Nelle valli e sulle rive del Lario alla ricerca di tradizioni pasquali
Articolo pubblicato da Pietro Pensa in L'Ordine, 15.4.1979
La crociata del XII secolo e l'«entierro» di Primaluna - Ricordi di Gravedona, Livo e Domaso - La corda dei barcaioli della Tremezzina e il cammino, per la gente del Centro Lago, del crocefisso menaggino di Santa Marta - L'immancabile finale davanti ai deschi gagliardi al suon di ottoni male accordati
L'espressione esteriore più cospicua delia religiosità della gente del Lario fu data in ogni tempo dai riti pasquali, in particolare dagli entierri, così denominate, con termine spagnolo che significa «funerale», le manifestazioni del Giovedì e del Venerdì Santi. Benché private del loro aspetto teatrale e ridotte a semplici cortei di sacerdoti e di popolo salmodiane, le processioni al seguito del Cristo morto raccolgono ancora oggi nei nostri paesi un'eccezionale folla di partecipanti, quasi sussulto dell'antico fervore.
Le prime rappresentazioni sacre della Passione vennero, a detta degli storici, introdotte dai Crociati che, di ritorno dalla Terra Santa, vollero dare al popolo l'immagine viva dei fatti e dei luoghi che avevano suscitato le loro imprese. Se tale affermazione è verosimile per tutti i paesi cristiani, una leggenda ancora viva nel secolo scorso e appoggiata d'altronde ad avvenimenti realmente accaduti, la rende più che mai valida per il nostro Lario.
Verso la metà del XII secolo, bandita dal Pontefice e predicata da San Bernardo, prese avvio la seconda crociata. Accanto ai monarchi di Germania e di Francia, militavano molti potenti italiani quali Martino della Torre, signore della Valsassina. Attorno a quest'ultimo era raccolta la gente del Lario, uomini validi ed armati, ma anche donne e fanciulli a cui il Santo predicatore aveva promesso la vita eterna in ricompensa del grande viaggio.
L'esito dell'impresa fu disastroso; i disagi del percorso, i continui attacchi dei turchi assottigliarono sempre più le truppe cristiane, che, toccata Gerusalemme, invano tentarono la conquista di Damasco. Durante un attacco a questa munitissima città, Martino della Torre, detto il Gigante, dopo mirabili prove di valore cadde nelle mani dei Saraceni che, cercato inutilmente di farlo abiurare, l'uccisero.
Ben pochi dei suoi ritornarono in patria. A ricordo della tragica e pur gloriosa impresa, rimasero la mezzaluna sullo stemma torriano, i nomi di Palestina dato alla Pieve e di Campanile dei Saraceni ad un dosso roccioso che la sovrasta, e, soprattutto, il costume di recitare nei Giorni Santi la Passione di Cristo.
Come poi si introdusse la parola spagnola di Santo entierro ad indicare quel rito non saprei dire; certo è che ai tempi di San Carlo, i più remoti di dominazione spagnola, quel costume era antico e diffuso, tanto che il grande Arcivescovo ne decretò l'abolizione «essendo tale consuetudine per la perversità degli uomini scesa ad un livello che offende molte persone». Il divieto venne ripetuto in seguito, ma gli interventi repressivi non riuscirono a soffocare quella che ormai era divenuta una tradizione radicata nella cultura popolare che l'aveva creata. Fino a questo secolo, infatti, si ripeterono le sacre rappresentazioni sul Lario e le ultime datano a pochi decenni or sono. L'entierro più famoso fu dunque quello di Primaluna; giunto a forme di fanatismo religioso, il Prevosto, spintovi anche dalle autorità civili austriache, lo abolì intorno al 1840; sarebbe risorto, però, non molto tempo dopo a Barzio.
Da come posso ricostruirlo nel suo svolgimento con le descrizioni pervenutemi da mio nonno, esso si svolgeva tra la piazza della Pievana di San Pietro e la chiesetta di San Rocco e prendeva avvio dalla notte del Getsemani per portarsi al giudizio di Caifa, alla flagellazione, alla salita del Golgota. Attori erano uomini del luogo che ogni anno ripetevano la stessa parte con accurati e suggestivi costumi realizzati localmente; - spettatori la gente della valle che giungeva da ogni parte, perfino dalla lontana Premana.
La recita si concludeva con una processione liturgica generale guidata dal Prevosto e dai parroci.
Dietro la statua del Cristo deposto venivano dodici confratelli in veste di apostoli che i con catene si percuotevano il nudo petto. Scrisse l'Arrigoni di averne visto «livide le carni ed escirne a rivi il sangue». Proprio per quelle forme di esaltazione a cui partecipavano tutti i presenti, l'entierro fu abolito.
