...e nella seconda decade di giugno si iniziava a "caricare" le alpi

Centro di documentazione e informazione dell'Ecomuseo delle Grigne

Pietro Pensa, ...e nella seconda decade di giugno si iniziava a "caricare" le alpi in L'Ordine, 23.2.1979.

Non è possibile comprendere il carattere della gente del Lario senza conoscere quel che significò per ogni paese il disporre di vaste estensioni di pascoli e di boschi. Risorsa primordiale sin da tempi preromani, ancora due secoli orsono ogni vicinanza era gelosissima nell'accogliere forestieri nel suo seno concedendo loro di conseguenza i diritti ai beni comuni e lo faceva solo dopo anni e anni di attesa, dietro pagamento di un altissimo scotto, o in denaro o in prestazioni eccezionali. Ancora all'inizio dì questo nostro 1900 erano poi violente le dispute per i confini comunali, persino con i borghi della riviera che pure erano già presi da economie nuove, e in proposito racconteremo più avanti qualche interessante episodio.

La faccenda è che il poter condurre liberamente al pascolo il proprio bestiame e il disporre del legnatico necessario alla famiglia significava l'indipendenza economica, sia pure molto povera: uno, insomma, poteva contare su se stesso senza rispondere a padrone. La fierezza che ne derivò, unita all'abitudine millenaria di gestione collettiva, rese aperta la nostra gente al viver democratico assai prima delle popolazioni di pianura e di città. La dura vita che però ne fu corrispettivo è oggi perduta al ricordo della nostra gioventù; io stesso, mentre no scrivo, ho l'impressione di tuffarmi nell'immaginazione di un quadro,descrittomi da altri, piuttosto che in una realtà tante e tante volte vista coi miei occhi di fanciullo e di giovinetto.

Nel primo decennio di questo secolo vi fu nell'Italia subalpina, un'inchiesta destinata a promuovere miglioramenti alla miserlssima economia delle nostre montagne. Mio padre, che per tutta la sua vita dedicò il suo tempo libero alle nostri valli, fu tra gli entusiasti che cercarono di portare a risultato le provvidenze che il ministero aveva in animo di attuare; durante le estati dal 1912 al 1918, sino al richiamo alle armi, fu cosi instancabile nel batter la montagna dall'una all'altra alpe di qui e di là del lago; io, ragazzetto lo seguivo ed ho di quelle gite del ricordi che potrei definire apocalittici, eccitata come fu la mia fantasia dalla grandiosità dei paesaggi e dalla primitività di vita della gente di lassù. L'anno scorso ripreso da nostalgia, son voluto tornare in molti siti allora visitati. Mi ha afferrato una duplice tristezza: in qualche luogo, in quelli che allora erano giudicati tra i migliori, sono giunte strade carrozzabili e funivie e i tanti pittoresci alpeggi sono stati sostituiti molto sovente da villette estranee all'ambiente; negli altri i sentieri si sono chiusi, invasi dalla vegetazione. I pascoli si sono ristretti assediati da una triste boscaglia; tante volte mi sono perso e mi sono dovuto fare strada tra gli spini, scavalcando alberi strappati nell'inverno dalle slavine. Ho concluso che se brutta diventa la natura quando l'uomo l'avvilisce col cemento, altrettanto spiacevole si fa quando l'abbandona e la lascia alla sua disordinata virulenza.

Soprattutto, però, mi ha reso malinconico la grande solitudine delle valli: ho camminato per ore senza incontrare anima viva, là dove un tempo fervida era la presenza dell'uomo, vuoi che fosse il richiamo di un capraio, o il tintinnio delle mandrie troppo affollate, o il batter su un tronco dell'accetta di un boscaiolo. Se cinquantanni orsono non vi era avert, o macchia di verde tre le pietraie, che sfuggisse alla ricerca dei pastori, oggi solo nelle alpi che, più o meno, si raggiungono con le campagnole e che son dotate di casere e di ricoveri costrutti dal Corpo forestale si ode ancora il campano delle mucche.

