Provocata dall'abbattimento di un forno l'ultima vittima del ferro in casa nostra

Centro di documentazione e informazione dell'Ecomuseo delle Grigne

Articolo pubblicato da Pietro Pensa in L'Ordine, 6.7.1979


La fine di una attività prestigiosa e l'inizio di quella, soprattutto commerciale, con gran movimento di merci lunga tutta la penisola — L'esportazione dell'«arte» di Premana e l'acume di Ambrogio Sanelli — La minor fortuna dei «magnani» dì Cavargna — I «pirat» per il carbone che le donne trasportavano a spalla, in gerlo, sino a Carlazzo


Sul principio del secolo scorso, dunque, nonostante tutti i tentativi che l'Austria, attraverso l'opera di quelle grandi menti che furono gli illuministi italiani, aveva condotto per ravvivarla, la siderurgia lariana, minata dalla concorrenza straniera che disponeva di carbon fossile e di risorse minerarie ben più facilmente sfruttabili, aveva iniziato il suo rapido crollo.

Ho un diario di un amico del mio bisnonno in cui sono state annotate le successive chiusure delle antiche miniere e dei forni. Il malinconico elenco si chiude con questa frase: «Ultima fumata al forno del ponte del Varrone», il più importante del territorio.

Edifici da ferro, fucine grosse, carbonili, vennero così abbandonati e si passò alla distruzione degli stabili per recuperare a prato le vaste aree che occupavano. Trovo scritto che, ancora nel 1896, mentre due uomini stavano abbattendo le mura del forno di Bonomo, un muraglione crollò su uno di essi, «ol pover Line», uccidendolo, ultima tragica vittima della storia della siderurgia sul Lario.

Proprio in quegli anni, però, si andava verificando uno straordinario miracolo. Mentre le piccole fucine, fosse solo per cavare da billette di ferro che ormai venivano importate da via gli attrezzi agricoli necessari al territorio, non avevano mai cessato di battere, mentre le trafilerie della vallata del Gerenzone continuavano, sia pure a ritmo ridotto, a trarre tondino col primitivo lavoro delle ruote ad acqua, proprio due trafilatori, Piero e Giuseppe Redaelli, che conducevano una modesta officina mossa dalle acque del Caldone presso la Bonacina, ebbero la geniale idea di sviluppare, accanto all'attività produttiva, quella commerciale. Presero a raccogliere da tutta la Valsassina, dalle vallate del Lecchese e addirittura dalla bergamasca, ferramenta e attrezzi di ogni genere. Organizzati magazzini a Balisio e a Malavedo, il materiale posto su carri, venne avviato per tutta l'Italia, sino alle Calabrie.

Di ritorno, venivano portate al settentrione merci pregiate delle terre visitate. La penetrazione commerciale fu tale che nel 1870 il Lecchese era diventato il più importante produttore italiano di ferramenta minute, con un ammontare annuo di circa 350.000 tonnellate. Da quel rifiorire di attività ferriere venne tutto un seguito di fortune metallurgiche, non i solo per il Lecchese e per l'alto lago occidentale, ma per l'intera Lombardia e quindi per l'Italia.

Nacquero i grandi complessi della Redaelii, che poi si sarebbero trasferiti nel Bresciano e a Milano, pur sempre lasciando una grossa fabbrica a Dervio; nacquero gli stabilimenti Falck che avrebbero in seguito trovato il loro grande sviluppo a Sesto San Giovanni, pur essi mantenendo la gloriosa ferriera di Dongo; nacque la Badoni con il suo moderno opificio; furono poi tenute in vita numerose fucine valsassinesi, oggi tutte ammodernate ed esportatrici all'estero.

Un altro miracolo ancora, se meno grandioso più caratteristico certamente, fu quello di Premana. Anni addietro lo descrisse e lo illustrò con bellissime tavole la più prestigiosa rivista geografica degli Stati Uniti; non sono moltissimi, purtroppo però, nella provincia di Como, quelli che lo conoscono e che hanno dedicato una loro domenica ad una gita avente per meta il pittoresco villaggio abbarbicato alla montagna a 1000 metri di quota. E davvero ne vale la pena, non fosse altro che per rendersi conto di quanto abbia potuto creare un folclore di secoli, per non dire addirittura di millenni.

Crollata la siderurgia, i numerosissimi fabbri di Premana, seguendo una tradizione che già dal 1600 aveva visto i loro antenati portare il mestiere sino a Madrid, presero a girare l'Italia esercitando la loro arte. I più intraprendenti aprirono presto dei negozi di vendita di ferramenta e di ferri da taglio a Venezia, a Bergamo, a Carrara, a Verona. In contatto sempre con la terra di origine, cominciarono a richiedere agli artigiani rimastivi articoli da vendere.

