Si andava in Grigna in una grotta a spaccare ghiaccio per i milanesi
Articolo pubblicato da Pietro Pensa in L'Ordine, 20.7.1979
A 1700 metri di altitudine questa spelonca, un tempo famosissima, d'estate si copriva di cristalli gelati che richiamavano turisti meravigliati e montanari in cerca di un sistema per sbarcare il lunario — La strana filosofia degli operatori turistici d'inizio secolo: «Se i forestee vòren insci, ben; se vòren minga, ch'a i ne vaga!»
Non si può chiudere una sia pur breve rassegna sulle attività della nostra gente a cavallo tra i due secoli senza ricordare il già fiorente turismo che, grazie agli stranieri, andava dando un volto nuovo ai borghi più belli della riva, e a Bellagio e a Menaggio e alla Tremezzina. Mi guarderei però, dal porre quelle nuove forme di economia nel folclore lariano. E spiego perchè.
Quando io ero giovinetto, voglio dire subito dopo la prima guerra mondiale, il mio paese, che, importante e ricco sino al Medioevo, era andato a poco a poco decadendo ad una economia totale di pastori e di boscaioli, stava facendo i primi passi verso il turismo, che ne avrebbe segnato, soprattutto dopo la seconda guerra, lo straordinario sviluppo. Ebbene, mio padre, che tenne per trent'anni l'amministrazione del comune, dovette fare una gran fatica per avviare la popolazione a una mentalità turistica: una mentalità che appariva servile e che suscitava reazione nell'innata fierezza di noi montanari. Quando lui suggeriva la cortesia verso i forestieri e soprattutto quando si inquietava per qualche incidente avvenuto con gli stessi, quelli gli rispondevano: «Se vòren insci, ben; se vòren minga, ch'a i ne vaga!».
Io stesso negli anni in cui fui sindaco feci, se pur attenuata, un'analoga esperienza. Intemperanze, purtroppo, non sono rare neppure oggi e spingono sovente i villeggianti novelli a confrontare la nostra ospitalità con quella dell'Alto Adige, a nostro sfavore, naturalmente. Dopo il primo impatto, per fortuna, l'animo buono della nostra gente affiora dalla scorza di rudezza e così ogni paese ha tanti affezionati amici che tornano per anni ed anni a trascorrere nello stesso luogo le vacanze.
Poco, comunque incise sempre il turismo sulla mentalità nostra. Né nel folclore lariano si possono certamente inserire quelle manifestazioni, vuoi una regata in Alto lago, vuoi una festa dei fiori a Menaggio, organizzate per divertire il forestiero e non certo per far rivivere tradizioni che mai ci furono.
Solo luoghi come la Tremezzina o come Bellagio, e, in parte, Menaggio, andarono progressivamente mutando e già ai tempi della prima guerra mondiale la loro mentalità era notevolmente staccata da quella degli altri paesi, particolarmente delle valli. Qui, solamente le località più accessibili avvertivano lo svilupparsi del turismo, e Barzio in Valsassina, e l'alta Valassina, e Lanzo e Val d'Intelvi. Le altre ne risentivano solo indirettamente, per attività del tutto marginali, che, pure, rappresentavano un piccolo sollievo alla diffusa loro miseria.
Invero, era straordinario constatare quanto sottile fosse lo spirito di inventiva dei nostri montanari per trarre essi pure, da giugno a ottobre, qualche guadagno dai forestiero. Vedevi le donne scendere a riva, sul far del giorno, con uova e burro nel profondo del gerlo, sopra un po' di foglie verdi e sopra ancora, di traverso, due fascine; talora, poi, tenuto in bilico tra mano e braccio, un assetto con maleodoranti formaggini di capra. Pochi soldi da un albergo della riva o da qualche incettatore diretto alle città, poi di nuovo, e questa volta sotto il sole, la strada pel ritorno.
Eccezionali, in proposito, erano le donne di Brumano. Pochi sanno, certamente, che quel paesello posto nella Valimagna bergamasca fu sino all'inizio di questo secolo per strane e complesse ragioni storiche, nell'orbita del Lario, facendo parte della Comunità di Lecco. Di ben povera economia, le sue donne erano assai abili nell'allevare ottimi polli. Una volta per settimana, le poverette, del resto belle donne e prosperose, caricavano all'inverosimile il loro gerlo di galline, di burro e di uova e in gruppi di alcune decine, e giovani e mature, partivano a notte dal paese per giungere al mattino sul mercato di Lecco a vendere la loro merce. Pensate che il sentiero, assai malagevole, valica in sali-scendi ben tre passi montani tra i 1100 e i 1300 m di altitudine per condurre, con un percorso di sei ore di gamba buona, dai 900 m. di Brumano ai 200 di Lecco.
La sera dei sabato, dopo il mercato, le donne dormivano in fienili sopra Acquate, che lasciavano ancor a notte per giungere ad assistere alla messa grande della loro chiesa, rassettate ed in abito da festa. Oggi a Brumano, dimentica dell'antica comunione col Lario, divenuto affatto bergamasco, trovi come ovunque delle belle signorinette, messe alla contadina, divenute ignare del costume delle loro bisnonne, vivo ancora nei primi tempi fra le due guerre.
