Un fiume, le sue case

Centro di documentazione e informazione dell'Ecomuseo delle Grigne

Articolo di Pietro Pensa in Broletto, n. 9 (1987), pp. 42-61.


L'arte del costruire, pur bene espressa lungo tutto il corso dell'Adda, fu tuttavia precipua della gente del Lario: per giustificare tale affermazione basta proporre la secolare attività dei maestri antelami e comacini celebri in tutta l'Europa, ma per renderla evidente a livello più umile vale ricordare un proverbio comune nelle valli lariane: «pùtost un burnal musc a cà sua che una mica a cà di oltri», ossia « meglio una focaccetta di crusca in casa sua che una mica bianca in casa di altri». Lo spirito di indipendenza che ispirò quel detto condusse infatti al desiderare una dimora propria, il che si concretizzò in quella dilatazione degli abitati posta in evidenza nel passato dalla sproporzione tra il numero degli abitanti e la consistenza di ogni villaggio, nonché nella presenza di numerose abitazioni stagionali nei maggenghi montani. Straordinario, comunque, è il variare delle dimore lungo il corso del fiume. A determinare il tipo delle abitazioni ebbero importanza, infatti, accanto all'utilizzo del materiale disponibile in posto, il clima, l'esposizione del luogo, l'attività praticata, le forme sociali in atto. Non pochi agglomerati urbanistici, poi, rivelano l'importanza viaria o mercantile, nonché le funzioni religiose e strategiche che essi ebbero nel corso della storia per le comunità in cui si trovavano. Presenti anche, infine, a condizionare le forme architettoniche delle dimore furono gli influssi delle regioni confinanti, italiane e anche europee.

I materiali da costruzione e la tecnica del loro utilizzo

La varietà di altitudine, di tipi di roccia e di vegetazione lungo il corso dell'Adda e dei suoi affluenti è cosi grande che l'uomo si trovò a disporre di tanti elementi per la costruzione delle dimore; fantasia ed esperienza lo portarono a una straordinaria elaborazione del tessuto abitativo.

