Quando il cielo minacciava neve anche i bergamini tornavano a valle
Pietro Pensa, Quando il cielo minacciava neve anche i bergamini tornavano a valle in L'Ordine, 2.3.1979.
Si cercava di tardare il più possibile lo scaricamento delle alpi e qualche volta questo indugio venne pagato assai caro - Il rientro in paese era festoso e forniva lo spunto per feste e convivi il cui ricordo, in qualche caso, sopravvive ancor oggi
Ritornando a scrivere dei pascoli, dirò che quando erano vasti e gli spostamenti del bestiame per goderli tutti obbligavano a forti percorsi, si preferiva lavorare il latte appena muntolo, direttamente nei luoghi di mandamento del bestiame, portando alla casera i formaggi grassi che se ne cavavano. In molti luoghi sorgevano allora caseifici quanto mai primitivi; li chiamavano calecc, nome che significa «rudere» e che ne esprime assai bene l'aspetto: erano quattro grossolani muretti in quadro con qualche palo a sostenere un tetto di lamiera; in mezzo v'era il fuoco con la scigogne del caldaro per bollire il latte.
Totale era la mancanza di cura nel migliorare le condizioni di vita degli uomini e degli animali e di resa dei terreni: nessun lavoro di ripulitura del pascolo, tutto infestato di ontanelli montani, nessun spietramento, nessuna concimazione; il letame, anziché venir sparso ad ingrassare la cotica erbosa, veniva ammucchiato presso le casere; dove non vi erano torrentelli in cui gettarlo, diventava vecchio di anni sin che se ne andava in polvere col vento.
Rammento il mio orrore di fanciullo nel camminare tra due muri di sterco per raggiungere il porticato di un'alpe in Tremezzina; i pastori tenevano i calzoni rimboccati sul ginocchio, le mucche avevano il letame a mezza gamba. Ricordo che dai mucchi di letame fuor delle pur belle case dei Piani di Bobbio spuntava la carogna di una vacca morta di epizoozia; gli agronomi del Ministero se ne inquietarono e ripresero con violenza i malghesi; mio padre cercò di giustificarli dicendo che era la miseria degli ultimi anni ad averli tanto avviliti e che un tempo le cose andavan diversamente.
Avrei dovuto ricordare quella sua accorata difesa, che tutti lì per lì presero come dettata dall'amore che egli aveva ed ebbe sempre per la sua gente montanara, molti e molti anni dopo, quando, occupatomi di rammodernare un'alpe sulla Grigna, cercato il luogo più adatto per costruire una vasca che raccogliesse l'acqua dei displuvi dei temporali, fatto eseguire lo scavo per il basamento, trovai, sotto un buon metro e mezzo di limo e di terriccio, una coltre di argilla, evidentemente portata a spalle sin lassù per uno scopo del genere, e di lontano, già che là vi era calcare solamente. Compresi allora, e più tardi in simili analoghe occasioni, che davvero in quegli anni tra i due secoli le condizioni di vita che poi spinsero tanti ad emigrare erano giunte al limite della sopportazione.
Ma forse le alpi peggiori erano quelle delle tre vallate dell'alto lago d'occidente. La mia fantasia me le fa rivedere come le vedevo da fanciullo: le strade che vi portavano salivano lungo i burroni, superavano scalinate di roccia, erte e faticose; quando poi si aprivano ampie testate sotto i pizzi impervi, gli sfasciumi di roccia che franavano da quelli ingombravano il terreno; massi enormi e tutt'attorno gande di cristallino; qua e là si aprivano degli avert con dell'erba e di quelli nessuno sfuggiva alla ricerca dei pastori; in alcuni luoghi, poi, i pascoli erano così dirupati e pericolosi che gli affittuari, per evitare che le vacche precipitassero, avevano costruito ai margini bassi gruppi di povere stallette dove le tenevano alla mangiatoia, portando loro ogni giorno il fieno selvaggio che essi stessi tagliavano su per i pendii.
L'erba di montagna allignava invero dappertutto; sì raccoglieva a fasci e a fasci, e la si portava persino nei fienili dei maggenghi, trasportandola a spalla nel primo impervio tratto, poi caricandola su slitte che nei corso dei secoli avevano inciso profondamente le pietre, sovente incassando addirittura le strade tra due sponde.
