Quanti disastri naturali funestarono la gente tranquilla delle nostre zone

Centro di documentazione e informazione dell'Ecomuseo delle Grigne

Pietro Pensa, Quanti disastri naturali funestarono la gente tranquilla delle nostre zone in L'Ordine, 14.9.1979.

Pur ricorrenti, le epidemie e la moria lasciavano, per i lunghi intervalli tra il loro scatenarsi, che l'apprensione della gente cedesse alla speranza che non dovessero più ripetersi.

In perenne agguato e quindi motivo di un costante timore erano invece i disastri naturali, grandi o piccini che fossero perchè quasi sempre coglievano il singolo, isolato e quindi senza l'aiuto dei suoi simili. Dal che, il carattere vigile e guardingo, quasi diffidente, dei nostri montanari, delle loro donne che tanto sovente li sostituivano nei rapporti con la natura: «Quel che süced minga in cent'ann, ol po' süced in un dì!» ammoniva il proverbio. E suonava la campana a morto per una giovane precipitata da un ripidissimo pendio mentre tagliava il fieno selvatico; suonava per un lizzatore, rimasto travolto dai tronchi nel rimando di un'oga. Suonava per un boscaiolo trascinato da una slavina di neve.

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Ma, anche se il caso non era mortale, in ogni momento bisognava essere pronti a difendersi: fosse il lago, sconvolto d'improvviso, a rendere diffìcile il rientro di un pescatore attardatosi a ritirare le reti, fosse un torrente gonfiato da un insistente rovescio di maltempo, a impedire il passaggio. E che significasse, ancora al principio del secolo, la violenza dei nostri corsi d'acqua, malamente arginati, fatti gonfi dal displuvio di pendii disboscati che precipitava giù per gli anfratti delle vaste frane e per le incisioni delle lizze da legna, lo constatai io pure: vidi il Cuccio dilagare per la piana di Porlezza giungendo addirittura a seppellire una locomotiva del trenino della Val Menaggio; mi trovai con mio padre nell'alta valle del Livo a non poter più attraversare il torrente che poche ore prima avevamo superato con la massima facilità. E ricordo la straordinaria bellezza della cascata della Troggia, il fiume dei disastri di cui è testimoniata nei documenti dal 1300 in su la lotta con l'uomo che invano costruiva opere per contenerlo; ricordo la maestosità degli sbocchi a lago del Liro, dell'Albano, del Varrone e della Pioverna in piena.

La nostra gente era attenta e vigile: la notizia di un disastro nel territorio, anche in sito lontano dal proprio era accolta con apprensione, con comprensione, con un senso di solidarietà, come di chi combatte una comune battaglia. Leggo, sui diari del mio nonno: 1882 - A Versasio di Acquate, a ore 11 del 16 settembre dopo giorni di pioggia le acque dirompenti hanno trascinato sassi e fango e hanno fatto crollare sei case e due stalle uccidendo cinque donne e una bambina e affogando cinquanta bovini, due cavalli e pecore. I sopravvìssuti hanno disertato il paese. Vi furono grandi disastri per tutto il lago distruggendo ponti e case. A Balisio e Ballabio la strada fu sommersa e per transitare fu duopo portare barche da Lecco. Vennero raccolti denari e viveri per sorreggere le vittime e tutti si prestarono.

E in uno scritto di un amico del mio bisnonno: 1868 - Dopo molti giorni di pioggia il fiume Acquaduro fece strage il 24 giugno e si può dire che tutte le lavine del monte piombarono su di lui. L'acqua ruppe il ponte portò via piante danneggiò prati e case, arrivò la ghiaia sino all'altezza di dieci metri e lo stesso danno fece la Troggia.

Poi ancora: 1851 - Il fiume Pioverna venne con grande quantità di acque portando gravi danni e si dovettero riparare i muri che tenevano Gero e Barcone.

