Quando il viaggio di nozze si faceva lungo la Ghidolda
Pietro Pensa, Quando il viaggio di nozze si faceva lungo la Ghidolda in L'Ordine, 5.12.1978.
Le cerimonie del giorno delle nozze erano quanta mai pittoresche. Sul far dei mattino gli amici dello sposo si recavano sotto la finestra della fidanzata e, con l'accompagnamento di uno zufolo o di una zampogna cantavano la matinade. Bellissima, tra le molte, è una che racconta l'ansia dello sposo di vestire la promessa, di infilarle l'anello nuziale e di condursela a casa. La scriviamo, facendo presente, per la sua migliore comprensione, che i due fidanzati sono Toni, o Antonio e Martiole, la piccola Marta: che Luere, Creghencighe, Larecc, Arial, Tesner, Scarole sono nomi di alpi della valle, illuminate ancora dalla luna.
Al lus la lune sul laghel
Ma già ol Toni a là Martiole
Al ghe vol mett su l'anel.
Al lus la lune su in Luere
Ma già ol Toni a la Martiole
Al ghe vol mett su la vere.
Al lus la lune in Creghencighe
Ma già ol Toni a la Martiole
Al ghe vol mett la camise.
Al lus la lune su in ti jol (capretti)
Ma già ol Toni a la Martiole
Al ghe vói mett su ol strasriól. (fazzoletto da testa)
Al lus la lune su in ti foo
Ma già ol Toni a la Martiole
ghe vol ligà su ol coo.
Al lus la lune su in Larecc
Ma già per sta matinade
Al ghe vorav d'ol formacc vecc.
Al lus la lune su in Arial
Ma già ol Toni a la Martiole
Al ghe vol mett su ol scossal (grembiule)
Al lus la lune su in Tesner
Ma già ol Toni a la Martiole
Al ghe vol mett su i colzer (scarpe)
Al lus la lune su in Scarole
Ma già ol Toni a la Martiole
Al ghe vol mett su i colz (calze)
Al lus la lune su in Varron
Ma già ol Toni a la Martiole
Al ghe vol mett su ol liston. (abito da sposa)
Al lus la lune in la fenetre
Ma già ol Toni a la Martiole
Al ghe vol mett su la peze. (pettorina)
Mi vego do stell ch'en vee scià
E già ol Toni la Martiole
a l'ha menada a cà.
Lo sposo si faceva trovare presso la chiesa; i suoi amici che in qualche ìuogo erano detti i bei, andavano a casa della promessa e la scortavano quando lei andava a raggiungerlo, accompagnata dal fratello; i genitori rimanevano sempre assenti.
Mentre nella chiesa si svolgeva la cerimonia, i buontemponi preparavano le serraglie: sbarravano, cioè la strada del ritorno con fascie, ramaglie, apprestando anche dei fastelli di legna a cui tempestivamente appiccavano fuoco.
Lo sposo doveva liberare la via e gli amici lo aiutavano; qualcuno, più coraggioso ed agile, prendeva alla vita la moglie novella e con una breve rincorsa saltava il falò, e ciò era segno di buon augurio: le serraglie, infatti volevano rappresentare le difficoltà che la nuova famiglia avrebbe incontrato nella vita.
Fin qui. nulla di male, anzi, consuetudine piena di significato: se non che, molto sovente, gli scherzi trascendevano, tanto che negli statuti di una volta era decretato: Che non vi sia alcuna persona qual abbi ardire torre alcuna cosa ad alcuno che venghi con essa sposa, né allo sposo, ne fargli alcune serraglie delle strade, ne in alcun modo impedirli sotto pena de 20 soldi.
Tale norma statutaria prova che l'uso nuziale, vivo ancora in molti luoghi sino a mochi decenni orsono, era antichissimo.
Se la sposa aveva fatto sparlare di sé, poi, lungo la via alla chiesa veniva preparata l'ambulade, sorta di traccia infamante fatta di cenere e di fieno secco.
Senza ritegno i lazzi e gli scherni di cui erano oggetto i vedovi, particolarmente se impalmavano una bella giovinetta! Coloro che avevano aspirato a lei e molto sovente anche i figli di primo letto dell'uomo, inscenavano bagarre a non finire e, spesso tutt'altro che benevole. Invano i due i sposi si accordavano in segreto col parroco il giorno del matrimònio e su un'ora mattutina. Curati in ogni loro mossa quasi sempre incappavano nei malintenzionati che, all'uscita della chiesa, li accoglievano con frastuoni e versi, accompagnandoli sino a casa senza risparmiar loro spintoni e umiliazioni.
Le coppie normali, invece, tornavano dalla cerimonia seguite dal piccolo corteo degli amici e dei testimoni, in gran lietezza e le serraglie di cui si è scritto erano quasi sempre ragione di allegria. La suocera attendeva la sposina sulla porta di casa, la baciava e le dava il benvenuto. Poi, il pranzo era d'obbligo, più o meno lauto a seconda delle possibilità. I benestanti ne facevano motivo di prestigio, invitando tutta la parentela, o, meglio, l'intero clan familiare. Vezzo, del resto, non perduto; anzi, vivificato in questi ultimi anni in cui il benessere diffuso ha preso il posto all'antica miseria. Anche i poveretti, però, non mancarono mai di rispettare la consuetudine del festino nuziale: in ogni paese vi era una stanza grande che il proprietario lasciava per quel giorno agli sposi, i quali offrivano ai convenuti vino e cibi di casa, vuoi formaggio, vuoi salsicce e polenta. La festicciola si chiudeva quasi sempre con quattro salti. Similmente dovette avvenire anche nei secoli scorsi, se più di una volta ho trovato note violente dei parroci, persino del 1500, contro quella che chiamavano un'offesa al sacramento del matrimonio.
Narrano che, quando lo sposo andava a prelevare il suocero per condurlo al festino, quello, pubblicamente, gli raccomandava di comportarsi bene, riprendendolo se aveva fama di andar troppo all'osteria. Dicono che la consuetudine della raccomandazione andò in disuso verso la metà del 1800.
Di viaggio di nozze, ad esclusione dei pochi ricchi, non si parlò maim sino ad una ventina di anni orsono. Salva una singolare eccezione: a Menaggio, infatti, le coppie novelle, da sempre, facevano il loro «viaggio» percorrendo la Ghìdolda, la poetica stradetita che salendo a Loveno, ora addentrandosi nel bosco, ora bordeggiando i precipizi incombenti sull'attuale Regina, sempre in vista deilo stupendo paesaggio del Centro lago, scende alla fine alla frazione lacuale di Nobiallo.
Il giorno seguente sarebbe cominciata la nuova vita di lavoro, come la stagione, quasi sempre di vicina primavera, già imponeva.
Se non che, nel secolo scorso. un'usanza pittoresca era viva in molte località: la sposa, dopo una settimana dal matrimonio ritornava per qualche giorno alla casa paterna, per riprendersi dalle emozioni del distacco. Andava, si diceva, a to la lengua, a riprendere la lingua, a rinfrancarsi cioè: modo di dire meno conciso di quello adottato in alcuni paesi della Toscana dove vigeva analoga consuetudine, detta della «ritornata»; meno conciso, e linguisticamente meno bello, ma certamente più espressivo, perchè vi si condensava tutto il complesso stato d'animo di una giovane donna a cui con la fine della spensierata giovinezza, si affacciavano le durezze della vita di madre di famiglia.