Dervio: segni del passato nel vecchio borgo

Centro di documentazione e informazione dell'Ecomuseo delle Grigne

Pietro Pensa, Dervio: segni del passato nel vecchio borgo in Giornale di Lecco, 11.2.1980

Nicchie tombali romane richiamano la memoria ad usanze di tempi imperiali

Avello di Dervio
Dervio nel suo territorio e nelle sue passate vicende mi ha sempre affascinato, sin da quando, ancor ragazzetto, mio padre me ne indicava dall'alto delle nostre montagne il delta proteso nelle acque, oppure, giungendovi dopo una discesa dal Legnone, me ne mostrava i tre nuclei abitati, e il Borgo e la Villa e il Castello, e, percorse le mura che a ventaglio si chiudono su Corenno, mi conduceva alla plebana, facendomi osservare quel portale stemmato che sporge appena dal piano della strada al lago, testimonianza di tremende alluvioni.

Né il mio interesse cessò col tempo, ravvivato sempre da qualche notizia che affiorava nelle mie ricerche sul Lario. Gli amici, poi, ogni qualvolta io passavo di là, mi sorprendevano con qualche cosa ancora a me sconosciuta, fossero i vasti cantinati che a tre piani si sprofondan sotto le case con i pittoreschi nomi di Paradiso, Purgatorio ed Inferno, a ricordare la scomparsa ricchezza dei vigneti, fossero i ruderi lungo l'ertissimo sentiero dal Varrone a Pianezzo, restì di una vetusta costruzione eretta sull'impervia china per potervisi nascondere a ballare di notte fuor di tiro dal prete, pavido a salire lassù a riprendere i parrocchiani che non per nulla si eran meritato il ritornello: «A Varèna a mangià, a Bélan a bév, a Derf a balà».

Oggi, il borgo al pari di Mandello, si è trasformato in luogo di industrie: se guardi i negozi misuri un'agiatezza diffusa; se giri per le strade incontri capannelli di pensionati ancor validi, che ai soliti discorsi dei cittadini su politica e pallone aggiungono quello dei funghi in autunno e primavera.

Più di una volta sono stato tentato dì buttare giù una storia di Dervio, ma sempre me ne son ritratto, perchè su Dervio come su Mandello gravano interrogativi mai risolti, o, meglio, mai affrontati, giacché chi scrisse e scrive su quei luoghi ripete soltanto cose risapute.

Misteri, dunque, in ogni tempo, persino nell'ampiezza del delta e nello stesso nome. Il gigantesco ammasso di ciottolame che si spinge sino a mezzo lago testimonia qualche fatto geologico straordinario: si è pensato che il Varrone maggiore scendesse un tempo giù dalla Valle di Casargo verso il Pioverna e che il Varroncello sorgesse sotto Pagnona e che col tempo abbia catturato il primo con gran crollo della fascia che li divideva. Ma è un'ipotesi e molto discussa.

Del nome si sa che nel 1500 la mania del classicismo lo attribuì a quei 500 Greci che Cesare portò sul lago, e prevosti e scrittori lo trasformarono in Delfo addirittura; ancor oggi il Comune, con patetica costanza degna di più pressante causa, ne mantiene il ricordo coi sassetti colorati di fronte al Municipio.

Poi lo si rivendicò ai Celti, comparandolo al Derw dalla finale dolce che lo accosta al gaelico "quercia". Né si pensò che il Derf dalla dura f che ancor oggi non si è dimenticata richiama piuttosto al pronunciar germanico di Longobardi e Carolingi e si accomuna al Darf bresiano e al Dorf tedesco. Come al Medioevo si rifanno i tre "paratici" di Dervio, le tre classi che a pari diritto costituivan la popolazione, con gli straordinari Statuti, tra i più interessanti per studiare la storia dei liberi comuni, vere società economiche del 1200.

Poi su su, a mano che la storia si addensa di notizie, sempre Dervio appare, baluginando appena, per poi scomparire in lunghi silenzi che sanno di mistero.

Più che ad altri tempi, la mia perplessità si è fissata su quello romano, che pur dovette avere suoi fasti in Dervio, specialmente quando, divenuta Milano capitale dell'impero e Como la sua scolta a settentrione, i traffici d'acqua verso l'Europa divennero così importanti da giustificare, accanto a quello del Mediterraneo, un "prefetto della flotta comense". Solo invece, purtroppo, ricorderebbe Roma qualche sparsa moneta rinvenuta nelle sabbie, se l'enigmatico "Castelvedro" con l'eccezionale rudere di muro a spina di pesce non testimoniasse, dall'alto della gigantesca rupe, situazioni storiche d'eccezione, forse di un mondo civile in guardia contro l'incombente marea barbarica.

Io spero sempre che qualche segno mi consenta, come già mi è accaduto recentemente, di porre in moto il meccanismo delle deduzioni logiche per diradare tante ombre suggestive e di formulare delle ipotesi.

Un ritrovamento, e cospicuo, sufficiente però a destar fantasia più che raziocinio, è avvenuto, non è pur molto, e davvero mette la pena di parlarne e di mostrarne anche l'immagine. Si tratta di un avello di fattura eccezionale. Nel territorio comasco vennero segnalati, all'inizio del secolo, oltre trenta massi avelli, ossia nicchie tombali di poco meno di due metri di lunghezza, scavate a scalpello in trovanti di serizzo; un solo avello, in Valchiavenna, era nella roccia viva della montagna. A Plesio, unico caso, si rinvenne anche il coperchio, grande tegolone di pietra che poggiava sui bordi della vasca per difenderla dall'acqua.

Molti di quei massi andarono perduti, impiegati, per la bontà del sasso, in altri usi.

L'avello di Dervio è scavato nella roccia cristallina di un dosso sovrastante la Villa, in luogo dominante, dopo la seconda curva della strada di Valvarrone.

Ha un perfetto bordo tutt'attorno; il fondo, a 40 centimetri di profondità, è lievemente inclinato, senza però risalti a cuscino come si dà in altri casi. Del tutto nuova è la presenza attorno, lungo i fianchi di roccia che sporgono dal prato, di "coppelle" o piccole rientranze tonde scavate qua e là con strano disegno. Le "coppelle", frequenti un poco ovunque nel territorio comasco, riferibili a ogni tempo dalla Preistoria al Medioevo, furon certamente segni magici di culto che peraltro non vennero interpretati da nessuno.

Quale, dunque, l'origine del ritrovamento di Dervio? Oggi gli archeologi sono propensi a riferire gli avelli in pietra, anche di altre parti d'Europa, ai tempi romani. Quello di Dervio, di fattura perfetta, con tracciato geometrico ineccepibile, confermerebbe l'ipotesi. Se non che, per strana suggestione, il luogo e le coppelle fanno sognare notti di luna con strani riti presso la tomba di un "druido". Ed è fantasia proprio da escludere? Forse no, perchè si sa che le usanze sono difficili a morire e che tradizioni galliche sono giunte sino ai giorni nostri.

Forse, dunque, i tempi imperiali, quando già la romanità aveva pervaso il territorio della sua grandezza, quando già i tardi nipoti "togati" degli antichi Galli "bracati" portavano i tre nomi romani ed avevano assunto il rito inumatorio dei Latini, sul colle di Dervio si invocavano ancora le divinità lunari, pur passate, per assimilazione, dal Pantheon dei Celti a quello dei Gentili!