Dai Romani ai primi cristiani in Valchiavenna

Centro di documentazione e informazione dell'Ecomuseo delle Grigne

Articolo pubblicato da Pietro Pensa in Clavenna, XXVIII (1989), pp. 79-84.


«Clavenna» e gli antichi abitatori

Quando ci si occupa di preistoria nelle valli dell'Adda e del Mera si rimane smarriti di fronte a certi abbagli in cui caddero studiosi di cose antiche. Sembra di vedere nel loro atteggiamento un costante riaffiorare di spirito di inferiorità; il che sarebbe comprensibile se le vicende delle loro valli fossero così povere di avvenimenti sociali e religiosi da venire offuscate da quelle degli altri territori. Ciò invece non è, perché pochi possono vantare, sia pure sotto l'ombra di miseria e di sopraffazione, una storia così ricca quale è quella della Valtellina e della Valchiavenna.

È ricorrente il nominare i Clavennates quali popolo della montagna dei tempi preromani. Ma essi non ci furono mai prima di Roma. Là dove ora sorge Chiavenna ogni rinvenimento archeologico riguarda solamente Roma (1). La città, quindi, poco lontana dalla confluenza del Mera col Liro, è romana. Il suo nome appare per la prima volta nella Tavola Peutingeriana e nell'Itinerarium Provinciarum di Antonino Pio. Fu fondata, là dove ora si trova, dai Romani. Si pensa che questi, come scrive il Buzzetti, «quasi spenti i popoli dei Vennoneti, abbiano edificato Chiavenna - centro ove convergono le valli di Samolaco, delio Spluga e del Maloja - giacché la sua ubicazione ottimamente scelta si impose tosto come emporio per commercio attraverso le Alpi Retiche, si prestò mirabilmente come dimora castrense, apparve fortunatissima per vedetta e difesa, al che eccezionalmente favorevole si prestò il Colle Paradiso, sulla cui vetta torreggiava il mastio dell'ampio castello, sotto cui si sprofonda verso il Colle Belmonte il pauroso taglio della Caurga» (2).

Stando così le cose, perché cercare le origini del toponimo in ipotetiche clapena o in un dialettale Giaendì II nome fu un nome colto, dato da Roma. È bello, quindi, trovarle in un «Clavis vallium», o in «Clavis Vennium», essendo i Venni o Vennoni abitatori delle valli vicine alle sorgenti dell'Inn e del Reno traboccanti in Valtellina e Valchiavenna, accogliendo come latino lo stupendo sigillo delle due chiavi messe in decusse.

Non è tutto qui. Strabone parla dei Reti. Quel nome fu rivendicato dai Valtellinesi, ma la Rezia ebbe valore giuridico solamente dopo la vittoria romana, quando Diocleziano o, meglio, Adriano la divise in due: la Rezia prima con capitale Coira, la Vindelicia o Rezia seconda con capitale Augsburg (Augusta Vindelicorum).

I Reti erano popoli alpini, forse inselvatichiti per la durezza del suolo su cui vivevano. Il loro storico, Giovanni Agamennone Oberziner (3), li vuol mostrare come una nazione unica, di origine ibero-ligure. Se anche di tale razza erano, ed è probabile, noi li troviamo insieme solo quando assaltano per ladronecci le città a cui Roma li ha attribuiti e quando vengono affrontati da Publio Silio, da Druso e da Tiberio per essere cancellati dalle valli in cui vivono.

Lo stesso Besta afferma che i popoli alpini erano stanziati al settentrione delle Alpi (4). Forse tracimavano in Valtellina e Valchiavenna solamente i Vennoneti, che abitavano presso le sorgenti dell'Inn e del Reno, e con loro vi risiedevano comunità montanare dedite alla transumanza del bestiame e a scambi locali di prodotti caseari e boschivi.

Ridicoli e forzati sono dunque i tentativi del Quadrio di assegnare le sedi ai popoli alpini; ben più precisi, salvo qualche marginale errore, quelli di Pietro Buzzetti, che trascrive e traduce lo scritto di Plinio il Vecchio sul Trofeo di La Turbie sopra Nizza (5). Una frase di Plinio sconvolge qui la preistoria della Valtellina e della Valchiavenna: «Raetos Tuscorum prolem arbitrantur a Gallis pulsos duce Raeto», ossia: «I Reti sono considerati discendenti dagli Etruschi, cacciati dai Galli sotto la guida di Reto» (6). Come potè Plinio, grande divulgatore, ma sempre preciso nelle sue ricerche e nel tramandare notizie, cadere in un simile errore? L'Oberziner lo riecheggia, riportando nella sua opera sui Reti le molte iscrizioni nord-etrusche, scritte in ambo i modi con le lettere di quel popolo e trovate nel Ticino, in Valtellina ed in Europa, affermando che i Reti discendevano dagli Etruschi.

