Se il parroco non si dava da fare ci si sposava solo fra compaesani
Pietro Pensa, Se il parroco non si dava da fare ci si sposava solo fra compaesani in L'Ordine, 29.12.1978.
II matrimonio rappresentò sempre la tappa più importante della vita; con quell'atto si formava una nuova famiglia e ad accentuare tale significato stava il distacco frequente, soprattutto dei figli cadetti, dalla conduzione paterna. Il più delle volte gli sposi rimanevano nella stessa casa, ma facevano cucina e stanza a sé. Già abbiamo scritto, e ritorneremo sull'argomento, che il fuoco portava il diritto a una quota dei beni comuni.
Le unioni avvenivano quasi sempre nell'ambito delio stesso villaggio e delle sue frazioni. I pochi contatti tra paese e paese, soprattutto nei tempi di vita autarchica da metà 1800 ai primi lustri del 1900, ne erano la ragione principale; giocava però molto l'accentuato campanilismo e, particolarmente nei secoli passati, la preoccupazione che forestieri venissero a intromettersi nella povera economia locale.
Dalle accurate ricerche statistiche da me condotte ho potuto accertare che matrimoni fra sposi di località staccate si verificavano quasi esclusivamente nelle famiglie abbienti. Eccezioni, però, vi erano ed anche notevoli: accadeva che sacerdoti intraprendenti, soprattutto sa parroci di villaggi sperduti, combinassero unioni tra giovani della loro cura e ragazze del paese di origine, o viceversa; oppure che si accordassero nell'essere pronubi con parroci amici. Casi del genere furono frequenti sino a non molto addietro, e ne potrei citare; erano però consueti anche nel passato, e basti un esempio: attorno alla metà del 1500 vi furono, in uno sperduto paese della nostra montagna numerosi matrimoni con uomini e donne d'Aosta; cercatone, il motivo, poco comprensibile a prima vista, trovai che un parroco di quel paese era diventato canonico di Aosta e che aveva dato l'avvio a quel fiorire di sponsali.
Consuetudine assai diffusa, ancor viva quando io ero giovanissimo: se un forestiero sposava una ragazza di un paese, doveva versare un risarcimento ai coscritti della sposa, o in natura o in danaro; spesso poi, naturalmente, in una buona mangiata.
L'indennizzo veniva chiamato onoranza.
La scelta della sposa avveniva quasi sempre a livello dei giovani; solo nelle casate con un po' più di terra al sole intervenivano i parenti a combinare e si verificavano allora i matrimoni tra villaggi lontani.
Né è da dire, del resto che i giovani non fossero avveduti: la preferenza era sempre, data alle figliole di buona salute e di razza lavoratrice; le cagionevoli e quelle troppe farfalline finivano col restare zitelle.
Il periodo di fidanzamento era piuttosto breve: entro pochi mesi il ciclo veniva concluso, anche perchè il tempo degli sposalizi cadeva per lo più di Carnevale o subito dopo Pasqua, prima che cominciassero i lavori della campagna.
Nei mesi che precedevano il grande avvenimento, in famiglia le donne si dedicavano a preparar la schirpa per la sposa, ed anche le amiche partecipavano sovente alla fatica, soprattutto aiutando nella tessitura. Schirpa, nel dialetto lariano, significa «dote» ed è un nome tolto dalla parlata longobarda.
Interessante è leggere gli atti dotali, stesi dal notaio, in uso fino al 1800 nelle famiglie più abbienti.
Nel documento venivano elencati i minimi particolari del corredo della sposa, indicando accanto a ciascuno, il valore in denaro, valutato dagli estimatori, esperti nominati dalle due famiglie; nulla veniva scordato, neppure un fazzoletto usato: tanta era la povertà e quindi l'importanza di ogni oggetto.
