Quando non esisteva la penicillina si viveva nell'incubo dell'epidemia

Centro di documentazione e informazione dell'Ecomuseo delle Grigne

Articolo pubblicato da Pietro Pensa in L'Ordine, 24.8.1979


Tra i pochissimi ricordi tristi della mia fanciullezza ve ne è uno che, ogniqualvolta riaffiora, mi suscita il sentimento dell'ineluttabilità del fato, inteso questo quasi nel senso omerico. Si riferisce ai mesi di fine estate del 1918, quando la «spagnuola», segnando, come nei tempi antichi, la fine di una guerra con un morbo, incominciava a mietere le sue vittime. Mi trovavo, allora, con mia madre ad Esino; di mio padre, ufficiale in Albania, non si avevano notizie; se ne ebbero soltanto verso l'inverno, attraverso l'onorevole Mario Cermenati, amico suo, che ci fece sapere come si fosse salvato dall'influenza dopo due mesi di gravissima degenza in un ospedaletto da campo.

Dico questo, per ambientare lo stato d'animo di mia madre, simile a quello della maggior parte delle donne del paese, che avevano il marito in guerra. Ebbene, quando si verificarono le prime morti, una dopo l'altra, fu come se un oscuro ricorrente destino, che era nel sangue di ognuna di loro come un'atavica eredità, riapparisse con il suo fardello di male.

«L'è turnada la muria un'altra volta; cügna rasegnass!» dicevano sottovoce a mia madre. Nessuno parlava più, altro che per sussurrare i nomi di chi era caduto malato. Come una cappa di tristezza e di silenzio era scesa sul paese; suonavano ogni tanto le campane a morto, anche due volte in un giorno. La gente saliva in chiesa per le funzioni, per i rosari, ma non più in gruppi, a due a due; i funerali, di consueto affollati, avevano accompagnamento di poche persone.

Io, quando riuscivo a sottrarmi alla sorveglianza di mia madre che non voleva che uscissimo di casa se non per andare verso i campi e la montagna, me ne correvo a cercare i due vecchi, miei amici, che stavan ancora sempre insieme, seduti su un grosso tronco contro il muro, nella contrada di sotto.

E quelli mi raccontavano delle epidemie di un tempo. Cominciavano dal colera dell'estate del 1867, che loro stessi, giovani allora, aveva vissuto; mi dicevano che era stato portato dalla Brianza da uno di Bellano, ma che una carestia l'aveva preceduto, giacché a maggio freddo e brina avevano distrutto al nascere ogni coltivo. Provincia, comuni, famiglie benestanti, tutti erano andati a gara, pur nella generale ristrettezza, a raccoglier denaro per i più poveri e in «cà di Maté» mettevano ogni giorno sul fuoco il gran caldaro a cuocere orzo da distribuire.

Bisogna sapere che la casata dei «Maté» era la mia, così soprannominata da un certo Matteo, sindaco di Aosta, che al principio del 1600 aveva testato lasciando un reddito ai poveretti di Esino, perchè non morissero di fame come già più volte era accaduto; e quel gran caldaro, adoperato in occasione delle carestie, vi era ancora in quei giorni nel cantinato della casa, destinato poi ad esser dato alla patria da mio padre nell'ultima guerra, insieme al bel rame che l'accompagnava.

Mi narravano episodi di persone, colte dal malore sulla strada, appena superato il controllo al Ponte di Chiuso della valle, dove si «davano i profumi» ai passeggeri, portate alla chiesa di Santa Caterina trasformata in lazzaretto, e ivi morte subito dopo. Poi, passavano all'altro colera, quello del 1855 che pure aveva fatto tanti morti, e a quello, più pauroso di tutti, del 1836, e loro non erano ancora nati ma ne avevano sentito parlare molto dai genitori. Mi dicevano della strage che aveva fatto in ogni paese del lago, precisavano persino il numero dei morti in ciascun villaggio e mi raccontavano dei grandi voti fatti dalle popolazioni, della Via Crucis di Introbio ed anche della nostra, bellissima: voti che, infine, non avevano inciso troppo sulla tragica moria!

Ogni ricordo finiva col 1817, quando la carestia era imperversata per due anni dappertutto, e la gente si nutriva di erbe, di lumache e persino di lucertole, e il governo aveva penato gran fatica a tener l'ordine; e poi era venuta la petecchiale con centinaia di morti, tanto che si era stati costretti ad abbandonar del tutto i seppellimenti nelle chiese e a provvedere dovunque ai camposanti.

A me, a cui la mamma proprio in primavera aveva letto le parti più importanti de «I promessi sposi», interessava conoscere anche di quell'epidemia. Ma alle mie domande i vecchi rispondevano assai poco, solo delle chiesette di San Rocco sparse qua e là con vaste sepolture attorno a dei cadaveri che di tempo in tempo si trovavano nel corso di qualche scavo, interrati negli orti presso le case. Tutto quel parlare mi suscitava sentimenti e fantasie, destinati poi a lasciarmi degli interrogativi che mi avrebbero condotto più avanti a ricercare documenti e a trovare notizie sulla peste manzoniana, delle quali scriverò presto altrove.

Un giorno di quell'ottobre del 1918 le campane della chiesa suonarono tre volte a morto. Mia madre, cittadina, che non aveva nel sangue la rassegnazione delle nostre donne di montagna, ci prese e ci riportò in città. Là, forsanco perchè si vivevano i giorni vittoriosi del fine guerra, ben diversa, nonostante il morbo, era l'atmosfera ed a me pure sembrò che l'incubo di lassù si dissolvesse.

Me ne rimase però un ricordo vivo che ancor oggi mi fa risentire quel che dovettero essere le calamità per la nostra gente nei secoli passati. Quella, ad esempio, che nei libri dei morti delle parrocchie testimonia costantemente l'ecatombe di bambini appena nati, battezzati lì per lì dalla levatrice e poi portati in cimitero. Nessuno ne sfuggiva, né i più poveri né gli abbienti, e se io sono al mondo e vi racconto è solo per la caparbietà della mia razza: sull'inizio del secolo passato, infatti, la linea dei maschi si estingueva in casa mia; quattro ne erano nati, tutti con testardità chiamati Carlo, e morti qualche giorno dopo messi al mondo; i genitori erano ormai vecchi, lei quasi cinquant'anni, luì sessanta, e le figlie, già sposate, facevano il conto dell'eredità; quando nacque il quinto Carlo e rimase al mondo e fu il mio bisnonno!