Forse proprio l'abbondanza di simili iscrizioni indusse Plinio a congiungere Reti ed Etruschi. Ne dà conferma Marta Sordi, commentando il rilievo trovato tra il 1960 e il '70 a Bormio durante la demolizione di una vecchia casa contigua alla chiesa di San Vitale. Dopo averlo datato tra la fine del V secolo e l'inizio del IV a.C, lo spiega solamente con la presenza sul posto di artigiani etruschi o etruschizzati che lo eseguirono (7). Gli Etruschi avevano passato il Po e avevano reso fiorente Mantova, forse la Melpum di Plinio, venendo in contatto con i Galli; da quei fatti potrebbe essere nata la leggenda secondo cui essi furono sospinti tra le Alpi dai Galli, guidati da Reto.

Segue qui una domanda. Quale fu il percorso dei Reti che raggiunsero e distrussero Como nell'89 a.C? Ammesso che si trattasse di Vennoneti, penso che non scesero, come scrive il Fattarelli, dal Veneto, superando Brescia e Bergamo per raggiungere la «mediocre» Como; ben altre più allettanti città avrebbero incontrato! Dalla via Regina, allora? Probabilmente sì. Se nell'oriente del lago molti furono i punti in cui fermare i popoli alpini, punti documentati da ritrovamenti archeologici presenti nei musei cittadini e locali, ben più facile sarebbe stato arrestarli e respingerli sulla via Regina, in quella paurosa strettoia conosciuta come Sasso Rancio; ma là nessun indizio rivela presenze militari e fortificazioni. Perché questo? Forse perché ben diversi erano i rapporti tra gli Insubri e la gente del Lario orientale da quelli tra gli Insubri e i Comensi. Questi sottostavano ai primi, li sopportavano, ed è proprio a causa di tale rapporto che si erano arresi con 28 castelli ai Romani di Marco Claudio Marcello senza eccessiva resistenza.

Per gli stessi motivi è da pensare che i Comensi fossero intenti ai loro lavori in Comum Oppidum, forse non badando neppure a quel che avveniva alle loro spalle. I Vennoneti scesero quindi probabilmente per la via Regina e, raggiunto Argegno, risalirono la Valle Intelvi, passarono a sud-ovest della valle, ad Erbonne. Quella via era ben conosciuta dai Galli, come è attestato da ritrovamenti archeologici. Da Erbonne con ogni probabilità i Vennoneti seguirono il Breggia e, via Chiasso, piombarono su Comum Oppidum, lo saccheggiarono e lo distrussero.

La diffusione del cristianesimo in valle

Accantonata la vicenda della Tavola Clesiana, che vide in contrasto gli Aneuniati, gente aderente a Como che abitava nei territori acquitrinosi di Olonio, con i Bergalei stanziati in Val Bregaglia, vicenda del resto di cui non conosciamo la conclusione, è da osservare che a vivacizzare i rapporti tra Como e la valle del Mera furono i fatti religiosi, e precisamente quelli dei martiri tebei. Raccolgono, quei santi, sotto lo stesso nome numerosissimi martiri, di ogni parte dell'Europa, dall'Emilia a Torino, dalla Francia alla Germania, martiri di tante origini, morti nel corso delle invasioni barbariche e delle lotte antiariane.

