Premana ieri

Centro di documentazione e informazione dell'Ecomuseo delle Grigne

Pietro Pensa, Premana ieri in Il Corno, 1978.

L'amico Bellati mi ricorda l'impegno assunto di mandargli regolarmente uno scritto per "Il Corno". Sono, in questi mesi, molto occupato nel mio tempo libero per una illustrazione del territorio richiestami dal Distretto scolastico, lavoro che spero possa essere gradito anche ai Premanesi perchè raccoglierà la sintesi di tanti anni di ricerche e soprattutto di molte e molte riflessioni su quello che è il carattere nostro più intimo, derivato da secoli di storia, di fatiche e di sofferenze. Non voglio, però, venir meno alla promessa, tanto più che sentirmi vicino a Premana, che l'ultima domenica ho fotografata dalla cima del Muggio nella sua straordinaria realtà di grosso borgo abbarbicato a una zolla di terra scoscesa, mi è sempre di particolare piacere. Scrìverò, dunque, di una lontana vicenda che, spero, non farà impermalire i nostri buoni vicini della Valvarrone.

Riprendo, innanzitutto, i precedenti, accennati su questo giornaletto nel 1977. I geologhi pensano che in tempi lontani, quando l'uomo non era ancora su questo mondo, la Valvarrone fosse divisa in due valli: il Varroncello - notate bene che il toponimo vuol dire "torrente" nella lingua degli antichi Celti - raccogliendo le acque della Val Marcia, dell'alto Varrone e della Val Fraina, si infilava giù per il corridoio della Val Casargo, dove scorre ora il Maladiga, e andava a congiungersi al Pioverna. Un altro torrente sorgeva invece più a valle di Pagnona e, scendendo per l'attuale bassa Valvarrone, andava ad unirsi alle acque della Valtellina e della Val Chiavenna e con quelle imboccava la Val Menaggio e si gettava nel lago di Lugano. Allora, il ramo lecchese del lago non si era ancor formato: pensate che il nostro Esino finiva addirittura nel Lambro! Ebbene, il gradino che separava i due torrenti di cui ho scritto a poco a poco fu eroso e il torrente più basso catturò quello superiore e le valli si configurarono come sono ora. Conclusione: separazione geologica qualche milione di anni fa tra le due parti dell'attuale Valvarrone. Lo strano è che, per quanto poi geologicamente riunite, si staccarono civilmente quando comparve l'uomo. Strano, ma non illogico: allorché nel territorio si stanziarono le tribù preistoriche, i ripiani dove sorgono ora i paesi detti poi nel loro insieme "Valle Introzzo" furono dapprima i "monti" di Dervio, mentre Premana e Pagnona più facilmente gravitavano sulla Valsassina. Prova ne è il fatto che le Pievi, eredi storiche delle tribù primitive, o comunità pagensi, furono due, quella di Dervio e quella di Primaluna, a conservare le antiche appartenenze. L'Arcivescovo di Milano, divenuto signore e della Riviera e della Valsassina, subinfeudando quest'ultima ai Della Torre, probabilmente nel secolo XII, staccò il "Monte di Dervio" ossia Vestreno, Sueglio, Introzzo e Tremenico e l'unì alla Valsassina. Il fatto non piacque certamente ai paesi indicati, e le ragioni erano molte e ammissibili: il far parte della chiesa di Dervio e dover volgersi civilmente da tutt'altra banda, in quei tempi in cui le cose ecclesiastiche erano in prima linea, irritava; dover poi, per le faccende pubbliche, percorrere il lungo cammino dal ponte sotto Tremenico a Piazzo per un sentiero ripido e tanto pericoloso d'inverno, e da Piazzo ad Introbio, rappresentava un assurdo, quando tanto comodo era scendere al vicino Dervio. Aggiungi a questo il notevole disprezzo che quelli di sotto nutrivano per Pagnona, motteggiata con tante storielle, prima fra tutte quella della tubatura del latte dalle alpi al paese con coppi innestati alla rovescia! Fatto si è che appena presentatasi l'occasione, quelli della Valle Introzzo si staccarono dalla Valsassina. E l'occasione fu data dalla guerra tra