Già ho scritto delle altre donne che portavan pesce a Como in grossi canestri. E non voglio scordare le forti Cavargnone che scendevano al lago coi gerli carichi di funghi, o le donne di Valvarrone che, eludendo ogni controllo, vendevano l'uccellagione presa con gli archetti da figli e mariti, o, infine, le ragazze che giungevano con cestelli di ampul o lamponi, e di gioden, o mirtilli, le mani e le braccia graffiati dai rovi.
A qualche altra del tutto eccezionale attività voglio ancora accennare, a riprova della nostra inesausta fantasia.
Sulla Grigna di Moncodeno, a 1700 m. di elevazione, si apre una gigantesca spelonca che, per un particolare fenomeno fisico, si copre nei mesi estivi completamente di ghiaccio: l'aspetto è quello di una immensa sala tappezzata ed addobbata di cristallo purissimo, con la volta sorretta da enormi colonne. Un tempo, salivan sin lassù ad ammirare il fenomeno, oggi pressoché da tutti sconosciuto, visitatori illustri, tra i quali non mancò Leonardo da Vinci. I montanari spaccavano quel ghiaccio e lo trasportavano, isolato da foglie secche, in sacchi, sino a Varenna, dove veniva caricato sulla ferrovia, a destinazione di Milano. Altra analoga straordinaria presenza è quella di un nevaio perenne in Valorga, a neppure 800 metri di elevazione, ai piedi dell'altissima parete del Legnone. Ivi, da diversi valloni slavina la neve all'inizio della primavera, comprimendosi fortemente in un burrone così da mantenersi anche in piena estate. In sacchi trasportati a spalla, e più tardi con una fune ad argano, la neve giungeva sino alla ferrovia, sempre a destinazione di Milano e di Como. Tanto la miseria stimolava l'inventiva.
Ma ancora una ne voglio raccontare: riguarda poca gente ma è pur sempre significativa; Antonio Stoppani nel secolo scorso rese celebre il Lario per i suoi fossili in tutto il mondo. Altri naturalisti ne illustrarono le forme endemiche biologiche, chiocciole ed insetti. Avvenne che i nostri rudi montanari si trasformarono in ricercatori, si specializzarono a riconoscere le conchiglie dei vari periodi geologi e avviarono con musei di tutto il mondo un piccolo fiorente commercio che era ancor vivo nel primo anteguerra.
Purtroppo, tanta tenace volontà di trarre dal nostro suolo avaro di che sostentarsi urtava contro l'innarrestabile aumento demografico. Ed ecco, allora, il triste capitolo dell'emigrazione. Fenomeno assai antico; se ne hanno notizie documentarie sin dal basso Medioevo.
Già dicemmo dei fucinatori e dei lavoratori del ferro, di cui con grida il ducato di Milano più di una volta vietò addirittura l'espatrio. Già accennammo ai boscaioli e ai carbonari, abilissimi, che venivano chiamati da paesi lontani. Scrivemmo dei Moncecchi dell'Alto lago, i cui rapporti con la Sicilia durano da secoli. Né vanno scordati i magnani di Valcavargna e di Valcolla, ritrovabili un po' ovunque in Italia, di cui ancora parleremo.
Ho, fra le mie carte, fasci di atti notarili, dal 1300 in poi, di gente del nostro lago che portava i commerci in Toscana, a Venezia, a Roma e a Napoli. Non rari, poi, i rapporti con la Spagna e con l'Austria. Varrebbe davvero la pena di scrivere una storia sull'argomento. Un capitolo a sé dovrebbe esser dedicato, naturalmente, ai nostri celebri maestri comacini. Più modesti, furono loro eredi i bravi muratori di fine 1800 e del primo 1900 che passavano la stagione in Svizzera e in Francia e che, appena le infrastrutture lo permisero, trasformarono i nostri paesi nelle accoglienti stazioni turistiche di oggi.
Grande tristezza viene, invece, a ricordare le emigrazioni verso le Americhe. Io ebbi il tempo di assistere alle partenze del secondo grande flusso, quello dei primi due decenni di questo secolo. Potrei raccontare tanti e tanti episodi: di uomini che andavano così, alla ventura, e che non diedero più notizie, di intere famiglie che, chiamate da parenti precedentemente emigrati, ebbero fortuna. Si può dire che ogni paese aveva la sua terra preferita in America: il Cile quelli di Val Menaggio, l'Argentina e la California le vallate orientali, e cosi via.
Qualcuno, pochi, tornarono. Tutti mantennero, e a lungo, la nostalgia del loro lago e dei loro monti. Quando potevano, mandavano soldi per qualche opera: per una cappella che servisse da rifugio nel maltempo a chi lavorava nei boschi dove loro stessi avevano penato; per costruire un ponte là dove un torrente in piena aveva loro impedito più di una volta il passaggio. Commovente, umile grande gente del Lario, che oggi finalmente in America si gloria apertamente di essere originaria dell'Italia, anche se ha scordato la nostra lingua, anche se sa che noi, rimasti qui, consumiamo tanta energia e tante possibilità in vane lotte di supremazia e di egoismo.