Nel 1860 tornò da Verona al paese nativo Ambrogio Sanelli, giovane di larghe vedute che nella città veneta aveva esercitato il mestiere di arrotino su un barcone ancorato sull'Adige, la cui corrente azionava la mola. Col suo ritorno le antiche condutture d'acqua dei forni abbandonate, tornarono ad essere sfruttate ed il paese, in offìcinette improvvisate aperte verso l'esterno, riscaldate d'inverno dalcostante calore delle forge, iniziò la produzione di lame da taglio, forbici, coltelli, e falci, che sarebbe sfociata nell'attuale esistenza in loco di oltre 100 officine di ogni dimensione, in pieno fervore di attività.

Allora quei poveretti trasportavano a spalla le casse di lame forgiate in paese sino al fiume per la molatura, riportandole poi di nuovo per la finitura. D'inverno lavoravano otto ore, mentre d'estate, quando parte della popolazione doveva accudire all'agricoltura e alla pastorizia, addirittura 15 ore. I padroncini pagavano gli operai una volta all'anno, nel giorno di Santo Stefano, dopo aver venduto alle fiere dei dintorni, particolarmente a Bellano, a Gravedona e a Delebio, quanto prodotto durante l'intera annata.

Ricordo di aver assistito da ragazzetto alla forgiatura delle lame, effettuate in coppia da due lavoranti, di cui uno prelevava dalla fucina il ferro rovente con le tenaglie, lo teneva fermo sulla incudine, sagomando il pezzo con il martello, a ritmo alternato con l'altro, che batteva la mazza pesante per la forgiatura. Rammento ancora la straordinaria abilità con cui, dopo la molatura più impegnativa, i pezzi delle forbici venivano contornati e finiti a mano nelle morse, con lime di diversa grana.

Oggi, nelle officine di Premana tutte ricostruite in cemento con edifìci a più piani di gusto discutibile ma pur sempre pittoreschi nel loro ammassarsi sul ripidissimo pendio montano, si sono introdotti mezzi sofisticati di produzione. La gente di lassù è al passo con la tecnica più moderna, ma mantiene, con geloso amore, le tradizioni dell'antico folclore, vera «isola sul monte» come la definì la Regione Lombardia.

Sarebbe disonesto non ricordare, accanto a Premana, un paese tanto sfortunato quanto quello invece, sia pure per propri meriti, fu favorito dal successo: voglio dire di Cavargna, dove l'arte del metallo creò generazioni di magnani, che, mentre le donne portavano avanti i lavori agricoli sui ripidissimi pendii dei loro monti, giravano da terra a terra, per tutta l'Italia settentrionale ad esercitare l'arte. Meno intraprendenti e più miserabili, non ebbero il loro Sanelli a trasformare in industria una pur sapiente tradizione di mestiere; continuarono, così, il loro vagabondare sin quasi ai nostri giorni. Ma di loro scriverò ancora, per illustrare quello straordinario tesoro linguistico, la parlata «rungin» che si vuol credere un gergo, ma che nella realtà è nel suo nucleo, l'antica lingua lariana.

Non mi sono soffermato, infine, sul quarto aspetto dell'attività ferriera, quello che occupava il maggior numero di persone, perchè già l'ho illustrato in precedenza: voglio dire della preparazione del carbone di legna. Debbo però accennare che pur qui, dopo il crollo industriale la nostra gente non si smarrì e trovò nuovi sbocchi. Si produsse meno carbone, avviandolo, con la ferrovia, sino a Milano, si lizzò la legna alla riva, caricandola su barconi a destinazione di Como e di Lecco.

Ancora durante il periodo fra le due guerre sui monti di Cavargna si accendevano poiat per produrre carbone e le donne coi gerli lo portavano a Carlazzo per caricarlo sui carri. E quando, nell'ultimo conflitto, si ebbe l'illusione di poter continuare una guerra con motori a gas, i nostri vecchi carbonai ricordarono l'arte millenaria insegnata dall'attività del ferro. Oggi, certamente, tanta sapienza è del tutto scomparsa!

Molto, moltissimo si potrebbe ancora scrivere sul folclore del ferro. Ne verrebbe uno straordinario insegnamento su quello che la tradizione può nel destino delle popolazioni. Lo sappiano i giovani, perchè, e Dio non voglia, forse il futuro chiederà loro di riattaccarsi ancora a quella tradizione.