Come detto, rinacque dopo poco, a Barzio, dove veniva ripetuto, a causa del notevole impegno che richiedeva la preparazione, solo ogni cinque anni.
Alle ultime rappresentazioni era divenuto forte l'afflusso dei turisti che, anziché apprezzare l'ingenuo sapore dell'interpretazione, si dilettavano a motteggiare i poveri artisti paesani, che, demoralizzati, decisero di chiudere la tradizione. Pur non essendovi forme di recitazione, particolari scenici della Passione rientravano anche nelle processioni che si svolgevano in molti altri paesi lariani.
La sera del Giovedì Santo, in Gravedona, il Sant'inter cosiddetto da corruzione di Sant'entierro vedeva la popolazione guidata dai sacerdoti in corteo salmodiare lungo le strade del borgo al seguito di una statua del Cristo morto accompagnata da personaggi della Passione, in costume. Il venerdì sera, a Livo, un Gesù con la Croce sulle spalle, continuamente pungolato da flagellatori, seguito dalla Maddalena e dalle Pie Donne partecipava alla processione popolare e gli si piantava in terra un cavicchio, a giusto intervallo, per farlo cadere. Anche a Vercana, un confratello del Santo Sacramento, vestito di rosso, con una corda in collo ed una corona di spine in capo portava la Croce. A Domaso, invece, ci si accontentava di levare alti su pali gli emblemi della Passione.
Se pittoresche le rappresentazioni sceniche dell'entierro, forse ancora più suggestive erano un tempo, quando l'illuminazione pubblica non turbava il chiarore diffuso del plenilunio pasquale del nostro splendido Lario, le grandi processioni delle pievi rivierasche, che vedevano snodarsi su lunghissimi percorsi segnati dalle fiammelle dei ceri, i cortei delle parrocchie riunite.
Imponenti, fra tutte, quelle del Centro Lago. A Menaggio fluiva, il Giovedì Santo, gente dai paeselli e dalle vallate, da Grandola, da Bene, da Plesio e da Grona guidata dai propri sacerdoti. Unitasi ai menaggini, tutti insieme percorrevano le vie del borgo, portando lo splendido crocefisso della Chiesetta di Santa Marta e la statua dell'Addolorata della Pievana di Santo Stefano, sostenuti il primo dai confratelli del Santo Sacramento, la seconda da quelli di Naggio che ne avevano il privilegio per una vicenda che un'altra volta racconterò.
Anche a Bellagio, il venerdì, tutti della vasta pieve si riunivano nel borgo per una processione comune che, partendo da Pescallo, andava a terminare a Visgnola. E raccontano che, con la scusa di far rivivere gli antagonismi ebraici, quelli di una frazione prendevano occasione per darle di santa ragione a quelli di un'altra, sfogando gli atavici odi campanilistici. E fu quello il motivo che indusse le autorità civili e religiose a abolire la processione.
Al Sabato Santo, il momento della Risurrezione era per tutti solenne: venivano liberate le campane tenute legate durante la morte di Cristo e le si suonavano a lungo per consentire che ciascuno potesse correre al lago o a una fonte oppure al secchio di casa per bagnarsi gli occhi con l'acqua che era considerata benedetta. E in molti luoghi si annodava una corda intorno ad un albero da frutta per legarvi simbolicamente i fiori che erano prossimi a sbocciare, cosicché non cadessero immaturamente.
In Tremezzina, sulla porta della Chiesa il parroco benediva un rotolo di corda per barche e ne staccava il capo con una fiammella: i ragazzi correvano a distribuire pezzetti di quel moncone nelle case, ricevendo regali. E dicevano, poi, che mentre le campane suonano, la terra si apre e lascia rilucere al soie le ricchezze nascoste nel suo seno. All'uomo però non è dato di vederle, perché in quel momento il Signore lo vuole in chiesa, a celebrare la Risurrezione.
Il giorno di Pasqua, dopo la Messa, ciascuno festeggiava in famiglia la solennità: la primavera era ormai vicina, anche sulla montagna si apriva la speranza dopo i duri mesi di privazione dell'inverno. Nel pomeriggio, però, gruppi di uomini e di ragazzi, i componenti della banda musicale soprattutto, che avevano partecipato alla processione, giravano per le case dei più abbienti del paese a fare una suonatina e a raccogliere uova sode e fiaschi di vino. Alla sera, già mezzi ubriachi, si riunivano a cenare e al mattino di Sant'Angelo echeggiavano ancora i suoni malamente accordati dei loro strumenti a flato. Tutto, dunque, anche a Pasqua, finiva come in ogni vicenda umana, triste o lieta che sia: con una buona refezione in compagnia.