L'unica «passio» storica che ci è giunta è la Passio Acaunensium martyrum scritta da Eucherio, vescovo di Lione dal 450 al 455. Questi era stato informato dal vescovo Isacco di Ginevra su notizie avute dal vescovo Teodoro di Octodurum (l'odierna Martigny) morto dopo il 381, il quale aveva scoperto i corpi dei martiri e li aveva trasferiti in una basilica da lui costruita ad Agauno (oggi S. Maurice nel Vallese). Ne aveva poi inviato il racconto con una lettera di accompagnamento al vescovo Salvio: una lettera scritta poco più di cento anni dopo i fatti, quindi a memoria d'uomo. In quei racconto Eucherio precisa che l'intera legione tebea, al comando di Maurizio primicerio, di Essuperio campiductor e di Candido senator, era stata decimata e poi uccisa dai soldati di Massimiano perché si era rifiutata di immolare agli dei. Non parla di soldati fuggiti per portare nel mondo la parola di Cristo. Vien quindi fatto di pensare che gli altri martiri tebei, legionari e dignitari di corte, non appartenessero alla legione tebea, ma fossero soldati, tebei sì perché nella loro terra più diffuso era il Cristianesimo, cristiani perseguitati dai soldati pagani fedeli di Massimiano.

La «passio» di Fedele e quelle di Alessandro e degli altri martiri sono tardomedievali, quindi inficiate dalla leggenda. Alcuni fatti, ciò nonostante, sono reali, documentati e non discutibili.

È frequente, nella storia del Lario, la presenza di località e di pievi che prendono il nome dal santo della chiesa principale: così avviene per San Bartolomeo e per San Nazzaro in Valcavargna, per Sant'Abbondio, per San Siro. Nel preparare il mio contributo alla storia della diocesi di Como per la collana promossa dalla Fondazione ambrosiana Paolo VI, cercai in tanti modi di sapere perché il villaggio sulla sella della Valle Intelvi, oggi il più frequentato della valle, avesse il nome di San Fedele. La chiesa principale, infatti, è dedicata a Sant'Antonio, mentre nessuna chiesa minore e neppure un altare lo sono a San Fedele. Stavo abbandonando il problema, quando nell'opera del padre Tatti trovai scritto: «Nella Valle Intelvi alcuni popoli s'accesero tanto nella divozione di S. Fedele, che lasciarono il suo nome antico, e presero quello del Santo, del quale ancora si gloriano a nostri dì» (8). Era l'anno 964 e Valdone, il vescovo di Como che aveva avuto gli Intelvesi quali stretti alleati durante l'assedio nell'Isola Comacina da parte dei conti di Lecco e del Seprio, su segnalazione della reclusa Domenica era salito con navi all'estremità nord del Lario presso Samolaco e, trovate le reliquie del santo, le aveva portate processionalmente in Como nella chiesa di Santa Eufemia, che per il grande evento mutò il nome in San Fedele.

Risolta la complessa questione, io trovai il «nome antico» del borgo, Carampin, in una piccola frazione degli abitati che allora lo componevano.

Ricostruita la cappella di San Fedelino sulla riva di quello che oggi è il lago di Mezzola, là dove fu sacrificato san Fedele, le notizie sulla località quale luogo di immolazione del santo non mancavano, rese probabilmente vaghe dalla presenza dei Longobardi ariani, sotto i quali era stato abbandonato e dimenticato un precedente tempietto.

La chiesa di Mezzola era infatti dedicata a san Fedele ed è del 3 gennaio 824 la conferma di Lotario al vescovo Leone I delle concessioni di Carlo Magno e dei sovrani longobardi sul monasterolo di San Fedele.

Premesso dunque che la Valchiavenna e la Valtellina appaiono nella storia ecclesiastica nell'ambito della diocesi di Como e solo marginalmente in quella di Milano, è importante accennare alla presenza, nei primi tempi della diffusione della nuova religione, di una inattesa figura sacerdotale, conosciuta dal 1591 quando fu ritrovato un manoscritto di Ennodio, vescovo di Pavia. Si tratta di prete Mario, che la pietà popolare aveva fatto beato.

Era, quell'enigmatica figura, un sacerdote che lungo il basso corso del Mera, forse quella che fu poi pieve di Olonio, era, nella seconda metà del V secolo, a capo di un collegio di chierici che egli stesso sceglieva e ordinava. Quasi un vescovo, dunque! Mentre storici del passato, quali il Quadrio, tale lo vorrebbero per rivendicare una diocesi valtellinese, i moderni lo ritengono un corepiscopo, figura ecclesiastica presente nei primi tempi della Chiesa, con grado di giurisdizione su preti subalterni e facoltà di conferire ordini minori e di eleggere il proprio clero. Tale figura fu abolita nel X secolo e poi sostituita, con minori attribuzioni, dal vicario foraneo.

