La lavorazione del latte
Pietro Pensa, La lavorazione del latte in L'Ordine, 9.3.1979.
Il formaggio veniva prodotto con metodi primitivi — Unico sintomo della futura industria casearia la presenza di commercianti che raccoglievano prodotti freschi per poi invecchiarli nei propri magazzini — L'invenzione sfortunata del «lattodotto» di Pagnona
La lavorazione del latte, che pure dava in molte zone prodotti raffinati assai richiesti sul mercato nazionale, venne effettuata, sino agli anni tra le due guerre, con metodi primitivi, antichi di secoli e secoli, adottati tanto nella conduzione familiare che in quella avviata alla industrializzazione: sola differenza, per quest'ultima, nel fatto che già alla fine del secolo scorso una rete di commercianti cittadini provvedeva al ritiro dei formaggi, invecchiandoli sovente nei propri magazzini e vendendoli al minuto.
I nuclei familiari, con poche vacche, preferivano sempre una prima produzione di burro, che, per lo più, veniva venduto a prezzi vantaggiosi nei borghi a lago e soprattutto a Como e a Lecco, per essere sovente avviato ancor più lontano: posseggo vari libri di conti di diverse casate dai quali risulta che già nel 1600 e nel 1700 molto burro partiva dalle nostre valli a destinazione di Milano.
Il latte, soprattutto nei monti dei maggenghi, veniva versato dopo la mungitura serale nelle cònche di rame martellato, basse e di grande diametro, della capacità di 30 litri, poggiate su due traverse di legno nei casèi d'ol lacc per esser lambiti dall'acqua, o direttamente sulla neve pressata delle giazzere. Dopo 24 ore o più, a seconda della qualità del formaggio magro che si sarebbe poi voluto ottenere, con una scodella di legno si sgrimava ol pan, ossia si scremava la panna, che veniva messa nella zangola o penacc. Questa, generalmente di trenta litri, col suo pistone di legno che veniva pazientemente tirato e spinto in su e giù, consentiva di ottenere dopo un'ora circa un chilo di burro, o bedùl. Lavatolo e spremutolo, gli si dava la forma e sovente, con uno stampo di legno, si incideva qualche decorazione.
Il latte scremato rimasto nella conca era poi versato nel coldirol di rame, appeso alla scigogne del focolare e intiepidito sino a una trentina di gradi. Si girava allora la scigogne e si cagliava il liquido. Allo scopo veniva impiegato ol quacc de vedèl o de cavrett; tale prezioso caglio era ottenuto uccidendo un vitellino o un capretto dopo avergli fatto bere molto latte; estrattogli lo stomaco, questo veniva appeso vicino al focolare e, dopo risecchito e indurito, tagliuzzato in pezzettini con l'aggiunta di aceto e di sale. Un cucchiaino di simile ingrediente serviva a cagliare 30 litri di latte.
Dopo un quarto d'ora nel coldirol si formava la quagiade, che risaliva a galla; la si spezzettava e rigirava con ol forchett, ramo a varie punte di legno; depositatasi allora in una massa unica sul fondo, la si toglieva con scodelle di legno e la si versava nel singel, forma a lista arrotolata pure di legno, appoggiata sullo spesur, specie di asse inclinato che consentiva una buona scolatura.
Nel coldirol era rimasto il seron, liquido molto fluido; lo si bolliva sul fuoco, gli si aggiungeva il lacc de penacc, ossia il residuo contenuto nella zangola dopo la estrazione del burro; si aggiungeva pure un litro di agre, di cui diremo.
Dopo un minuto di bollitura, si girava nuovamente la scicogne levando dal fuoco il coldirol; veniva a galla allora una sostanza bianca, detto schecce, era versato in un recipiente di legno, o agréer sul fondo del quale dopo non molto si depositava l' agre, destinata non solo a ottenere, in un ciclo successivo la ricotta, come abbiamo esposto, ma anche a condire l'insalata. Dall'agréer si poteva togliere l'agre e versare la schecce in continuità; solo una volta all'anno il recipiente veniva pulito e lavato.
Il formaggio posto nel singel era tenuto un po' di tempo non lontano dal fuoco, perché il calore asciugasse i residui di seron, poi, dopo un primo lieve indurimento, lo si metteva nel casel per la stagionatura, salandolo e rigirandolo ogni due o tre giorni.
A seconda della maggiore o minore scrematura della panna destinata al burro, si otteneva formaggio più o meno magro. Ogni piccolo produttore, poi, aveva i suoi trucchi segreti: in un paese si sapeva assai bene che il formaggio fatto dalla tale o talaltra era il migliore.