Milano e Venezia, prolungatasi per tutta la prima metà del 1400. Il duca Filippo Maria Visconti doveva della riconoscenza a Biagio Malacrida, castellano di Musso. Nel 1434 prese motivo dalle lamentele del Monte di Introzzo e lo staccò dal podestà della Valsassina, creando una podestaria nuova che concesse, vita naturai durante, al Malacrida. Le cose andarono avanti cosi sino a che, morto Filippo Maria ed estintasi con lui la discendenza diretta dei Visconti, dopo la breve parentesi della Repubblica Ambrosiana, nuovo signore di Milano divenne Francesco Sforza. Questi, per averli favorevoli, aveva promesso agli uomini del Monte di mantenerli separati e in tal senso nominò due successivi podestà nel 1450 e nel 1452. Intervenuto stato di guerra con Venezia, raggiunta alla fine la pace col trattato di Lodi, il duca decise di riunire nuovamente la bassa Valvarrone alla Valsassina e decretò in tal senso. Gli uomini del Monte Introzzo si rifiutarono di accettare l'imposizione. Tra intimazioni e rifiuti, le cose si trascinarono sino al 1459. In quell'anno assunse la carica di podestà della Valsassina un uomo di polso, Giovanni Maineri, che volle far rispettare gli ordini dello Sforza. Accompagnato dai suoi famigliari, scese ad Introzzo. Qui, gli uomini delle terre avevano chiamato in soccorso da Musso Raffaele Malacrida, nipote del defunto Biagio. Questi fermò il Maineri e gli intimò di non impacciarsi delle faccende del luogo, vantandosi di avere la concessione dal duca. Il Maineri gli chiese di mostrare la patente; questi assicurò che l'avrebbe portata la mattina seguente. Durante la notte, viceversa, fece giungere da Musso, suo feudo, uomini armati di lance, di balestre e di schioppetti, che, affiancati dagli uomini di Introzzo, impedirono al Maineri e ai suoi ogni atto; il Malacrida, poi, avverti il povero podestà, per mezzo di un ragazzo, di allontanarsi al più presto se voleva evitare una mala fine. Non ho trovato ulteriori notizie; se non che, dell'anno successivo, a dimostrare che i prepotenti hanno sempre ragione, giace negli archivi un decreto di nomina del Malacrida a podestà di Monte Introzzo. Non poterono però gioire a lungo del successo, i vicini della Valle Varrone. Avviato a concessioni extra statutarie, il territorio dopo pochi anni venne infeudato, insieme alle terre del lago. Inutili furono questa volta le proteste: staccati tra di loro quali erano, e per distanze e per consuetudini, i vari paesi non incutevano timore. Ben diversa era la situazione della Valsassina: nessun duca osò toccarla. Solo due secoli dopo, gli Spagnoli l'avrebbero infeudata: infausto atto che, continuamente ostacolato dalla Comunità, era destinato a rapida infelice conclusione. Per concludere questa istruttiva storia, voglio raccontare una consuetudine della bassa Valvarrone, ancor viva nel secolo scorso, rimasta a ricordare le relazioni con Musso. In quel luogo, ogni anno, alla terza domenica di settembre andava in pellegrinaggio alla chiesa di S. Eufemia la gente del Monte Introzzo. Si raccontava che Eufemia era stata una pia donna di Sueglio che, derisa dai suoi compaesani perchè devota, un giorno era fuggita dalla sua casa, era scesa al lago con una sega, aveva tagliato le acque e aveva raggiunto il Sasso di Musso, ivi fermandosi in diuturna preghiera, ottenendo la venerazione degli abitanti. Si narra, poi, che alla sua morte era stata eretta la chiesa con l'entrata rivolta verso Musso, ma che ogni notte quelli di Dongo salivano a murare la porta e ad aprirne una dalla loro parte; al mattino si trovava questa murata e l'altra nuovamente aperta, a dimostrare la predilezione della santa per Musso. Ingenua leggenda, se si pensa che con ogni probabilità la chiesa ebbe origini bizantine. Prova, però, di come relazioni umane, nate in tempi di emergenza, sappiamo anche superare i secoli!