Accanto a quello di prete Mario, proprio per merito di Ennodio che ne scrisse la vita, è tramandato il ricordo di sant'Antonio lerinese, eremita accolto da prete Mario. Nato nel 462 in Valeria, antica città dell'Ungheria sulle rive del Danubio, rimase orfano del padre all'età di otto anni e fu collocato in un monastero dove fu educato dal celebre abate san Severino, chiamato apostolo dei Norici e tanto venerato che fu visitato anche da Odoacre. Morto san Severino, lo zio Costante, vescovo di Lorch, si assunse l'incarico di completare l'educazione di Antonio; morto anche lui nel 487, una terribile invasione di Sassoni, Eruli e Franchi seminò terrore in quelle contrade. Non si sa come Antonio, fuggendo di là, fosse giunto all'imbocco di Valtellina e Valchiavenna. Certo è che si rifugiò presso il beato Mario e che questi, vedendo in lui grandi virtù, lo aggregò al clero della sua collegiata. Antonio scelse la vita di eremita sulla montagna sovrastante la tomba di san Fedele, nutrendosi del poco che vi coltivava e dedicandosi alla preghiera. Amato dai popoli circostanti per la sua santità, Antonio andò a trascorrere gli ultimi anni della sua vita nel monastero di Lérins, fondato nel 410 da sant'Onorato, e là si spense. Fu seppellito sotto l'altare della cappella di Santa Croce, ma le reliquie, da tutti venerate, furono disperse durante la rivoluzione francese (9).

Non va tralasciato un accenno alla traslazione a Milano dei resti di san Fedele Carlo Borromeo aveva fatto erigere in città a quei santo una splendida chiesa, su disegni di Tibaldo Pellegrini, in luogo di altra più piccola e modesta, con l'intenzione di trasferirvi le reliquie conservate nella chiesa dei santi Gratiniano e Felino di Arona. Tolte le reliquie all'insaputa della popolazione di Arona e portatele a Milano, Carlo Borromeo il mattino del 9 febbraio 1576 le trasportò processionalmente nella nuova chiesa, mentre i religiosi della Compagnia di Gesù tenevano sollevato un baldacchino sopra la barella. «La popolazione di Arona, venutane poco dopo a conoscenza, si irritò fortemente e con violentissime proteste, perché in tali circostanze l'animo del popolo suole perdere ogni ritegno, insistette per la loro restituzione. E non si dette pace finché non ne ricevette da Carlo una parte, che riportò ad Arona nella medesima chiesa» (10).

Si trattava dei resti di san Fedele e di san Carpoforo, che quelli di Arona pensavano fossero stati portati da Como alla fine della guerra decennale per evitare che Milano li trafugasse.

In realtà, proprio in quel torno di tempo il vescovo di Como aveva fatto nella chiesa di san Fedele una ricognizione alla teca che conteneva i resti di san Fedele e ve li aveva trovati. Due teschi, dunque, di cui uno venerato da san Carlo Borromeo, quel presule tanto devoto, che pure pochi anni dopo avrebbe imparato dai Cavargnoni il beffardo valore delle indulgenze e delle reliquie.

Note
1) M. Bergamini, Testimonianze romane a Chiavenna, Chiavenna 1977 (Raccolta di studi storici sulla Valchiavenna, X); G. Muffiti Musselli, Ritrovamenti archeologici nelle valli dell'Adda e della Mera, Sondrio 1985; V. Mariotti, Chiavenna antica. L'età romana, Chiavenna 1989 (Elementi per una ricerca, I).
2) P. Buzzetti, La Rezia chiavennasca nelle epoche preromana, romana e barbarica, Como 1909, p. 70.
3) G.A. Oberziner, I Reti, Roma 1883.
4) E. Besta, Le valli dell'Adda e della Mera, Pisa 1940, passim.
5) P. Buzzetti, pp. 53-54.
6) C. Plinii Naturalis historia, Pisa 1984 (edizione Giardini), libro III, cap. 20, p. 159.
7) M. Sordi, Qualche osservazione sul rilievo di Bormio, in RAC, fasc. 152-153, 1970-73, pp. 125 e segg.
8) P.L. Tatti, Degli annali sacri della città di Como, II, Milano 1683, p. 80.
9) E. Besta, pp. 51 e segg.; vedi anche le opere di Ennodio.
10) C. Bascapè, Vita e opere di Carlo arcivescovo di Milano, Milano 1965, pp. 305-306.