Dove le mucche non potevano giungere, giungevano le pecore; io rimanevo incantato a guardarle, in bilico con le loro esilissime gambe bianche sui dirupi, brucare la poca erba ancor tenera tra l'una e l'altra roccia. Le capre, invece, venivano tenute più in basso, tra burroni e boscaglie, nei luoghi più ingrati. Ve ne erano a migliaia e migliaia; le raccoglievano in gruppi e a turno le famiglie facevan l'usenda, ossia le custodivano. In qualche valle vi era un pastore a pagamento. Nel mio paese vi era una piazza, la Piazza cavrera dove il pastore le radunava alla mattina per portarle al pascolo, riconducendovele alla sera. Le famiglie aprivano la stalla e quelle si avvicinavano da sole al posto di raccolta, per andarsene poi, al ritorno, ciascuna alla sua stalla, e non sbagliavano. Bestia di poche necessità, la capra era propria l'animale dunque della miseria.
Ogni governo, da quello ducale allo spagnolo all'austriaco, cercò di eliminarle, perchè erano la rovina dei boschi di cui mangiavano ogni giovane virgulto. Ho una raccolta di gride sull'argomento. Causa di dissesto, di frane, il bosco riprese nell'ultimo trentennio, quando il benessere le eliminò.
Problema grave fu sempre per i pascoli del centro lago e di quello del meridione l'abbeveraggio: la natura calcarea del terreno con la conseguente povertà di sorgenti obbligava a rincorrere ai pozzai, sorta di laghetti di una decina di metri di diametro con fondo argilloso, dove si raccoglieva l'acqua piovana: poetici laghetti dove si specchiava il cielo del tramonto, con le vacche tutt'attorno all'abbeverata, gemme in cui negli anni di lontananza si specchiò sempre il mio mal di paese. Negli anni di arsura talora accadeva che asciugassero e più di una volta vidi ricondurre in pieno agosto le mandrie alle stalle dei maggenghi.
Vorrei chiudere queste note che spero abbiano dato una idea fuqace di quanto importante sia stato il pascolo nella vita della nostra gente, accennando ad una pittoresca casta che al bestiame aveva legata l'esistenza di tutto l'anno: voglio dire dei bergamini, proprietari di notevole mandria, originari dei nostri paesi, che però non risiedevano più nei villaggi, ma che ogni anno tornavano a primavera nei loro monti per poi spostarsi a giugno sulle alpi che affittavano dai Comuni. A novembre, dopo esser sostati nuovamente a consumare il fieno raccolto nei maggenghi, scendevano in pianura dove affittavano stalle e fienili.
Gente organizzata, parlavano una specie di gergo, formatosi dall'antico dialetto e da innesti di quelli di pianura. Benestanti, avevano una certa superbia nei confronti dei residenti: li vedevi nei giorni festivi vestiti con una loro ricercatezza.
Le alpi, secondo l'altitudine e la stagione, venivano scaricate tra la fine di agosto e i primi di settembre. Si cercava di tardare il più possibile, per sfruttare il pascolo sino in ultimo. Non fu raro il caso di pagare assai caro tale indugio ed io vidi una volta un lugubre spettacolo: ai primi di settembre, una notte, il clima raffreddò all'improvviso e cadde una grandinata, al mattino, il terreno era cosparso di agnelli morti assiderati.
Il ritorno dall'alpe era quanto mai festoso. Le mucche portavano rami d'albero intrecciati alle corna, le giovani vestivano gli abiti festivi, i ragazzi facevano ogni sorta di suoni, con campani, zufoli e ferraglie. Al paese poi, specialmente là dove le alpi erano state caricate in cooperativa, si festeggiava la chiusura con una cena in compagnia, arrostendo qualche agnello e innaffiandolo di vino.
A Premana, ad esempio, ogni società faceva il suo past chiuso ai soli soci e tra l'una e l'altra compagnia si gareggiava in allegria, così come durante i mesi sulle alpi ognuna aveva cercato di far più belle le proprie costruzioni. Oggi, lassù, il past è diventato motivo di folclore, e, perduta la ragione che l'aveva originato, è diventato una festa che raccoglie tutti, paesani e forestieri.
Cadevano intanto, in quota, le prime nevi che per sei mesi avrebbero chiuso l'accesso ai bei pascoli della montagna.