Con ranza, seghezza e campacc sperando in un fieno abbondante

Centro di documentazione e informazione dell'Ecomuseo delle Grigne

Pietro Pensa, Con ranza, seghezza e campacc sperando in un fieno abbondante in L'Ordine, 16.2.1979.

Gnà per vin, gnà per fen
Bisogna lasà sta de vuress ben:
Se cala el vin se bev l'acqua,
Se cala el fen se vend la vacca.

Questo proverbio, stupendo perché in due frasi sintetizza la profonda saggezza cristiana della nostra gente, proverbio di cui non ho trovato riscontro nell'inflazione di scritti che in questi anni affliggono la nostra editoria pseudo folcloristica ripetendo con le sole variazioni di dialetti gli identici ritriti detti di tutti i popoli, italiani o no, proverbio dunque lariano, dà la misura dell'importanza che si annetteva da sempre alia fienagione.

Già scrivemmo che un'antichissima usanza, di sapore pagano, vedeva i ragazzetti andarsene a primavera per i prati a ciamà l'erba: abbondante fienagione significava infatti fiorente bestiame, poca erba era sinonimo di miseria.

A fine inverno, generalmente a San Giuseppe, mentre si vangavano i campi per la semina primaverile di patate e di granoturco, concimandoli con lo stramm o letame raccolto dal lecc delle stalle del villaggio, si trasferiva il bestiame da queste ultime a quelle dei mont. Era l'inizio della stagione agricola: le donne, come vedremo, si affrettavano a terminare le operazioni della tessitura e della sblanca per essere disponibili, già che il maggior peso dei lavori gravava su di loro; gii uomini si dedicavano intanto a fà fasinn, cioè a raccogliere e a legare la ramaglia della legna tagliata nei mesi precedenti.

La fienagione iniziava all'aprirsi dell'estate e rappresentava un vero e proprio rito, il più importante dell'anno, che impegnava tutta la famiglia. I tagli erano da due a quattro, a secondo della fertilità e della concimazione del terreno. L'erba di giugno, la più abbondante, di un verde pieno tutto macchiato di fiori, profumata e luccicante di lucciole la notte, era chiamata ol fen; la seconda, che si recideva quaranta giorni dopo, a fine agosto, era invece di un rossiccio bruciato; aveva il nome di la degör.

Il proverbio ammoniva: Fen col fiur / Degor col colur.

Il terzo taglio, il terzol, veniva effettuato in ottobre solo nei prati che avevano subito concimazione; negli altri, la poca erba cresciuta era lasciata alle vacche, messe libere nei prati. Solo in poche località, a intensa concimazione, anticipando tutti i tempi, si arrivava a una quarta crescita a ottobre avanzato; e l'erba a sua volta era destinata al pascolo diretto del bestiame che dava allora un latte grasso e profumato, col quale si produceva quel formaggio che proprio dal nome del quarto utilizzato era chiamato quartirol, formaggio oggi ottenuto in ogni stagione nei caseifici di pianura, con la perdita purtroppo dell'antico profumo e del garbato sapore, rimasti solo un ricordo dei vecchi buongustai.

Il taglio dell'erba dunque era operazione di grande importanza ed era vanto di ogni famiglia la sua più o meno rapida conduzione, così come ciascuno spiava i prati dell'altro per misurare l'abilità del falciatore della maggiore o minore regolarità delle passate.

L'attrezzo principale della falciatura era la ranza, dalla lama ricurva, fissata all'estremo di una lunga asta che portava in testa ol manech da impugnarsi con la mano sinistra, mentre la destra teneva la magnole, fissata alla metà, ricurva verso il lavorante.

Prima di iniziare a segà, al mattino appena fatto, il falciatore, generalmente il capo famiglia, procedeva alla delicata operazione'della moladura, o affilatura della lama.

Sedeva sul prato con le gambe divaricate, piantava nel terreno a colpi di martello l'incugen per marlà, arnese di acciaio con braccia a croce avente la parte inferiore a punta per penetrare sino all'arresto delle braccia, la superiore allargata, in modo da formare un piano per la battitura, temprato, durissimo.

L'affilatura della lama procedeva iniziando dalia parte larga della falce e continuando a ritmici colpi di martello, sino alia punta; richiedeva molta abilità.

La falciatura veniva eseguita ritmicamente, con ampio movimento a semicerchio, trasversalmente e dal basso all'alto del pendio. L'erba cadeva in file regolari che erano chiamate ondane. Quando la falce perdeva il filo e non tagliava bene, il falciatore si arrestava, per molà la ranza, riprendendo il filo della lama con la préda, o pietra molare, che toglieva dall'acqua del còder, corno chiuso in alto con un pò di erba, tenuto dietro il fianco appeso alla cintura.

Nei tratti irregolari del prato, o ai margini, là dove affiorava qualche pietra, si completava la falciatura col segà sul brutt, utilizzando la seghezza, ia classica falce tonda a manico breve.

Il lavoro veniva iniziato appena vi era luce sufficiente e aveva una sola pausa verso le otto per uno spuntino di pane e formaggio. Le donne procedevano allora a spand i ondèn con la furca, ossia sparpagliavano in modo uniforme sul prato, l'erba recisa per farla seccare al sole. Erano maestre nel volteggiarla in aria facendola cadere a raggerà tutt'attorno.

