Contrabbando: vita di confine

Centro di documentazione e informazione dell'Ecomuseo delle Grigne

Articolo di Pietro Pensa in Broletto, n. 8 (1986), pp. 20-37.


La parola «contrabbando» porta in sé il suo significato: attività contra bannum, contro la legge. Nato quando si formarono gli Stati e si introdussero i dazi, reso più vivace allorché lo Stato avocò a sé dei monopolii, il concetto di contrabbando finì con il fondersi con quello di confine. Da lì è facile che il pensiero passi all'Adda col suo lago: un tempo linea di confine tra più Stati, italiani e non italiani, oggi è fiume tutto lombardo, ma pur sempre, con i suoi monti e le sue valli e con quel tratto di Ceresio da dirsi (ariano, segna un confine strettamente legato a traffici illegali. Di tale concatenamento di idee ho avuto diretta esperienza io stesso quando, per ragioni di lavoro, subito dopo la seconda guerra mondiale, percorrendo le strade dell'Emilia e della Romagna, per ragioni di lavoro, mi vedevo superare da una vettura delle Fiamme Gialle, improvvisamente apparsa, e, avuto segno di fermarmi, i finanzieri perlustravano minuziosamente la mia macchina, targata CO, increduli di non trovarvi niente, né nel baule o dietro il cruscotto, né nella mia cartella e nelle mie tasche. Il flusso del contrabbando, avviato sia dalle differenze di prezzo provocate dai dazi tra paesi confinanti, la cui evasione invita a illeciti guadagni, sia da necessità alimentari, non fu sempre in un senso, e in questo stesso nostro secolo si invertì con la Svizzera più di una volta. Quando, come avveniva nel lontano passato e capitò recentemente durante l'ultima guerra, il contrabbando riguardava le granaglie, ambite da certi paesi per mancanza nel proprio territorio, aggravata per di più dalle ricorrenti carestie, veniva da questi favorito, perseguito invece da quelli produttori.

I tributi origine del contrabbando

L'evoluzione storica dell'economia, talvolta interrotta da regressi quali quelli provocati dalle discése barbariche dopo il crollo dell'Impero romano, toccò tre gradini, passando da una economia naturale di scambi e di baratti all'economia monetaria e da questa alla monetario-creditizia, propria soprattutto ai tempi moderni. In tale evoluzione il fenomeno della produzione fu connesso a quello del commercio; la moneta derivò dal loro svilupparsi e la sua caratteristica fondamentale fu l'accettazione su territori sempre più vasti. Mentre sul Lario è testimoniato l'impiego del metallo quale mezzo di pagamento dall'età del ferro, nessun ritrovamento archeologico consente di supporre una procedura a-naloga nei territori dalle alte valli dell'Adda prima dell'avvento romano: probabilmente, i rapporti economici avvenivano ivi tra comunità demiche a livello di baratto e di scambio, con assenza quindi di sviluppo socio-economico. Basti pensare che il perfezionarsi dell'uso del metallo nei rapporti economici fu così lento anche tra i popoli evoluti, che solo nel VII secolo a.C. si giunse alla sua ultima fase, rappresentata dalla monopolizzazione da parte dello Stato, che diede alla moneta fissità di tipo, di lega, di peso e corso forzoso, per rendersi conto della situazione che doveva esserci nelle valli alpine prima dell'affacciarsi di una civiltà quale quella di Roma, la quale, d'altra parte, aveva ereditato l'uso della moneta dai Greci, i veri inventori della stessa. Il vivere in comunità portò il concetto di tributo, ma se l'utilizzo di esso nei primi tempi della convivenza umana era reso palese dalle necessità imposte dalla vita, quando le comunità ingrandirono divenendo Stato con principe e le loro necessità sfuggirono alla possibilità di comprensione dell'individuo, questi fu portato a considerare il tributo come una sopraffazione e a cercare ogni modo per sottrarsene. I tributi, imposti nei tempi più remoti sui prodotti di prima necessità, quali il sale e le granaglie, furono col succeder dei secoli estesi ad ogni sorta di prodotto e di attività, tanto da venire a formare una vera giungla finanziaria in cui fu sempre difficile sbrogliarsi. Vi erano imposte che riguardavano la produzione, altre che colpivano ircommercio. Queste già nell'alto Medioevo e nell'età comunale si potevano distinguere in imposte sul mercato e imposte di transito. Le prime avevano carattere di imposte locali sugli scambi o di tasse per l'uso della stationes, dei pesi e delle misure pubbliche, le seconde, o telonea, venivano riscosse o a una porta, o a un incrocio di strade, o a un valico, o a un porto, o a un ponte e colpivano le merci nei vari momenti di