Il legno

Furono utilizzati ovunque per le strutture portanti dei tetti sia il larice e l'abete nell'alta montagna che il castagno alle elevazioni inferiori. Sempre le conifere, poi, diedero materiale per le pareti delle dimore nel Chiavennasco, nel Bormiese e nelle alte vallate della Valtellina. Mentre a Livigno le costruzioni venivano fatte tutte in legno, altrove, là dove dimore e locali rurali erano addossati ai pendii, il basamento, per lo più seminterrato, era in muratura e sopportava la parte superiore di legno. Questa veniva costruita soprattutto con la tecnica del blockbau, diffusa ovunque nelle Alpi e detta localmente a carcfen. I tronchi, quasi sempre di larice, legno ben adatto a sopportare l'umidità, venivano per le abitazioni squadrati accuratamente allo scopo di ridurre gli interstizi. Mentre nelle dimore i piccoli spazi inevitabili fra tronco e tronco venivano tappati con scaglie di legno e con muschio, e non rari erano i casi, specialmente nei siti alti e ventosi, in cui si foderavano le pareti a carden con assi e si metteva crusca fra tronchi e assi, nei fienili i tronchi erano lasciati tondeggianti per ottenere attraverso gli intervalli una aerazione atta ad evitare la fermentazione del fieno. A circa 25 cm dall'estremità si praticavano da ambo i lati in ogni tronco gli intagli superiore e inferiore in cui penetrava sino al nocciolo l'analogo tronco ortogonale. Sovente dalle pareti sporgevano le parti terminali delle travi dei solai e di grosse pareti interne. Quando le pareti, l'anteriore e la posteriore soprattutto, erano molto lunghe, per evitare movimenti del legname venivano utilizzate delle chiavi, pezzi di legno inseriti in posizione centrale, sporgenti, sempre ad incastro, sia all'interno che all'esterno, per un tratto, in un foro del quale veniva inserito un montante verticale che tratteneva i rigonfiamenti. Sia abbinata in Valtellina alle costruzioni a carden, sia utilizzata talora, ma raramente, negli alpeggi delle vallate del lago, è la tecnica a montanti, che, con funzione di guida, racchiudevano agli estremi le travi oppure tavole di chiusura. Non infrequenti erano i casi di rivestimento delle pareti esterne di tronchi a carden o a montanti con scandole di larice messe verticalmente con tecnica simile a quella usata per i tetti; altrettanto tipico era il rivestimento con muratura per proteggere il legno dalle intemperie. In legno furono sempre costruite le intelaiature dei tetti, come già accennato, realizzate con una tecnica a poche varianti: al colmo, il sostegno era dato dalla colmegna, grosso tronco lasciato tondeggiante che appoggiava agli estremi su due pareti opposte, i timpani; parallele alla colmegna erano le radici dormenti, tronchi più piccoli squadrati, poggianti per tutta la lunghezza sulle altre due pareti, frontale e posteriore, e le terzere, appoggiate agli e-stremi come le colmegne sui timpani; a cavallo della colmegna, inclinate secondo le falde del tetto, erano poste, appoggiate alle terzere e alle radici, coppie di travetti squadrati, i cantir, (nome dialettale derivato dal latino canther), destinate a formare l'intelaiatura minore di sopporto del tetto e che sporgevano a formare la gronda, unite da una trave di collegamento quando la gronda era molto sporgente per coprire il ballatoio, i cui montanti sostenevano la trave stessa. Comune, soprattutto negli alpeggi elevati e nelle dimore con tetti pesanti di pietra, per ovviare alle spinte dovute alla presenza di neve alta e al peso del tetto, era il collegare con travi orizzontali le radici, realizzando, quando l'edificio era lungo, vere e proprie capriate con un puntone al centro, il monaco, destinato a sorreggere la colmegna in punti intermedi. Generalmente si assicuravano tra loro le varie parti della travatura con chiodi, più o meno lunghi e grossi, fucinati nel cappello e appuntiti all'estremo, curando tuttavia che le travi potessero muoversi col variare delle temperature. Mentre nei tetti normali si inchiodava sotto i cantir una foderatura di assette destinata all'appoggio della copertura, nei tetti di paglia trasversalmente ai cantir correvano tondi di maggiociondolo, perteghete de eghen, impedite a scivolare da cunei, o cavicc, piantati in fori conici dei cantir; in tali tetti non comparivano mai chiodi, ma le parti della travatura erano legate da stroppi di nocciolo contorto; il che mostra che quel tipo di tetto, ora ritrovabile solo in pochissime località montane del Lario, derivava dalla tecnica palafitticola che non conosceva metalli, e quindi il chiodo. Le solette che dividono i piani, fungendo da soffitto a quello inferiore e da pavimento al superiore, erano nel passato di legno, sopportate da travi che anticamente sporgevano dalle pareti esterne, affrancate alle stesse con un cuneo di legno. Nelle case signorili tali travi erano ben squadrate e l'assito sopportato era regolare; divenne comune nel 1700 sovrapporgli un pavimento di quadrelli di laterizio; non pochi erano i casi di rivestimento in legno dei soffitti, poi sostituito dall'applicazione di cannette intonacate, non raramente con decorazioni. Il legno veniva utilizzato anche per le architravi delle porte e delle finestre; comune era all'esterno u-n'architrave in pietra a cui si affiancava altra in legno per completare lo spessore del muro: Di legno erano pure gli stipiti negli edifici a pareti di legno, mentre in quelli di muratura architrave e piedritti erano di pietra, formando finestre trilitiche, il cui davanzale, piastra di pietra sporgente, appoggiava sul muro sottostante. La dimensione delle finestre variò molto nei secoli, determinata da ragioni climatiche e di sicurezza e da credenze magiche: intelaiature con leggera pergamena e con carta stamnia, poi con vetri, ante interne ed estèrne, pure di legno, doppie o semplici, consentivano la chiusura delle finestre. Le porte, sempre di legno, erano assai sobrie, o massicce o a cassettoni, a semplice o a doppia anta, con chiusure a catenaccio. Il ballatoio, elemento molto appariscente nelle dimore rurali, servendo per disimpegno delle camere retrostanti e per esposizione dei prodotti agricoli da seccare, era costruito in legno, poggiava su mensole di legno infisse nella parete; vi si accedeva o con scala esterna, per lo più di legno, o con scala interna di pietra.

