Un tempo i pescatori più in gamba arrivavano da Menaggio e Nobiallo
Pietro Pensa, Un tempo i pescatori più in gamba arrivavano da Menaggio e Nobiallo in "L'Ordine", 25.5.1979.
La pesca era regolamentata ed alle popolazioni rivierasche era consentito di fare uso di fiocine e reti - Ai forestieri, invece restava solo la canna dalla riva - L'agone era considerato il grande re del lago
Un altro mondo, chiuso ai non iniziati: tale appariva un tempo alle genti delle valli il mondo delle acque, dei pescatori. E ne veniva un che di soggezione e di invidia che rendeva più acri le liti di confine, quando quelli del lago sbordavano per raccogliere legna dalle creste dei monti sovrastanti i loro borghi, anche se li giustificavano secolari diritti.
Di contro, i rivieraschi ostentavano una qual loro superbia, quasi fossero una classe privilegiata, condotti a ciò dall'indiscutibile miglior tenore di vita.
Che fossero, poi e questi e quelli, tutta gente di montagna, se ne resero conto quando la prima guerra mondiale li unì nelle trincee dell'Adamello e dell'Ortigara. Si accorsero, allora, di avere la stessa forte tempra e di sentire, quasi nello stesso modo, e monte e lago. Non vi era, infatti, boscaiolo nostro che non si soffermasse un istante, in certi straordinari tramonti, a guardare dall'alto la superficie dell'acqua rosarsi con iridescenze di madreperla tra le già ombrate catene che la racchiudono o barcaiolo che, rientrando a riva in quell'ora non alzasse lo sguardo, mentre il corpo gli si sollevava nell'ampio gesto della remata, ad ammirare o il Legnone o la Grigna o il Cardinello o il San Primo innevati arrossarsi dell'ultimo sole. Elementi, ambedue, e monte e lago, che sono nel sangue di noi, gente del Lario, e che ora, nel benessere che si è diffuso un po' ovunque, affratellano i nostri bambini, vuoi che essi salgano dei borghi rivieraschi a partecipare d'inverno ai giochi della gioventù sulla neve, vuoi che dai villaggi più alti scendano a bagnarsi nel lago.
Ho cercato sempre, pur essendo essenzialmente montanaro, di comprendere lo spirito che ispirava i rapporti tra uomo e acqua e tra uomo e uomo nel mondo complesso e pur semplice dei pescatori del Lario. I miei vecchi sin dall'inizio del secolo scorso, ebbero casa anche a Varenna ed io potei perciò, da bambino, avvicinarmi a loro; la dimestichezza, poi, per via della madre, con Como e con Menaggio mi permise di rendere più ampia la mia visione. Quel tanto di soggezione che mi restò sempre, però, dal mio maggior sangue di montanaro, mi consentirà una analisi più meditata.
Negli anni passati sono andato raccogliendo documenti di ogni tempo sulla pesca; è sempre stata la mia intenzione infatti, di stendere una storia di tale importantissima attività della nostra gente; non so, purtroppo, se me ne resterà il tempo. Dal sommario esame che ne ho già condotto ho potuto rendermi conto di una mentalità che, sempre immutata attraverso i secoli, riconduce agli stessi concetti che regolarono sin da tempi preromani la conduzione dei pascoli e dei boschi di cui ho già scritto. Bene comune come quelli, l'acqua dunque! Ma se, per chiari motivi di convenienza, i dominatori che si susseguirono, Romani, re barbarici e imperatori, non toccarono mai i possessi silvo-pastorali la cui gestione sarebbe stata quanto mai complessa, incamerarono invece sovente i diritti di pesca, assai più facili al possesso, per distribuirli a beneficiari. Dal che tutta una serie di concessioni a signori feudali, a vescovi e a monasteri, dei cui legami ancor oggi rimangono tante eredità. Contro l'arbitrio regio ci fu sempre l'irriducibile opposizione dei locali, che mai si adattarono passivamente a quella che consideravano una inaccettabile prepotenza. Ne è prova la dieta di Costanza che, segnando la vittoria dei liberi comuni sul Barbarossa, riconobbe ai sudditi il diritto sulle acque. Gli Statuti dei nostri borghi a lago ripresero cosi le consuetudini preromane, tramandandocene la conoscenza. Proprio quelle consuetudini, anche se superate poi dalle leggi degli stati moderni, e austriaco e italiano, erano, in tacito accordo, osservate ancora sino alla prima guerra mondiale; non solo, ma quando molte famiglie rivierasche, ormai da tempo staccate dalla gestione della pesca perché rivolte, o in luogo o altrove, ad altre più proficue attività, tornarono negli anni del secondo conflitto mondiale al luogo nativo, gli altri, i rimasti, ridiedero loro il posto e il diritto che era appartenuto alle precedenti generazioni.