Quando penso all'entità del bestiame che si caricava sulle nostre alpi lariane quando ero ragazzetto, e ne ho una nota fatta da mio padre, mi domando come tanti capi potessero trovare erba a sufficienza: 3700 tra le mucche da latte e manzoli nelle tre valli dell'Alto lago di occidente, 4300 in Valsassina e Valvarrone, 1200 in Tremezzina, 700 sul Legnone. Comprendo soltanto ora, da quei numeri, i motivi dell'attività tanto intensa che animava per tre mesi ogni recesso di montagna.

Appena le ultime nevi si andavano sciogliendo, ed era giugno, gli uomini salivano a riparare sentieri: tracce malagevoli, talora ripidissime e ritagliate addirittura nella roccia, le slavine di primavera avevano travolto i ponticelli di tronchi sui valloni e occorreva rifarli per consentire il passaggio del bestiame. Bisognava poi aggiustare le tettoie e sovente anche i muri delle baite e delle casere: raramente queste, infatti, erano costruzionì solide, con pareti a malta e con tetti coperti da coppi o da lamiere; per lo più i muri erano a secco, di una primitività impressionante e le piode non erano affrancate, per cui ogni anno occorreva rimetterle. Senza finestre, le stallette servivano solo al ricovero delle bestie ammalate; poi erano i porticati, molto angusti locali di caseificio.

Persino i barech, o cinta per radunare la sera la mandrie, erano rarissimi, e sì che nell'alto lago soprattutto la gran dovizia di pietrame avrebbe reso facile costruirli, composti come erano da un muretto basso a secco. Si sarebbe evitato in tale modo che durante le bufere, e in estate son facili in montagna, il bestiame corresse impazzito per i pascoli, dando assai da farà ai pastori per evitare che qualche capo precipitasse o s'azzoppasse.

Le alpi venivano caricate generalmente tra il 15 a il 30 di giugno, a seconda dell'altitudine e della stagione. I sistemi di conduzione erano i più svariati e meriterebbero un accurato studio sui documenti, numerosi in ogni tempo, perchè darebbero la misura di come un governo collettivo, a quindi essenzialmente democratico, possa esprimersi e in bene in male, quasi un esempio, in piccolo e in anticipo, di ciò che esaltiamo e di ciò che biasimiamo nella nostra società democratica di oggi. Vi erano i casi in cui, pagando al comune una tassa per ogni capo, o bestiatico, ogni vicino, o nucleo familiare, portava direttamente e liberamente al pascolo il proprio bestiame; in altri un affittuario unico teneva il pascolo conducendovi, insieme alla sua, le mandrie dagli altri, che gli versavano in soccida un tanto per animale, solo se restava eccedenza di pascolo, ed era cosa rara, l'affittuario poteva accogliere bestiame forestiero; di tutti gli animali, comunque, si rendeva responsabile.

Vi erano poi casi in cui la alpi erano tenute da determinati gruppi familiari in cooperativa. I soci si tramandavano il diritto alla partecipazione di padre in figlio; statuti, o list, molto dettagliati precisavano diritti e doveri; veniva nominato un capo alpe e tale nomina doveva essere approvata dal comune. Non che il capo avesse troppe mansioni: gli toccava soprattutto di stabilire l'inizio dell'alpeggio, gli spostamenti del bestiame e badare alla conservazione degli stabili e alla disciplina d'uso. I soci, poi, guardavano separatamente il proprio bestiame, provvedendo in comunione solo alla lavorazione del latte che veniva effettuata nella cesera comunale; a turno, ogni socio riceveva in prestito il latte degli altri, restituendolo poi a turni successivi; per evitare le difficili registrazioni conseguenti, si adoperavano asticelle chiamate moel in quel di Premana, bachitt d'l tacch altrove, sulle quali col falcetto si intaccavano segni corrispondenti all'altezza del liquido nei recipienti, segni che poi si cancellavano o si rifacevano in relazione al reso. Benchè facili le contraffazioni, bisogna riconoscere che la reciproca guardia ed anche l'indiscutibile onestà venuta coi secoli dal vivere insieme rendevano ben rare la contestazioni.