La pietra

Veniva impiegata per i muri, per gradini di scale, per gli stipiti delle apertura e per le coperture dei tetti. In tale campo diverso fu il suo utilizzo tra le zone valtellinesi e dell'alto Lario, dove le rocce sono di serizzo, di gneiss, di granito, di cristallino metamorfico, con notevole presenza di beole, e il territorio del Lario centro-meridionale, della Brianza collinare e delle prealpi bergamasche, dove le montagne sono costu-tuite da calcare e da dolomia. Mentre al settentrione, dove prevalgono le rocce ignee, la penuria di legante con calce, soprattutto nei recessi vallivi dove il trasporto era costoso, si affermò la tendenza al muro a secco, facilitato d'altra parte dalla disponibilità di pietre di per sé squadrate e più facilmente lavorabili, al meridione la ridotta presenza di corsi di calcare da cui trarre pietre ben parallelepipede spinse all'impiego di borianti di torrente, di alluvione e di morena, che la diffusione di calchere per calce permetteva di legare bene con malta. Se al settentrione, poi, era facile provvedere piode abbastanza sottili, ottenute a spacco da rocce scistose per la copertura dei tetti, al meridione l'impiego di piastre spesse e pesanti di calcare costringeva a intelaiature dei tetti massicce, per cui si dovette ricorrere ad altre soluzioni; per stipiti e architravi di porte e di finestre, e per scalini, tanto al settentrione che al meridione vennero impiegate serizzo e granito, là perché forniti dalla montagna, qui perché ricavabili dai massi erratici depositati dal ghiacciaio abduano. Un altro discorso, infine, va fatto per la pianura percorsa dall'Adda, dove, dopo un'iniziale costruzione di muri con pietrame ricavato da scavi nel terreno alluvionale e morenico e da argilla, con tetti di canne e di paglia, si passò ad integrare la poca pietra disponibile lungo i corsi d'acqua con un diffuso impiego del laterizio consentito dai frequenti banchi di argilla di origine glaciale. Premesso quanto sopra, è da osservarsi che il muro a secco chiedeva spessori notevoli, non inferiori a mezzo metro, per ottenere buona solidità ed evitare rigonfiamenti. Le pietre di angolo erano generalmente più grandi delle altre, con il lato lungo o su una parete o sull'altra adiacente. Negli alpeggi molto elevati fu sempre abitudine, e lo è tuttora, di costruire ricoveri provvisori con grossolana muratura a secco e copertura di pietre, oggi sostituita da lamiere, abbandonandoli alle intemperie nella stagione invernale e ricostruendoli nella seguente tarda primavera. Analoghi recinti provvisori, i «calecc», servivano per la cagliatura in posto del latte per formaggi grassi, e venivano improvvisati, ricoprendoli con tendone e con lamiera, spostandosi su vasti pascoli al seguito del bestiame. Anche nel settentrione con il passare dei secoli andò affermandosi il muro legato con malta e nel 1800 si introdusse la intonacatura esterna completa, che prima denotava la ricercatezza delle classi benestanti. L'impiego della pietra nel muro legato fu tuttavia in ogni tempo precipua dei territori montani calcarei, sia perché la calce veniva prodotta anche nelle vallate più interne grazie alla grande presenza di carbonato di calce adatto e di legname da ardete, sia perché i borianti, tondeggianti e senza spigolo chiedevano, nell'erezione dei muri, un letto più o meno spesso di malta. Irregolari, perché i borianti e le pietre raccolte nella pulizia dei prati avevano le più disparate dimensioni, i corsi di pietrame venivano a tratti raddrizzati con uno di pietre accuratamente squadrate e non pochi erano i muri costruiti in corsi di ciottoli a lisca di pesce, alternati in un senso e nel senso opposto, non di rado intervallati da corsi squadrati, secondo la tecnica detta del «muro alla bergamasca». Un tempo, per guadagnare spazio, i muri interni divisori eran costruiti con tralicci di rami di castagno o di ciliegio, rivestiti di malta.

Il laterizio

Pure praticata l'attività della ceramica per recipienti con la cottura delle argille in fornace sino dalla più lontana preistoria, pur conosciute le tegule di laterizio durante la romanità e impiegate nelle sepolture tombali, il ricoprimento dei tetti con coppi troncoconici, che avrebbe egregiamente risolto i gravi problemi connessi con l'uso della pietra, del legno e della paglia, si propose solamente nel basso Medioevo, forse ritardato dal costo del laterizio, accessibile solo alle categorie più abbienti. Con il coppo, prima per i pavimenti delle chiese, poi per il ricoprimento degli assiti delle dimore, prese nel 1300 a diffondersi anche la mattonella, possibilmente variegata. E mattonelle piene furono anche impiegate per la costruzione di muri nella bassa Brianza e nella pianura lombarda attraversata dall'Adda.

Le canne e la paglia

Sia le une che l'altra, questa di segale, servivano inizialmente alla copertura dei tetti delle dimore di pianura con inclinazione modesta, di quelle di montagna con inclinazione molto accentuata. Ne andò scomparendo l'impiego, sconsigliato dal pericolo di incendi e dalle difficoltà di tenuta all'acqua piovana, con l'affermarsi dell'uso del coppo, prima adottato dalle famiglie più abbienti e dai proprietari di latifondo, poi via via da una più vasta clientela.

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