Le raggere alla Lucia Mondella allora si chiamavano "spazzaurecc"

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Pietro Pensa, Le raggere alla Lucia Mondella allora si chiamavano "spazzaurecc" in L'Ordine, 18.5.1979.

I nostri vecchi indossavano abiti semplici, spesso poveri, che la fantasia e la civetteria femminile riuscivano a trasformare in preziosi abbigliamenti - Per gli uomini erano di rigore braghe, camiciola e zoccoli

Con le pezze di tele de cà e di mezzalana, con lana e con seta filate, le donne vestivano la famiglia, in totale autarchia. Durante le sere d'inverno assistevi nelle stalle a scene come questa: appesa ad un trave la lüm ad olio; subito attorno, sedute su scagn le donne che cucinavano, generalmente di mezza età; poi quelle, e vecchie e giovani, che filavano; infine, accovacciati per terra su un po' di fieno, per lo più allineati contro le pareti, gli uomini che con i falcetti lavoravano a far gerii, cesti, zoccole, attrezzi. Il più loquace raccontava, gli altri commentavano, o con le parole o con le risa.

L'abbigliamento familiare di tutti i giorni era assai semplice: sotto, la camisole di canapa con lunghe maniche e nessun indumento intimo; sopra, il véstidel di mezzalana leggera, sostituito in pieno inverno, dal negro o lislon assai grezzo e pesante; attorno al collo uno scialletto più o meno grande, ol panel de spal; infine il grembiule, o scosal. Sul capo si teneva ol panel da coo, detto anche, quando di cotone fiorato d'acquisto, panet giardin. Ai piedi si portavano zoccole di legno, chiodate d'inverno, i zocoi dei punc; molto usati in estate erano peduli, o scapin, con suola a strati di stoffa di risulta trapuntati con refe di canapa e con tomaia pure di stoffa, con stringa.

Calze di lana erano adottate nei mesi freddi, sorrette da un laccio sotto le ginocchia: usati di sovente, nell'estate, dei gambali di lana senza sottopiede, talora a tinte sgargianti, con un tratto bianco di lana sopra il ginocchio per impedire alla stoffa ruvida della sottana di irritare la pelle.

Ben diversi erano il costume festivo e quello di nozze particolarmente. Sempre di tela de cà la camise, ma arricchita di merletti e di ricami al collo e alle maniche, con asole accuratissime e con bottoni confezionati a refe; il corpetto ne era sovente crespato e pur esso ricamato. Sopra la camicia, d'inverno, si portava talora una sottanina, o sochine di tela o di mezzalana. Il vestito, o struse aveva sovente la soche, o sottana, di un colore e il busto di un altro, aperto davanti e tenuto da un bindel rosso, per mostrare la peturine, l'accessorio più prezioso del corredo, fiorato o ricamato finemente, con seta e con fili d'oro e d'argento. Lo scosal non mancava neppure nel costume festivo, ma era di lana o di stoffa ricamata, di bella tinta, arricciato in basso a formare il farebalà. Particolarmente belli gli scialli e i fazzoletti da testa; strasciol si chiamava quello, più modesto, che si portava per entrare in chiesa. Bellissime erano certe soche, o sottane, fatte a maglia col filügel filato grosso e di diverse colorazioni.

Graziose le zoccole del giorno di festa, con le due patte allacciate da nastro rosso: le calze erano colorate, generalmente rosse o gialle. La pettinatura della donna, per la quale si utilizzavano gücc de cunscià i cavij, era sempre a trecce arrotolate sulla nuca e fermate con la gale, che le giovani preferivano rossa. Ambito un girocollo di coralli, per le più abbienti di granate con bottoncini d'oro: poveri gioielli che si tramandavano da madre a figlia. Vidi ancora le raggere alla Lucia, che venivano chiamate, con un poetico termine, spazzaurecc.

Nei giorni di lavoro la regiora attaccava con la fibbia alla corege, cintura del vestidel, la bidone, insieme di forbici, chiavi, coltello, ditale e tenaglietta per tirare l'ago. Tale, dunque, era il costume di quasi tutti i paesi montani del Lario sino all'inizio del secolo, abbandonato solo dalle poche famiglie più abbienti dei borghi della riva. La civetteria femminile, naturalmente, giocava molto nel variare i particolari. Vidi delle spose che mettevan gioia a chi le guardava.