transito: giustificate queste da un corrispettivo di opere di pubblica utilità, davano naturalmente luogo ad abusi malae consuetudini. Le due categorie di imposte ebbero tendenza a confondersi e tale confusione fu agevolata dal fatto che furono considerate come regalia e divennero oggetto, nell'età carolingia, di concessioni reali e imperiali a feudatari, a vescovi, a capitoli o a monasteri, alle città. A rendere più complessa la materia intervennero trattati di commercio con esenzioni o con riduzioni di tariffe verso uno o più Stati. Non ben definito fu in ogni età il beneficiario del tributo. Già il Barbarossa con la Costitutio de regalibus cercò di rivendicare all'impero i vectigalia quae vulgo dicuntur telonea e Federico II invano tentò di abolire i tributi interni. I concetti di dazio interno e di dogana, il primo riguardante una cinta daziaria cittadina o di comunità, la seconda il confine di Stato, già nel perìodo comunale mancavano di una netta distinzione, realtà, del resto, già esistente nell'impero romano, solo nel tardo periodo del quale si enucleò da un aerarium per tutto lo Stato una cassa speciale per la città, gestita dal senato. Basta esaminare gli statuti medioevali, quelli in particolare di Lecco, borgo tipicamente commerciale, per farsi la domanda del beneficiario della lunga serie di dazi registrata. E più difficile ancora è rendersi conto a quale destinazione sarebbe stato giusto indirizzare i tributi nei secoli spagnoli dei feudi camerali, quando i signori che avevano acquistato il feudo dall'imperatore non solo esigevano tutti i tributi, ma altri ne aggiungevano, con quella prepotenza mal tollerata che fu caratteristica di Cesare Monti feudatario della Valsassina. Ad uffici propri per l'esazione dei dazi vennero dai duchi, per l'impellente necessità di denaro, sostituiti gli appaltatori; l'appalto avveniva per pubblico incanto, ma per ragioni di convenienza finiva con l'essere rinnovato alla stessa persona; tale prassi fu poi seguita dai Grigioni e così si formarono vere .dinastie di gabellieri, quali i Belingardi di Lecco, i Pestalozzi di Chiavenna, i Salis di Coirà. Data la gigantesca cinta daziaria costituita dalle montagne delle valli dell'Adda e del Mera, da quelle del Lario e dai passi del fiume, facile fu il controllo delle merci e per evitare la circuitazione dei posti doganali si obbligò il loro movimento per strafarti rectam. Grave problema, viceversa, presentarono i laghi, sulle cui vaste acque difficile era il controllo. Entrato nella mentalità comune il concetto che il tributo fosse una sopraffazione, divenne naturale in chi ne era colpito il pensiero del «falso», con l'inganno alla comunità e allo Stato. Tale indirizzo era reso più vivo quando a capo della comunità o dello Stato vi era un signore o un principe. Se, infatti, nell'impero romano vi era una chiara distinzione tra finanza ordinaria o del principe e finanza straordinaria per la salvezza della nazione, nelle dominazioni che seguirono l'impero ci si valeva indiscriminatamente dello ius exi-gendi e solamente con Gian Galeazzo Sforza si sarebbe tornati al primo concetto, con la distinzione tra magistrato ordinario e magistrato stra- ordinario, divisione che poi si mantenne nello stato di Milano sino al 1750. Il «falso», tuttavia, ebbe una storia tanto antica quale quella dei tributi, e altrettanto antiche furono le pene che lo colpivano. Per la falsa testimonianza le Dodici Tavole comminavano la pena di morte mediante «precipitatio e sa-xo»; la lex Julia de maiestate considerava crimen maiestatis la falsificazione dei documenti pubblici. Delitto fu sempre ritenuto, poi, la falsificazione dei pesi e delle misure e gravissime pene furono decretate contro i falsari di monete: l'editto di Rotari stabiliva per loro il taglio della mano e gli statuti delle Comunità lariane, da quelli di Bormio a quelli di Lecco, per il falsario delle monete disponevano la pena di morte su rogo. Anche la «Cartolina» di Carlo V stabiliva gravi pene; solo la Riforma leopoldina del 1786 accolse criteri umanitari. La più remota notizia di un trucco per ingannare i dazieri ci è trasmessa da Zenobio, nei suoi Proverbia (1,74), scritti sotto l'imperatore Adriano nel II secolo d.C. In essi il comico Leucone racconta di un contadino che, volendo introdurre in città del miele, sottoposto a un dazio superiore a quello delle granaglie, coprì di orzo gli otri di miele posti sul basto di un asino; già l'inganno era riuscito quando l'animale, scivolando, cadde e i doganieri accorsi, scoperto il trucco, confiscarono il miele.