Molto sovente, specialmente la dove i pascoli venivano tenuti in società, ogni famiglia aveva alla base una casine, talora con un po' di terreno attorno, divenuta di proprietà a livello comunale, con forma d'enfiteusi; erano quelle, proprio perché rese praticamente private, le costruzioni più curate e il prato attorno veniva concimato. Alla vita sulle alpi si dedicavano una o più persone in ogni famiglia a seconda dell'entità bestiame. Dove il pascolo non era molto lontano dai maggenghi o dai paesi era dato libero uso ai vicini, non tutto il giorno gli animali venivano curati: se il terreno non era pericoloso bastava guidarli al mattino e raccoglierli verso sera. Le località migliori erano aperte all'uso a data fissata di anno in anno dai Comuni.

La notte precedente l'apertura, i vicini, partivano dalle stalle con le proprie vacche e ciascuno cercava di condurle sul posto migliore, precedendo gli altri; i pascoli erano allora letteralmente affollati e ricordo vivamente l'intensità dello scampanare, di cui nella vita ho più volte provato nostalgia. Dopo pochi giorni di disordinato godimento, la cotica erbosa risultava rasata; ben pochi utenti vi restavano, mentre gli altri portavano il proprio bestiame nei poveri spiazzi tra boschi.

Nei pascoli più vasti e alti, particolarmente in quelli tenuti in società, per due mesi e mezzo vi era invece residenza permanente. Lungo il giorno, uomini e donne, ragazze soprattutto, erano attorno con le bestie, si ritrovavano al tramonto a mangiare insieme presso la casera.

Poi, la sera - son lunghe le sere di montagna e il chiarore indugia a lungo all'orizzonte - dopo il magro pasto tutti si univano a cantare: di quelle scene struggente è il mio ricordo.

Sul Varrone, un parroco che le madri di allora benedicevano, aveva voluto che il comune costruisse in ogni alpe un fabbricato destinato alle ragazze, perchè nessun scandalo accadesse: lo chiamavano casina d'l lecc. Quando le fanciulle vi si ritiravano era tutto un trillar di risa e il capo alpe aveva il suo daffare a impedire, come obbligavano le clausole delle list, che i giovanotti si avvicinassero.

Solamente nel giorni festivi, nel tempo di permanenza sulle alpi, i pastori, tornavano in paese per le funzioni religiose.

Mi trovai con mio padre in una mattina di domenica e vidi giungere dalia strada di Val Fraina le pastorelle, i pighess, una dietro l'altra, vestite con i loro bei costumi, col capo ornato di fiori e di piume; sulle gambe avevano galinei gialli o rossi e portavano le zoccole ferrate, i zocui dai punc, cantavano e il batter dei ferri sull'acciottolato faceva sembrare che giungesse un piccolo esercito.

Altra volta, pure di domenica, ero salito a Morterone con mia padre a trovare uno zio che fu poi santo vescovo di Pescara e che era stato inviato lassù in missione a rimediare certi guai che erano accaduti in parrocchia. Morterone, allora aveva mille abitanti o poco meno, tutti sparsi di qua e di là, sino al pascoli del Pallio, in gruppi di poche baite ciascuno. Suonava il secondo di Messa e vidi uno spettacolo che non scorderò.

Da ognuna di quelle alpi e di quél monti scendevano alla Messa, giù per ripidi sentieri, in fila indiana, gli uomini vestiti della festa, pantaloni di fustagno, camicie di canapa e capel trentin in testa.. Li seguivano le donne, col semplice vestito ingentilito dal velo bianco attorno al collo, pronto ad esser posto in capo entrando nella chiesa.

Gli uomini, per la verità, non sempre eran solerti a scendere alla chiesa quando dimoravano in montagna. Qualche leggenda in proposito era ancora viva cinquant'anni fa. Vi è tra il monte del Palone e il Pizzo della Pieve un grande squarcio, lo Zapel, ai cui fianchi si levano paurose pareti verticali di ben duecento metri; la gran pietraia tutt'attorno, le lingue di neve che durano tutto l'anno rendon paurosi quei luoghi, di una grandiosità che ha pochi paragoni. Quando d'estate il maltempo si avvicina, folate di vento soffiano dal basso e levano un fischio che a raffiche risuona tutt'attorno, Dicon che sia il gemito dei pastori condannati per l'eternità per non avere osservato l'obbligo festivo!