Ad aprire la lista era la bisache, o materasso, immancabile: a terminarla era la cassa, generalmente di noce. Erano poi annotate le pezze di tela in braccia di lunghezza, gli indumenti, gli abiti. Questi ultimi erano descritti nel tipo di stoffa, fosse mezzalana o filusella o canapa, nel colore e nella fattura. Per cifra risultavano quando vi erano, le scarpe; rari gli ornamenti, vuoi due fili di corallo o una croce d'argento, e, per lo più non valorizzati perché «dono del padre». Molto interessante, comunque, la descrizione del corredo, il cui ammontare si aggirava attorno alle 300 lire, perché consente di nei nomi e nell'impiego il vestire delle donne. E di ciò scriveremo in seguito.
Al corredo era sempre aggiunto altro: pignatte per lo più, ma anche attrezzi da lavoro: una falce, un mortaio, una catena da fuoco; trovai una volta "una marsina da uomo usata per lo sposo"!. Molto difficile che ai beni mobili si aggiungessero un appezzamento di terreno: in ogni caso, solo se lo sposo era dello stesso villaggio o se la sposa era figlia unica.
Complessivamente, la schirpa, per le ragazze di famiglia abbiente di paese ammontava a un valore variante dalle 400 alle 800 lire, che vorrei paragonare, pur con le difficoltà del confronto a una cifra dai due ai quattro milioni di oggi.
Altra faccenda era per la gente con poco al sole: nessun atto notarile allora! E, pure, l'abito da nozze, che descriveremo più avanti; tutte dovevano averlo, anche le più povere. E le amiche si davano gran da fare ad essere d'aiuto, cossicchè le sposine erano sempre da guardarsi quando andavano all'altare.
Qualche braccia di tela de cà e la bisache, materasso, emblema del matrimonio, non mancavano, poi, a nessuna.
Quando la dote veniva stabilita con rogito la sposa pronunciava la rinunzia all'eredita paterna e il notaio ne stendeva l'atto. Allorché entrò in vigore la legge italiana (e sino all'inizio di questo secolo), tali consuetudini, anche se non più d'obbligo, vennero rispettate; così come la dote, anche nelle sue piccolezze, non venne mai toccata se non per volontà della donna, come era prescritto in tutti gli antichi statuti comunali.
Non mi risulta che particolari formalità venissero osservate neli'accordarsi all'unione di due giovani: solo nelle famiglie agiate,era il padre ad andare a chiedere per il figlio la mano della ragazza ai genitori di questa; fra la gente comune, invece, più semplicemente, era il giovane ad essere accolto nella casa di lei e poi tutto procedeva senza troppe etichette.
Il fidanzato visitava la promessa nel pomeriggio del sabato, accolto nella stanza dove lei stava a preparar la schirpa con le amiche, che, manco dirlo, prendevano a motteggiare i due, rendendo cosi l'incontro, se non intimo, certamente festoso.
L'andare a prendere il consenso rappresentava, in molti villaggi un problema psicologico non lieve: doveva avvenire in segreto, all'insaputa di tutti, e i due promessi, che si recavano in chiesa non insieme, si sarebbero sentiti umiliati se gli immancabili buontemponi li avessero sorpresi.
Non del tutto sconosciuti erano i doni di nozze, anche tra la gente più povera: le amiche, infatti, portavano, nella prima domenica dopo le pubblicazioni, il loro regaluccio, piccolo che fosse, alla prossima sposa.
Leggo in una nota della metà del 1800, che gli amici di un fidanzato di un paesino di montagna andarono, in una simile festività, a prelevare la ragazza per condurla a pranzo nella casa di lui, e che lei portò una camicia nuova di canapa al futuro suocero una alla futura suocera, della tela per maniche alle cognate più anziane, pezzuole da petto alle minori, fazzoletti da naso ai cognati. Lo sposo, poi, il giorno delle nozze avrebbe ricambiato con scossali alle sorelle di lei, mentre le «donzelle» avrebbero donato alla sposina una camicia ciascuna. Trattavasi, naturalmente, di famiglie con discreto avere.
Ricordo poi, di aver sentito raccontare che sovente, un tempo, la sposa scendendo dall'altare dopo la cerimonia, annodava al fianco un fazzoletto a mo' di borsa e raccoglieva dai presenti, prima di tutti dallo sposo, offerte in denaro, che tratteneva per sé.