Contrabbando di granaglie nel Medioevo

Caratteristica del contrabbando nella Lombardia pedemontana durante il Medioevo fu la scelta della via d'acqua, sostituita da quella della montagna solamente nel secolo scorso, e in particolare dopo la creazione dello Stato italiano. Se si pensa all'alto Medioevo, ai tempi in cui le comunicazioni per via terrestre non erano più protette dallo Stato e i grandi feudatari civili ed ecclesiastici imponevano telonei sui mercati maggiori e i piccoli, spezzettando il territorio, riscuotevano balzelli daziari, si comprende come solo via lago, e per di più in ore notturne, si potesse sfuggire a quella diffusa e disordinata pressione su ogni sorta di attività produttiva. Purtroppo non ci sono giunte notizie di quei secoli che documentino quella probabile presenza di contrabbando, resa invece palese dalle disposizioni statutarie dei liberi Comuni, adottate e perfezionate poi dai duchi. Per avere una precisa notizia sul campo in cui particolarmente avveniva la frode, bisogna portarsi al 1379, anno in cui appare per la prima volta, in un decreto del 15 marzo di Gian Galeazzo Visconti, citato da un rescritto di Filippo Maria del 1-6-1423 e ricordato in una lettera di Francesco Sforza al podestà e referendario di Como, la figura del Capitano del lago. Il ruolo di quel personaggio, che veniva scelto sempre tra uomini distinti, e che durava in carica sei mesi, periodo procrastri-nabile a volontà dal duca, era la tutela dei dazi da esigere dalle navi che navigavano il lago. Egli disponeva di due carrobiesse (imbarcazioni da trasporto) per tale compito e di una scorta di sessanta guardie, poi ridotte a dodici, con le quali perlustrava le acque per sorprendere i contrabbandieri di sale, di granaglie e di altre merci sottoposte a dazio, con la facoltà di agire contro i frodatori, tenendo a disposizione un vicario per le procedure penali. Riceveva uno stipendio di trenta fiorini e tre fiorini di salario per ogni guardia e risiedeva nella torre di Bellagio, il borgo più adatto per tenere il lago sotto controllo. Lo stipendio del vicario e la paga delle guardie vennero inizialmente addossati alle pievi del Lario, le quali finirono col collegati, in contrapposizione della stessa città di Como, nella Comunità delle terre del lago, tenendo adunanze convocate dallo stesso Capitano. La spesa per quel servizio venne poi addossata agli appaltatori dei dazi che, gestendo direttamente le dogane di terra, avevano tutto l'interesse ad impedire il contrabbando sulle acque. Allo scopo di rendere più attento ed interessato il controllo, Filippo Maria con un decreto del 1428 accordò agli appaltatori dei dazi di tenere pur essi sul lago una carrobiessa con due ufficiali per impedire le frodi. La figura del Capitano del lago apparirà anche sul Verbano e sull'Iseo. Incidenti, naturalmente, dovettero essere frequenti; abbiamo notizia di uno, accaduto nel 1420, in cui un tale Ferrario di Moltrasio, che conduceva una nave carica di granaglie, si rifiutò di lasciarne ispezionare il carico. Antonio Bolognino, che dipendeva da Ambrogio Pietra-santa Capitano del lago, venuto a parole, lo colpì a sangue con un'asta di giavellotto. La causa che ne seguì si concluse con una condanna e una grossa multa al Bolognino, poi condonatagli dai Savi di Provisione di Como. Le guerre di Filippo con Venezia, condotte anche per via d'acqua lungo i fiumi, innescarono un massiccio contrabbando lungo l'Adda, favorito da Venezia che necessitava di cibo per le sue truppe di ventura. Siamo privi di notizie storiche su di esso a causa della distruzione degli archivi viscontei avvenuta nel 1447; un cospicuo fascio di documenti ne testimonia invece il ripetersi quando, dopo il 1450, si riaccese la guerra sotto Francesco Sforza tra la Serenissima e il Ducato, e un massiccio passaggio di biade (così erano chiamate le granaglie) avveniva attraverso l'Adda e i laghetti pedemontani. Che la pingue Brianza fosse un serbatoio di viveri