Quando il freezer si chiamava giazzera
Pietro Pensa, Quando il freezer si chiamava giazzera in L'Ordine, 2.2.1979.
L'economia del Lario non fu mai prettamente agricola, nè poteva esserlo data la povertà del territorio. Anche quando nella prima metà del secolo decadde la grande risorsa dell'industria ferriera che per secoli aveva interessato ogni paese, e di qua e di là del lago, nuove attività per quanto assai limitate, vennero a sostituirla: il turismo straniero per i borghi rivieraschi, l'emigrazione temporanea di un abile artigianato per i paesi vallivi.
Ciò non toglie che in ogni tempo il cibo per chi rimaneva sul territorio fosse ricavato unicamente dalla coltivazione dei campi e dall'allevamento del bestiame. Il possedere due o tre mucche, quattro capre, un maiale, qualche gallina, era più che sufficiente a dar di che vivere a una famiglia di cinque o sei persone che disponesse di un minimo di prati e di campi. Cibo, dunque, del tutto autarchico, anche se povero e limitato; gli introiti delle altre attività sarebbero serviti a quanto proprio non si poteva ottenere in luogo. E ciò anche, come vedremo, per i borghi della riva, sia pure in una maggiore agiatezza.
L'attività agricolo-pastorale fu, dunque, fondamentale sino a quattro decenni orsono, gestita soprattutto dalle donne, secondo una tradizione millenaria, addirittura preromana, ligure-celtica. Essa irraggiava, a seconda della stagione, da fasce a diverse altitudini, che generalmente corrispondevano ai luoghi di sosta temporanei del bestiame.
I campi, a cui erano destinati i terreni più fertili, si trovavano generalmente nelle immediate vicinanze dei paesi. Vangatura, concimazione e raccolto venivano quindi effettuati quando si abitava direttamente nei villaggi. Sopra di questi, nei maggenghi, erano disseminati i monti, ossia le cascine con stalle, fienili e ambienti di lavorazione del latte, di proprietà privata. Più sopra, al limite dei boschi ed oltre, vi erano, infine, le alpi comunali, con costruzioni collettive.
Alle denominazioni indicate occorre dare l'esatto valore. Come già in precedenza indicato, in molti documenti medioevali si legge il nome di comuni montani costantemente completato con l'appellativo «del monte di...»; così, ad «Perledo del monte di Varenna»; «Vestreno del monte di Dervio»; «Bene del monte di Menaggio»; «Garzeno del monte di Dongo».
Gli storici hanno sempre ritenuto che ciò rappresentasse una specificazione geografica; invece, l'appellativo derivava dal fatto che il comune in questione era stato un tempo «il monte» degli abitanti del borgo a riva, monte trasformatosi, in seguito al trasferimento permanente degli interessati, in vero e proprio villaggio e comune.
I monti erano per lo più ravvicinati tra loro, disposti a gruppi in località percorse da rivoli d'acqua; talora, soprattutto nei luoghi più scomodi e battuti dalle intemperie, venivano a formare nuclei addensati che davano addirittura l'impressione di piccoli paesi, detti sovente loch, ossia luoghi.
Descriviamo la costituzione della cellula più elementare del mont. Due costruzioni, aventi per lo più in comune una muraglia, la formavano. Al piano inferiore della prima, chiamata stala, con entrata da valle, trovava ricovero il bestiame, mentre al piano superiore, accessibile da monte, venivano accatastati il fieno di prato, il scergnon o fieno magro di monte, la foia, o fogliame secco di faggio destinato a formare ol lecc al bestiame.
Nella seconda costruzione, denominata ol casel, o, anche, la casine, parzialmente interrato e attraversato da una vena d'acqua corrente, vi era il casel d'ol lacc, dove si conservava al fresco il latte, mentre al piano superiore veniva effettuata la lavorazióne casearia. In questo secondo locale, con pavimento acciotolato o lastricato per lasciar scorrere le perdite di liquido, il focolare prendeva posto in un angolo e l'uscita del fumo avveniva da un foro, raramente protetto da cappa; su un lato, la scigogne, triangolo di legno incernierato, consentiva di togliere e mettere il caldaro di bollitura del latte sul fuoco, mentre dall'altro lato, nell'angolo creato dalla soglia, o canton di sciorscei, si teneva la legna spaccata e di fascina da bruciare.
A muro, sulla peltrere, specie di mensola, prendevano posto gli attrezzi per lavorare il latte. Non mancava quasi mai la lecere, o incastellatura di legno con bisache o materasso di foglie, dove il bes'cer o la bes'cera - cosi era chiamato il membro della famiglia addetto alla cura dei bestiame - dormiva la notte nei periodi di maggiore impegno agricolo.
