarebbero risolte con un tuffo in acqua per il malcapitato.

Ogni mezzo, in quei giorni, era impiegato. I padroni del lago subaffittavano tratti di loro competenza e per il lago era tutto un vagare di pendent. Ma anche a riva si gettavano pendent, ancorando una estremità della rete gettata perpendicolar mente alla sponda, tirando l'altro estremo con la barca a semicerchio. E i professionìsti praticavano anche la pesca veloce là dove l'agone in fregola si ammassava in gran copia provocando un ribollire dello specchio d'acqua: la rete veniva gettata attorno e subito ritirata, «a volo».

Proprio in quei primi giorni d'estate vedevi lungo tutto il Lario, fuori dalle case dei pescatori, le lunghe file di agoni, appesi a cordicelle, dopo essere stati puliti, tenuti in sale per 24 ore e quindi risciacquati, ad essicare al sole.

Il procedimento della mummificazione, tradizionale da secoli e secoli era piuttosto complesso. Quando la testa scricchiolava alla pressione delle dita, gli agoni venivano messi nella missolta, mastelletto di legno, disposti l'uno sull'altro, a strati, a formare una rosa. Lo strato superiore doveva essere due dita sotto il bordo del mastello; i recipienti erano poi sovrapposti l'uno sull'altro in scala discendente di dimensione, tanto per altezza che per diametro, in modo che potessero formare una piramide. Ogni mastello, dopo riempito, veniva coperto con un disco di legno che si appoggiava all'ultimo strato di agoni, cosicché, una dola di botte, ricurva, snodata nella finestrella di un muro e caricata di sassi all'estremo, poteva esercitare una pressione continua sulla sottostante missolta ripercuotendola alle successive. I missoltini compressi, secernevano olio; facendone colare l'eccesso, i pesci venivano conservati tutto l'inverno.

Raccomandavano di non lasciar mai accumulare olio, poiché altrimenti, sarebbe «andato alla testa del missoltino» facendolo diventare giallo e cattivo.

L'agone migliore era quello di tempo di fregola, perchè più magro. Era, allora, squisito, con la sua straordinaria fragranza che non lo faceva per nulla disprezzabile rispetto al migliore pesce di mare.

Lo si friggeva con burro e salvia, utilizzando invece, per la cottura in carpione, l'erba scegrigiöla che prospera tra le pietre, naturalmente. Celeberrima dai tempi più remoti, la preparazione del missoltino dava lustro al Lario. Si raccontava persino che il Medeghino ne tenesse un gran deposito nella sua rocca di Musso per utilizzarli a scopo di scambio.

Non voglio chiudere queste brevi note sulla nostra pesca, di cui ho cercato di sottolineare l'importanza nella vita del Lario evitando di perdermi in delucidazioni tecniche di cui sono ricchi i numerosi nostri libri, senza ricordare anche qui la straordinaria partecipazione delle donne nella costruzione delle reti. Mi piace riprendere una descrizione di Pietro Belli: «Contro tutto e contro tutti, resistono sul Lario nella loro primitiva forma i vecchi arnesi da lavoro usati dalle donne per tessere le reti di seta: il cavicc, il bicochin, il moell e la gùgeta.

Il cavicc è un bastone infisso verticalmente nel mezzo di una cassetta scoperta e traversata da un assello di legno, sul quale la tessitrice appoggia i piedi per tenere fermo lo strumento. Nella parte superiore del bastone è praticato un buco nel quale si infila orizzontalmente un'asticciuola che serve ad appendere la rete in via di fabbricazione. Evidentemente da questa asticciuola, o cavicc che dir si voglia, è derivato il nome dello strumento, il bicochin è un arcolaio che si usa per dipanare le matasse di cordonetto. Il moell o misura modello, è un cilindretto di canna su cui si formano le maglie determinandone la dimensione: varia da grossezza a seconda del tipo di rete che si vuol ottenere: vi sono moell per pendenti, per arboreti e per tremaggi. La gügetta è una specie di ago o spoletta di legno, su cui si avvolge il cordonetto che si impiega per tessere. Una fila di maglie larghe quanto la rete si chiama curs; cento corsi formano una centenera, che è misura per la retribuzione del lavoro. In passato si usavano dei cavicc artisticamente lavorati a tornitura e intagliato, vanto per le donne che li possedevano. Se ne possono trovare ancora nelle case dei pescatori, che li conservano a ricordo dei nonni.

Io aggiungo che occorreva, insieme all'abilità nel lavoro, un buon cervello per cavarsela nel grande intrico degli infiniti tipi di rete. Una volta da ragazzo, mi misi in testa di diventare un esperto, ma presto rinunciai al proposito: non bastavano i pesci a determinare le caratteristiche delle maglie, vuoi che si trattasse di albore o di perseghera, ci volevano anche le forme speciali a secondo del gusto dei rivieraschi, la bottera dell'alto lago e la bighezza di Garlate ed Olginate insegnino!

Non molte le storie sui pescatori, se non i racconti di qualche vecchio all'osteria che mitizzava retate da non potersi reggere e colpi di maestri di frosna, nei bei tempi in cui vi era pesce in abbondanza e le trote di lago raggiungevano facilmente 15 chili!

Quasi favoloso parlare della lüdria, la lontra oggi forse scomparsa, ma che qualcuno dice di aver ancora avvistato. Assicurano che la sua fine venne quando dalle reti di seta si passò a quelle di naylon: l'animale, uso a vivere mangiando il pesce predato nelle reti che facilmente riusciva a forare, non potendo più spezzare coi denti la seta artificiale, rimase senza sostentamento, Ma forse son tutte fantasie!

Sì, udii più di una volta narrare, quando ero ragazzo, di un pescatore che andandosene a pescare un giorno di festività, tirando la rete felice di sentirsela assai pesante, vide spuntar dall'acqua le corna di un demonio; spaventato lasciò cadere l'attrezzo che, rompendo gli ormeggi, scomparve nell'acqua a giusta punizione del malcapitato.

Sentii anche dire che mentre suona la campana della resurrezione, tutti i pesci sporgono dall'acqua, ma che male incorrerebbe a chi volesse approffittarne per pescarli.

Questa, invece, assicurano che sia successa per davvero, e in Tremezzina. Padre e figlio, un giorno, stavano pescando agoni nella «Zoca de l'Oli» quando il giovanotto costatò che la rete si era fatta assai pesante. Il padre, accorso certo che si trattasse di un tesoro, prese a tirare di gran lena, ma i due non ce la facevano. Venne chiesto aiuto da gente della riva e tutti si prestarono di buon grado sperando di essere messi a parte del bottino. Se non che, venne a galla un mulo, che pochi giorni prima dal monte era scivolato nel lago per la troppa soma. Per rendere lo scorno meno grave i rivieraschi decisero di salare la carne dell'animale e di trarne del salame. Venne fama, da allora, che nelle osterie di quei paesi al viandante sia dato mulo da mangiare anzi che maiale. Ma forse, questa è verità non solamente della Tremezzina, ma comune a tutto il Lario, e delle rive e delle valli!