Venezia l'aveva capito allorché, battute le forze di Filippo Maria Visconti e spintosi inutilmente sin sotto Milano, dopo aver traghettato l'Adda il suo capitano Muzio Attendolo, ripiegando il 14 giugno 1447 verso Lecco, aveva occupato la pieve d'Incino, facendovi un bottino di viveri per centinaia di migliaia di ducati. Entrato in Milano nel gennaio del 1450 dopo turbinose vicende e fattosi proclamare duca, Francesco Sforza affrontò i primi anni del suo principato in uno stato di guerra fredda con Venezia, ponendo uomini di sua fiducia nei punti nevralgici del confine. La Serenissima preparava tuttavia un nuovo confronto e incoraggiava intanto il contrabbando di granaglie, pagandole ad alto prezzo. Le autorità del ducato ne erano preoccupate e nel gennaio del 1453 il Consiglio segreto, sollecitato dal duca, chiamò i capitani della Martesana, del Seprio e del lago di Como, nonché i podestà di Lecco e di Bellano e, dopo aver discusso il problema, delegò alla repressione delle frodi il capitano della Martesana, emanando ordini, che in realtà non sarebbero valsi a nulla se non si fossero trovati homeni sollicitì, vigilanti, continenti et zelantissimi. La situazione era grave, tanto che per provvedere a una notevole carestia in atto non si osava neppure importare grano dal Piemonte in Como perché si era certi che sarebbe finito nelle mani del nemico. Il podestà di Lecco, facendo tenere i comballi sotto il ponte guardati dal castellano, giunse persino a controllare di persona le gerle delle donne che portavano letame, temendo che vi nascondessero biade. Ci voleva ben altro! Il traffico di granaglie avveniva a Galbiate attraverso il lago di Olginate e a Bellano, da dove rifornimenti provenienti da Como passavano con una cinquantina di carri al giorno in Valsassina, sempre in mano dei Veneziani. Antonio de Porris milanese, capitano del lago di Como, nel gennaio 1452 informava infatti il duca, che quelli di Bellano andavano con tre o quattro navi a Como, dove comperavano biade, che, avuta licenza di condurre a casa loro, scaricavano invece a Olivedo di Varenna o a Gittana per portarle in Valsassina e consegnarle ai veneziani. La guerra si accese d'improvviso, il 16 maggio 1452, senza dichiarazioni, con il dilagare delle truppe venete nel Milanese e nel Lodigiano: sarebbe durata due anni, condotta dallo Sforza, pur grande condottiero, con l'abilità del diplomatico che cercava di evitare confronti militari diretti per non mettere in gioco la fortuna che lo aveva portato al ducato. Mentre egli conduceva il grosso dell'esercito, manovrando con cautela e lasciando i punti periferici a fidati condottieri, la consorte Bianca Maria guidava lo Stato da Milano da Pavia. Il 14 aprile 1452 era stata catturata presso la Val San Martino una nave che praticava contrabbando; i frodatori avevano rallentato la loro attività, ma, ripreso ardire allo scoppio delle ostilità, il 30 maggio da Olginate erano riusciti a passare su quattro navi trecento some di biada. Con l'aiuto dei navaroli di Lecco furono presi due contrabbandieri, ma la duchessa, preoccupata di non farsi nemici, ordinò di multarli e di non dar loro pene corporali; lo stesso duca, raggiunto dai parenti, ne ordinò la scarcerazione. Mentre nel Lecchese si prevedeva un attacco della Serenissima, sempre in possesso della Rocca di Baiedo in Valsassina e di Lecco esterna, una decisa repressione del contrabbando sarebbe stata efficace, perché avrebbe impedito il rifornimento delle truppe venete che si stavano ammassando. Così l'attacco avvenne all'inizio del 1453 e solo una dura resistenza di pochi ducali e dei partigiani dei paesi sovrastanti la Riviera del Lario riuscì a mandarlo a vuoto. Mentre risalivano le fortune belliche dello Sforza che, abbandonata la sua tattica temporeggiatrice di fronte al pericolo di essere sopraffatto dai Veneziani, con rapidità e decisione aveva ripreso ad affrontare il nemico, il nuovo podestà di Lecco, Pietro Amigoni, col fratello e i