Se poi le leggi vigenti si distaccavano dalle norme delle millenarie consuetudini, i pescatori non si sentivano moralmente obbligati ad osservarle: cercavano di eluderle per non averne danno, ma quando incappavano in un'ammenda cercavano solo di minimizzarne il peso finanziario senza per nulla sentirsene colpevoli. Assistetti più di una volta a casi come questo: per aver pescato in tempo non concesso dai regolamenti ufficiali, due o tre pescatori, sorpresi dai guardapesca, erano stati colpiti da multa, trasformabile, nel caso in cui non fosse stata versata, in un adeguato periodo di detenzione. I colpiti si consultavano tra loro: se non avevano particolari impegni, preferivano scegliere la seconda soluzione e, facendosi buona compagnia col gioco delle carte, sotto l'indulgente controllo dei custodi, trascorrevano i loro quindici giorni di prigione nelle carceri mandamentali.
Gli Statuti, dunque, stabilivano che le acque fossero possesso della comunità della riva sino a metà lago. I vicini, ossia la gente del luogo, avevano diritto di pescare con la frosna o fiocina, con la molagna di seta ed anche con modesti tremagg, reti piccole. Le grandi reti erano concesse solo ai «padroni del lago», così chiamati coloro che nel pubblico incanto avevano fatto la maggior offerta. Ai forestieri era praticamente permesso di pescare solamente da fermo con la canna. Come si vede, tali prescrizioni si ispiravano agli stessi principi adottati per i boschi, focolari ai vicini, comunali ad affittuari, con il permesso ai forestieri di raccogliere solo la legna vecchia dispersa.
Dei «padroni del lago», i più forti pescatori erano un tempo quelli di Spurano, di Menaggio e Nobiallo, di Domaso dove a primavera l'Adda portava l'acqua «bianca» ricca di microfauna che attirava i pesci, poi di Bellano di Varenna e di Bellagio.
E vi erano vere dinastie di professionisti che si tramandavano il mestiere da padre a figlio. Dei Vitali di Bellano ricordo un mio soldato, ai tempi dell'affare Dolfüss, che su per il corso alto dell'Adige mi strabiliava per l'abilità con cui catturava trote salmonate.
Se un tempo all'incanto del lago di questo e di quel borgo tutti potevano liberamente accedere, a presentarsi erano poi sempre le stesse famiglie tradizionali, in quanto possedevano le grandi reti, vero e proprio patrimonio.
Rammento di essere uscito più di una volta la notte con loro, e davvero il fascino non era da meno di quello che attraeva nelle analoghe spedizioni con i pescatori di mare. Anzi, se in queste ultime ti dava una certa tranquillità la grande e relativamente comoda barca, in quelle il dondolio dei navolt che, pur stabili col loro fondo piatto, sentivano il mutare dell'onda, ti teneva costantemente in tensione e ti faceva apparire più complesse le manovre di pesca. E seguivi gli uomini calare in acqua le grandi reti da strascico, o il linàa con le due lunghe ali tenute verticali da galleggianti e da sassi, col sacco mediano teso a formar semicerchio da otri di pelle gonfiate, o la reciara, o il redeghè o l'acquee fatto a catino, oppure disporre, per la pesca notturna vagante delle trote e dei cavedani, l'oltan, l'oltanet e l'oltanon. Poi, mentre le ore trascorrevano nell'attesa e tu ponevi domande, ti stupiva la profonda conoscenza della vita e delle abitudini dei pesci, trasmessa da generazione a generazione nel diuturno esercizio dell'Arte. Ti insegnavano che da gennaio a tutto marzo si prendevano i lavarelli, ma anche i lucci che venivano a predare quelli quando si avvicinava la fregola; poi ti dicevano che, finita la fregola d'aprile, i lavarelli andavano scomparendo ma che, in compenso, si pescavano i cavedani, e poi i persici e, a maggio, le tinche; sempre, poi, si finiva col parlare dell'agone, il grande re del lago. E ancora ti spiegavano dove era più facile trovare questo o quel pesce, dove non si poteva accedere per le antiche concessioni rinnovatesi dal medioevo in poi, vuoi che fosse il lago degli Stoppani e dei Grandi tra Menaggio e Tremezzina, o il lago degli Andreani a Corenno e a Dervio, o degli Scanagatta attorno a Varenna. Ed io domandavo se i pescatori si rispettavano tra loro o se accadevano dispute; ne ritraevo l'impressione che un codice d'onore antichissimo se pur non scritto, governasse ogni azione: mai sentii raccontare di liti. Solo talora, ma raramente, mi dicevano, qualche pescatore minore, specialmente se in parecchi nella notte stavano sul lago, per balordaggine provocava un groviglio; ci si dava da fare, allora, ad uscirne, senza recriminare al momento; poi, il giorno dopo, all'osteria, il malcapitato doveva render conto della sua malefatta e veniva insolentito e beffato.