In due località vi era un particolare costume: a Premana e nell'alto Lario. A Premana le donne ancor oggi, o per nozze o particolari festività, vestono il costume tradizionale. Ne è l'indumento principe ol morel, abito di finissimo panno azzurro-viola listato alla base da fettuccia rossa; ben lo completavano: la pezze, la pettorina artisticamente ricamata, talora stupenda, passata come cosa preziosa da madre a figlia; ol mocaröl da spal ed ol mocaröl da coo, sciarpa da spalle e fazzoletto da testa, di sgargianti colori, di seta.

Meno fastoso, ma ancor più pittoresco, il costume che portava la Moncecca o Mondunga, la montanara delle Tre Pievi, dell'alto lago occidentale. Gente di incerte origini di cui in seguito scriveremo, tradizionalmente legata a Palermo dove espatriava per lavoro, sembra che le sue donne avessero fatto voto, durante una pestilenza, di indossare, ove fossero scampate dal contagio, il saio delle pinzocchere palermitane, devote a Santa Rosalia protettrice degli appestati. La civetteria femminile corresse con indumenti di gusto ricercato il severo abbigliamento e ne nacque cosi un costume che alla rozza tonaca da penitente unisce motivi sfarzosi. Lo illustriamo con la garbata descrizione di Mariuccia Zecchinelli: «La gonna ed il corpetto, d'un sol pezzo, erano nel rigido panno marrone del saio fratesco, da cui sporgevano, strano contrasto, delle maniche di velluto colorato, con galloni e risvolti in raso, che lasciavano scoperti a loro volta il collo ed i polsi della camicia di tela, ampi ed arricciati, a ricami e a pizzi. L'ambizione femminile e la moda del tempo presero il sopravvento, è chiaro, su quanto si portava ancora dell'acconciatura più antica che non si osava sopprimere per fedeltà al voto. Un alto cinturone di cuoio terminava con una grande fibbia a forma di cuore in metallo lavorato, ma più di questo attraevano, al collo della «moncecca», i numerosi giri di coralli alternati a palle in filigrana d'argento, gli orecchini ad anello in cui erano inscritti una grande «R» in omaggio a santa Rosalia, o un gallo, lo stemma di Palermo. Sulle trecce avvolte attorno al capo un cappello di feltro nero a testa tesa rotonda».

Molto semplice e assai pratico il vestire maschile, simile ovunque, i calzoni, la braghe, così ancora chiamata con termine celtico, erano di mezzalana o, quando possibile l'acquisto, di fustagno, con larga patta davanti, allacciata con quattro bottoni; la camicia di tele de cà, quasi sempre anche in estate, sopra una maglia di lana. Zoccoli, o peduli o scarponi ai piedi, a seconda della stagione; nei paesi più poveri si andava in estate scalzi: vedevi allora piedi incalliti e deformati, quasi mostruosi.

Quando vi era la neve, i boscaioli soprattutto, portavano gli scalzarott, sorta di uose di lana, e il tricotrè, giacchet-tone pure di lana grassa. Alla vita sempre una correggia di cuoio, a cui venivano appesi la fole e la prederà, o corno con cote.

Nelle festività, una camicia più bella; alla vita la zenta, sciarpa rossa lunghissima, sovente di seta, tenuta con un doppio nodo sul fianco e lasciata cadere a mezza gamba, con belle frange. La giacca festiva era semplice; i più abbienti, però la portavano a due ali, come quella dei carabinieri, e la completavano allora con stivaloni alla napoleonica! In testa era d'obbligo el capel trentin, il solo accessorio di acquisto, basso, piano, con un cordoncino a mazzetto: impermeabile, serviva pure a mettervi l'acqua da bere! Osservai sempre la passione degli uomini, non appena le condizioni economiche lo permettevano loro, di indossare nelle festività gilè delle più strane fogge e dei più vivi e svariati colori. Tale gusto mi ricordò, poi, quello degli antichi Celti.

Un tempo, gli uomini tenevano a un orecchio un anellino d'oro, unico particolare prezioso; lo si toglieva a chi moriva per recuperarlo ai figli. Vidi ancora molti vecchi portarlo: mi dicevano che guardava da malanno e che salvava dal morso dei serpenti!