famigli, stava sgominando il contrabbando. Il 30 maggio venne fatto prigioniero Alagamo Manzoni, «sfrosadore», e internato nel castello di Lecco. I contrabbandieri di Olginate e di Galbiate a tale atto di forza si trovarono smarriti, ma poi Pagano d'Adda e i fratelli, di Galbiate, non temendo né papa né imperatore, minacciarono i famigli degli Amigoni e dissero loro che se si fossero avvicinati al fiume li avrebbero fatti a pezzi; sopraggiunti altri contrabbandieri a dar manforte, i tutori della legge dovettero risalire sulla loro scorobiessa e allontanarsi. La notte del primo di agosto, tuttavia, l'Amigoni sorprese e imprigionò il Pelato da Brivio, navarolo di Olginate e il giorno stesso lo impiccò per la gola e lo fece morire sulla forca nella piazza di Barzanò del Monte di Brianza perché l'esecuzione servisse di esempio. La stessa fine fece un molinaro colto in fallo; i briganti furono presi da spavento e il contrabbando ebbe una battuta di arresto. Pure, ed è fatto di tutti i tempi, dalla colpa di contrabbando non erano esenti neppure i preposti alle maggiori cariche e se ne fece eco presso il duca il Cotignola, fedelissimo castellano del ponte. Persino il podestà venne accusato di aver fatto concedere dal Consiglio segreto un permesso agli uomini di Lecco di vendere alcuni suoi frusti et non abili a salvare: in realtà, infatti, era stato venduto ai Veneziani vino buono e anche legname per le fortezze. Lo stato delle cose, comunque, continuava a preoccupare le autorità di Milano, e la duchessa mandò in aiuto dell'Amigoni Filippo Maria Visconti Junior. Questi si recò subito a Olginate, vi fece riunire i comballi in numero di 39 e li fece condurre al molo di Lecco assicurandosi in tal modo che non potesse passare biada al nemico, se non vola. Poi si recò a Mandello, da dove navi risalivano il lago per contrabbandare in Valtellina; passò quindi a Morbegno e diede disposizioni, ormai certo che il contrabbando fosse ridotto a episodi insignificanti. Condotta un'azione contro la Rocca di Baiedo nell'inverno del 1453, riottenutone il possesso grazie anche alla repressione del contrabbando, il 9 aprile 1454 si giunse alla pace di Lodi tra Venezia e Milano. Se tra i due Stati, di cui l'Adda tra Lecco e la Ghiara era confine, sarebbero seguiti cinquantanni di pace, pure motivi di frodo ve ne furono sempre. L'interesse di Venezia al pannilana, per i quali prima i Visconti e poi gli Sforza avevano stabilito dazi che portavano denaro alle casse ducali, aveva condotto a un passaggio di merci attraverso il confine circuitando i posti di dogana; similmente avveniva anche per altri prodotti, e il fatto che le vie di transito, sia nelle Prealpi che nelle Alpi orobiche tra ducato e Bergamasco correvano su sentieri di montagna, facile diventava eludere i controlli; a obbligare il passaggio dai punti guardati dai doganieri aiutava - e il caso è singolare - il diffuso banditismo che avrebbe approfittato delle deviazioni! Nei decenni che segnarono la fine del ducato sforzesco e furono caratterizzati dalle lotte tra Francia e Spagna, la navigazione sul lago venne sconvolta dagli avvenimenti bellici e, passata la Lombardia nelle mani della Spagna, i traffici lacuali andarono via via diminuendo a causa dell'impoverimento delle industrie e dei commerci, che portò Como, Lecco e i borghi rivieraschi da una situazione di benessere a una diffusa miseria. Prendendo motivo dalle lotte in atto, nei primi decenni del 1500 sulle acque del Lario i traffici commerciali venivano turbati dalla presenza piratesca di venturieri, quali Francesco Morone, Giovanni Matto, Pelosino da Sala, Antonio Matto figlio di Giovanni e dallo stesso Medeghino, il quale tra le monete da lui coniate a Musso curò uno zecchino, sul retro del quale il lago è rappresentato da un uomo nudo, giacente a mo' di divinità fluviale dell'arte classica, che accenna a una nave; i mercanti stranieri se ne lamentavano ed erano spinti ad evitare il passaggio da Como delle