Tra le dieci e le undici terminavano le operazioni: il sole era alto e aveva ormai asciugato la rugiada, utile a far scorrere meglio la lama. Un buon falciatore in un giorno falciava dai 2000 ai 2500 metri quadrati di prato.

Dopo la colazione del mezzogiorno, sì procedeva a vultà ol fen, ossia a rigirare l'erba perchè la parte rivolta contro il suolo venisse a sua volta esposta al sole. A sera, si facevano i mucc cui restrell.

Il giorno seguente venivano eseguite le stesse operazioni; a sera, se il tempo era buono, l'erba era sufficièntemente seccata; si poteva raccoglierla col rastrello e fa su la carga nella berla, il gerlo a largo intreccio, detto in alcune zone campacc per portarla nella stalla d'ol fen.

Era essenziale che durante fessicazione non piovesse: l'acqua avrebbe irrimediabilmente guastato l'erba. Quando il maltempo minacciava, ci si affannava a portare al coperto il fieno, che si sarebbe riesposto al ritorno del sole. In casi consimili, nulla poteva trattenere dal mettere a salvament ol fen, neppure il divieto del lavoro festivo, assai rispettato peraltro sino all'inizio del secolo.

E pure raccontano che una volta, in giorno di solennità, si era levato dlmprovviso l'uragano, proprio mentre suonava il segno della campana che chiamava alla Messa.

Tutti, anziché recarsi alla Chiesa, erano accolsi nei prati per raccogliere l'erba e salvarla dal temporale.

Anche due vecchi coniugi, sempre vissuti nel timore di Dio, presi dal comune affanno, si accingevano ad ammucchiare il fieno del loro unico prato, quando la donna, presa dal rimorso, afferrato il braccio del suo uomo, gli fece segno di lasciare la bisogna: era ben meglio perdere il pane che offendere il Signore! Mentre stavano allontanandosi in fretta per giungere in tempo alla funzione, i due vecchi si volsero a guardare il loro povero prato. Ed ecco d'improvviso, fantasmi evanescenti apparire in folla nella nebbia della tempesta che già sopraggiungeva, eccoli con vertiginosa velocità raccogliere l'erba già sconvolta dal vento, ammucchiarla e portarla al riparo nel fienile. I due vecchi riconobbero nelle ombre i loro trapassati, e i genitori e i nonni e gli avi, giunti in aiuto. In brevi minuti l'ultimo fascio fu al sicuro, mentre i soccorritori dileguavano nel nulla. Raccontano ancora che mentre i due vecchi, benedicendo la pietà dei Morti che avevano premiato la loro fede, raggiungevano la chiesa, la bufera si scatenò violenta a distruggere la fienagione degli altri che stavano affannandosi in una fatica non grata a Dio.

La scarsità di prati, dovuta al fatto che gli appezzamenti di buona terra erano coltivati a campo, obbligava a falciare anche il fieno magro di montagna sui pendii dei monti alti, generalmente di proprietà collettiva: il comune, infatti, suddivideva le zone dove si poteva falciare l'erba in lotti che erano distribuiti tra le famiglie.

Quel taglio veniva effettuato tra luglio e agosto. Si andava al bosch sin sotto le crode più alte: lavoro non facile che presentava pericolo per la ripidezza dei pendii. Chinati contro l'erta, una gamba tesa e l'altra piegata in un difficile equilibrio, il falciatore manovrava con la destra la seghezza, con la sinistra sbrancava, ossia raccoglieva il fieno tagliato sino ad avere contro il petto un grosso fascio d'erba che veniva poi legato con una stropia o virgulto di nocciolo ritorto.

Le due settimane dedicate a tagliare "scergnon", così era chiamato il fieno tondo di montagna, erano considerate come un periodo di vacanza. I falciatori lanciavano di tempo in tempo il cigol, grido festoso di saluto e di richiamo, a cui si rispondeva, anche da lontano, da un versante all'altro delle valli.

Molto sovente, specialmente quando gli uomini erano assenti per lavoro artigiano in emigrazione temporanea, il taglio veniva effettuato dalle donne: molte ne vidi su per i pendii di Valcavargna e Morterone, coraggiose e prosperose, un fazzoletto sulla testa, il polpaccio sinistro dalla chiara carnagione celtica, che il sole arrossava ma non abbruniva, uscente muscoloso, e pur femmineo, dalla lunga soca di canapa. Ma lessi anche, sui libri dei morti di quelle parrocchie, molti decessi causati dall'improvviso perder d'equilibrio e dal precipitare giù per i burroni: silenzioso sacrificio più non ricordato dalle generazioni di oggi che di quel duro, vivere hanno raccolto i faticati frutti.

Negli anni di poca erba, si giungeva persino, a marzo e ad aprile, quando più grave era la penuria dì fieno, a tagliare la bulegia, il poco fieno magro rimasto ingiallito e secco sui margini dei boschi. Lo si tritava e se ne faceva una mistura nella panera, sorta di secchio di legno, con un po' di crusca, perche le mucche fossero invogliate a mangiarlo.

Quanta miseria, amici lettori!