Di queste due terre, ancora oggi è viva la catastrofe del 1762, la più tremenda che a memoria storica colpì il nostro Lario. Se anche la tradizione non si fosse mantenuta così fresca, la ravviverebbero i ritrovamenti che di tempo in tempo avvengono nel terreno maledetto: ancor lo scorso anno, scavando in un campo, si trovò un originale pettine da donna in lamina di rame. In quel 15 novembre di due secoli fa, poco dopo le 11 smottò la montagna e trascinò a fiume i superstiti, seppellendo centododici persone. I superstiti, alcuni dei quali al lavoro sull'opposto versante avevano assistito al disastro, rimasero senza tetto, proprio alla soglia dell'inverno. Fu un plebiscito ad aiutarli, cosi come sempre, accadeva in simili frangenti, costante caratteristica della nostra gente, rivelata dai documenti di ogni secolo. Pure nelle valli ad occidente, i torrenti straripavano; a soffrirne, però erano soprattutto i borghi della riva. E anche le popolazioni dell'oriente ne erano sempre commosse. Trovo, infatti, in una nota del bisnonno: 1829 - Il fiume Liro ha dato immenso guasto a case, strade, bestie e ponti. Sono andati molti a portare soccorso.

Né meno gravi erano i danni delle nevi: 1836 - L'ultimo di febbraio nella valle del Bitto che era già di Valsassina, dopo alcuni giorni di neve si lasciò dall'alto del monte, una valanga che atterrò un grosso bosco d'abeti e poi tutte le case e la chiesa e la casa del prete con seguito di novantasei persone che furono ritrovate solamente nel maggio.
1869 - Nel monte Valmarcia in comune di Crandola una valanga sommerse dodici cascine.
1881 - Due uomini che lavoravano nel bosco furono trascinati dalla slavina e vennero visti e si corse in aiuto e uno usciva ancora dalla neve e chiamava ma quando si potè raggiungere mori.

E di tragedie singole come questa tutti son pieni i libri delle morti nelle parrocchie. Ti vien fatto, davanti a tanto scatenarsi di acqua e di nevi, oggi ovunque del tutto attenuato, forse più dal rinfoltirsi dei boschi che dalle opere pur cosi diligentemente curate dal Genio civile e forestale, se i nostri vecchi fossero poco attenti alla natura. Subito, rispondi di no.

Io rammento la cura con cui si conservavano le matricine nei boschi, la scrupolosità nel non superare col taglio i diametri dei fusti prescritti più dalla tradizione che dalla legge. Ma che volete, era la miseria a far tenere sui monti a migliaia le capre che mangiavano i polloni nuovi impedendo la crescita degli alberi, era la necessità che spingeva a distruggere boschi per dar pascolo al bestiame.

Vidi, una volta, durante la prima guerra mondiale, un boscaiolo guardare asciugandosi gli occhi, un gigantesco faggio che lui stesso aveva abbattuto per venderlo all'esercito che ne avrebbe cavato manici di zappa per i soldati. Perchè la natura, i nostri vecchi, anche quando l'offendevano, l'avevano nel sangue e la conoscevano come cosa loro, sorgente della loro vita. Erano attenti a ogni sua manifestazione.

Scrive uno dei miei diaristi di fine 1800, a proposito dei vecchi del suo tempo: Se li richiedevi dell'orario, si guardavano un poco in giro per l'orizzonte e poi anche se c'era nebbia potevi star certo che sbagliavano di poco e se era chiaro non sbagliavano del tutto: le ombre del sole e della luna e la posizione di qualche astro come l'Orsa Maggiore che chiamavano Pominere, o le Pleiadi che dicevano Preder, o Venere, la Stele de la dì, segnavano loro quanto l'orologio. Osservando le nubi, il moto degli uccelli il colore dell'atmosfera e altri segnali sapevano compilarsi la situazione barica ed anche astronomica. Conobbi un vecchio pecoraio, lo interrogavo e lui rispondeva raccontando le calende, l'epatta della luna, il ciclo solare e, benché ordinario e materialmente goffo, prevedeva l'andare dell'annata e non sbagliava.

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Quando la natura li tradiva, non si ribellavano e avevano ancora la forza morale di ringraziare il Signore che non fosse accaduto il peggio. Su, all'alpe di Piancalade, sotto le rocce del Sasso Alto, un gergiol, o cappelleta votiva, ricorda: Durante la furia di un pauroso uragano, il 17 luglio 1904 un fulmine si abbatteva su queste baite e provocava l'incendio con la morte di ventisette capi d'armento. Gli abitanti ne uscirono illesi e riconoscenti questo segno posero.

E di fulmini, tanto si parla nei registri di morte: di un pastore abbattuto sotto un albero, di una donna raggiunta mentre accudiva al bestiame, di un boscaiolo stroncato nel batter l'accetta. Anche un mio antenato, per via di fa, morì, secoli fa, per una saetta scesa lungo il camino di casa: attratta forse dalla catena, ma si tramandò che lui era un gran malo soggetto!