loro esportazioni. Sotto la dominazione spagnola l'ordinamento amministrativo ducale rimase invariato, e così non mutò il ruolo del Capitano del lago il quale dalla sua residenza venne chiamato «capitano di Bellagio». La giurisdizione sul lago era divisa tra due autorità, quella del Comune di Como per le acque libere e quella del Comune di Milano per i diritti di spettanza ducale. Creatisi contrasti, si giunse tuttavia ad un accordo e il Capitano del lago venne a dipendere dal Magistrato straordinario. La lotta contro i Grigioni, alleati dei Francesi e di Venezia, impegnò il conte di Fuentes, governatore di Milano, all'inizio del 1600. Date disposizioni al Magistrato ordinario di chiudere le vie del lago al commercio con i Grigioni, il Magistrato stesso si affrettò a trasmettere l'ordine ai dazieri e al governatore di Como, il quale, adducendo il motivo di recarsi ai bagni in Valtellina, si recò sul posto e avvertì gli agenti dei mercanti milanesi di non inviare più merci per la via del lago. 1123 agosto 1603 il Fuentes scrisse al conte Alessandro Biglia, cognato del governatore di Como, di portarsi al confine con la Valtellina per disporre una attenta sorveglianza. Il Biglia si recò alle Tre Pievi ed emanò nel settembre una grida che vietava la navigazione in quella parte del lago, minacciando tre tratti di corda agli uomini e la frusta alle donne che praticassero contrabbando. Il Fuentes frattanto disponeva la costruzione di un forte a Montec-chio di Colico e i lavori vennero intrapresi nell'ottobre di quell'anno. Rimostranze dei Grigioni cercarono di ottenere che si togliesse il blocco del commercio, ma non si raggiunsero accordi e così nel 1607 si terminò il forte che fu detto di Fuentes dal nome del governatore spagnolo. Anche sul fiume, a valle di Lecco, era sempre in atto il frodo verso la Serenissima. Tempo fa trovai nell'Archivio di Stato di Milano, ed ora non lo rintraccio più, un fascicoletto riguardante un frodo in atto da più anni verso la fine del 1500 lungo l'Adda, scoperto dai doganieri spagnoli al confine con Venezia. I contrabbandieri costruivano con canne degli zatteroni, sotto i quali fissavano cassoni stagni pieni di granaglie, abbandonandoli lungo la riva al corso del fiume e recuperandoli con aste ganciate di là dal confine. Ho poi sott'occhio una intimazione del podestà di Mendrisio a sfrosadori di grano di presentarsi davanti a lui il 2-4-1581; non è indicato il motivo nella grida ma non era certamente di repressione, dato che allora l'attività era incoraggiata dal Cantone, al punto che ai contrabbandieri venivano concesse prerogative, tra le quali quella di portare armi senza particolare permesso. In un atto notarile del 1567 appare una causa intentata dal fisco ducale a un Lambertenghi di Como che a-veva fatto vendere nei paesi svizzeri il grano spettantegli per l'affitto di un molino che possedeva in territorio ducale presso il confine, grano che secondo la legge avrebbe dovuto invece essere portato a Como. Sono infine significativi due atti del 1696 che rivelano violenze commesse in territorio svizzero presso Chiasso, nei confronti di sfrosadori locali che conducevano granaglie dall'Italia, da parte di due dazieri spagnoli che vennero imprigionati. Del fatto si interessò il governatore di Milano, che appianò la questione. Né ai tempi austriaci dovette mancare la presenza del contrabbando. Ciò è documentato nel 1700 particolarmente con ferrarezze che dal ducato passavano a Venezia: un traffico, del resto, già in atto dal 1400. Dopo la restaurazione, del contrabbando si valsero i cospiratori del Risorgimento, argomento sul quale tornerò trattando dei partigiani. Un rapporto della polizia austriaca del 10 ottobre 1833, nel segnalare i contatti con i cospiratori e i federati lombardi della Svizzera, parla infatti della Balorena, turba di contrabbandieri di Chiasso «che si muovono con tutte le più astute precauzioni».

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