Come si è detto, si faceva in modo di poter disporre nel casel d'ol lacc, di una vena di acqua corrente. Su di quella venivano poste le conche del latte, sia per la conservazione, che per la separazione della panna. Dove l'acqua mancava, in un'altra costruzione isolata, un profondo scavo per tutta l'ampiezza del locale, permetteva di accatastare durante l'inverno una notevole quantità di neve, che veniva pressata fortemente e poi ricoperta da foglie secche di faggio. Tale massa nevosa cosi interrata, si manteneva per tutta l'estate, con un progressivo lento calo. Sopra, si tenevano le conche del latte, che così si conservava. La costruzione era chiamata giazzera. Naturalmente, sempre là dove la mancanza di acqua corrente obbligava a tale edificio, il casel era dotato di una cisterna che raccoglieva l'acqua piovana scolante dai tetti. Simile ripiego era comunissimo specialmente nel territorio meridionale del lago, dove maggiore era la poverta di acqua a causa delie formazioni rocciose sedimentarie.
Si è pure scritto che in molte località, per lo più lontane dal paese e in luoghi disagevoli, i mont venivano a costituire veri e propri villaggetti. I rustici erano allora ben intonacati, nei versanti a settentrione avevano porte piccole e finestre minuscole; molto più aperte specialmente sui fienili, erano invece nei versanti solatii. Unite a formare stradette gradinate e acciottolate. Sovente portavano addirittura un terzo piano destinato a l'ere, dove si trebbiava la segale, battendola, arieggiandola e quindi liberandola dalle bucce col val, largo cesto a mezzaluna senza bordo in avanti, con due manici.
L'ere era in genere molto vasto, pavimentato con assi incastrate accuratamente tra di loro per non lasciare sfuggire i chicchi. Serviva anche a essicare altri prodotti e alla battitura della fraina, o formenton. Una portello lo metteva in comunicazione con la stala d'ol fen. Aveva un sottotetto alto, con finestroni, detto solam, in cui si riponeva in covoni ad essicare la segala. In caso di maltempo, vi si trasportava pure l'erba appena tagliata, per salvarla dall'acqua.
Notevole era l'architettura sia dei singoli edifici, con muri meglio squadrati nell'alto lago dove si disponeva di pietre migliori, più grossolani al meridione, dove sovente erano impiegati grossi ciottoli calcarei di torrente. II tetto, soprattutto, con la sua colmigne, sostenuta sovente nel centro da un pilastro, con i cantilir o liste poggianti su di essa e sui muri, mostrava una antica esperienza edilizia. Sempre nell'alto lago, la copertura era di piode locali; a sud, invece, era un tempo diffuso l'impiego della paglia, facile peraltro agli incendi, sostituita poi da coppi di cotto.
Nei loch con forti agglomerati vi era quasi sempre una fontana comune, o in sasso o ricavata da un tronco di faggio. Ne vidi di bellissime; qualcuna in pietra tuttora si conserva.
L'inclinazione della montagna, poi, consentiva dì sbizzarrirsi alla immaginativa dei muratori, con ponticelli e scalette per collegare le piccole porte alle stradettc, e anche tra loro.
E proprio a proposito della cura posta per consentire il passaggio da un locale all'altro e alle viuzze, mi corre al ricordo un episodio che udii raccontare e che impressionò la mia fantasia di adolescente.
Sui monti, dove si viveva d'estate, quando la calura fa correre il sangue nelle vene, accadevano infatti ì piccoli scandali paesani. E soprattutto erano più facili nei monti isolati, dove il controllo di uno sull'altro era meno facile che nell'interno dei villaggi.
Ebbene, in un paese non molto lontano dal mio, era, alla fine del secolo acorso, coadiutore l'ultimo rampollo di un'antica famiglia locale, famoso cacciatore, degno discendente di avi che avevano riempito di storie burrascose le cronache del 1600 e del 1700.
Il parroco più di uni volta era dovuto intervenire per toglierlo dai guai.
Fior di uomo, alto, aristocratico e sanguigno, aveva preso ad intendersela con una prosperosa donna, madre di tre figli.
Lei, perché tutto restasse ben segreto, rimaneva a dormire sul mont anche quando gli impegni di lavoro non l'avrebbero richiesto.
L'inconsueto amante la visitava la notte. Sino a che, finalmente insospettito dalla strana abitudine della moglie di starsene lontana da casa, il marito ebbe l'ispirazione di vederci chiaro. La porta era chiusa e la donna non si decideva di aprire. Lui, alla fine, sfondò l'uscio, ma intanto il prete, assai agile, era riuscito a passare nel fienile e da quello, per la botola del fieno, nella stalla. Al marito non restò che rendersi conto che qualcuno correva giù per la china. La donna si rifiutò di confessare, ma in paese, saputa la storia, i sospetti si appuntarono presto sul colpevole.
Mormora qui, mormora là, le cose si mettevano male e il parroco questa volta non sapeva come rimediare. Sin che, prendendo occasione da un'altra faccenda che da tempo bolliva sotto sotto, e che racconterò un'altra volta, la gente del paese ebbe modo di sfogare il malumore. Intervenne allora la curia che saggiamente trasferi i due preti.
Quando alla donna nacque un figlio, la voce fu però unica ad indicarne la paternità. E, pure misteriose sono le vie del Signore: quel figlio divenne poi sacerdote; io lo conobbi e so che fu un sacerdote benedetto, illustre in opere di carità.