Sulle alpi più vaste, là dove si caricavano bestie da latte, si produceva generalmente formaggio grasso; era così possibile ricorrere a quei piccoli centri primitivi sparsi sui pascoli, di cui già abbiamo scritto: il latte veniva subito bollito intero dopo la mungitura.
Specialmente nelle valli orientali, verso Valtellina e Bergamasca, si producevano stracchini, quartiroli o il famoso bitto che, se ben stagionato, concorreva in bontà col «grana». A seconda del tipo di pascolo, mutava il sapore: ad esempio, il bitto era amarognolo dove l'erba era ricca di genzianelle.
La tecnica assai primitiva che abbiamo descritta era comune a tutto il Lario. Solo in Valsassina, già alla fine del secolo scorso, ci si avviava alla industrializzazione. Ricordo la mia meraviglia da ragazzo nel vedere i caseifici e i locali artificiali di conservazione del fondo valle, che già andavano sostituendo le famose grotte naturali con impianti a ghiaccio e con i primi frigoriferi, dove stavano allineati su grandi scaffali centinaia di forme di formaggio. Stavano poi sorgendo là, con elaborate tecniche quali le cagliature composte, con l'impiego di ingredienti chimici, quelle produzioni che avrebbero visto affermarsi in Italia e nel mondo, addirittura in concorrenza con le celebri ditte francesi, i nomi dei Locatelli, dei Galbani, dei Cademartori, dei Mauri e dei Ciresa.
Con il folclore dei nostri calecc primordiali, del nostro preziosissimo quacc cavato dallo stomaco dei vitellini da latte, si sarebbe anche perduto, per i buongustai, il profumo e il sapore delle squisitissime robiole, dello stracchino ammuffito invecchiato nelle grotte di montagna dove alitava l'aria fredda dal prolondo, del quartirolo tratto dal latte della quarta grassa erbagione, dalla crosta rosata appesantita dalla barite delle miniere di Cortabbio!
A dire il vero, si tramanda che qualche tentativo di progresso era già stato fatto anche in antico, e proprio dalla gente di Pagnona, l'eterna canzonata della Valvarrone, bravissima gente né sciocca né cattiva, solo assai schiva e forse una volta un poco credulona.
Narrano infatti che gli uomini di quel villaggio ebbero un giorno la geniale idea di costruire una condotta che facesse scendere il latte dalla loro alpe di Subiale, posta 300 m più in alto, sino alle case del paese, tecnica che solo oggi si realizza in qualche luogo con lunghissimi tubi di plastica. Detto fatto, quella brava gente posò con gran cura coppi di argilla cotta, uno dietro l'altro, fissandoli al terreno. Conclùsa l'opera, in gran segreto per suscitare poi meraviglia tra gli abitanti dei dintorni, venne dato ordine alle donne di prepararsi con le secchie a raccogliere il latte e di attendere il segnale dell'operazione che venne dato subito dopo la mungitura. Molta era l'attesa, ma dal basso le donne non diedero a loro volta l'avviso, come concordato, che il fluido prezioso era arrivato a destinazione. Gli uomini allora scesero lungo il canale e videro che attorno ai coppi volavano nugoli di mosche. La caccia agli insetti fu spietata; solo quando si fu sicuri che tutti erano morti, il giorno dopo l'esperimento venne ritentato: nessun risultato, neppure questa volta! Prova e riprova, alla fine, sconsolati, quelli di Pagnona disfecero il condotto.
Nei villaggi attorno se ne rise e se ne rise per secoli e ancora si rideva quando ero ragazzetto, perché si era poi saputo che i coppi erano stati posati alla rovescia, quello più in basso non sottoposto al superiore ma appoggiatovi sopra!
E già che ho raccontato questa storia, ne narrerò un'altra sempre a proposito di pastori, perché si sappia che nei paesi confinanti non sempre si era malevoli con quelli di Pagnona, ma si riconoscevano i pregi della loro semplicità. Vi era, dunque, a Pagnona, un capraio che possedeva un bellissimo bech, un caprone dalle lunghe corna, dal pelo lucido che cadeva sino in terra, come altro mai si era visto. Sentilo lodar da questo, sentilo magnificar da quello, il povero capraio pensò che a venderlo avrebbe guadagnato un sacco di quattrini e sarebbe uscito di miseria. Detto fatto, decise di condurlo nientemento che alla fiera di Gravedona, la più celebre in tutto il Lario. Partì a notte e camminò per ore ed ore tirandosi dietro il caprone con la cordicella. Giunse a quel borgo illustre che il giorno era già alto. Stanco ed assetato, legò la bestia a un alberello ed entrò a bere un goccio in osteria. È bene che il caprone aveva sete pure lui; tira e tira, strappò la cordicella e si avviò lungo il lago; il sole era forte e quando vide aperta una gran porta tutta in ombra , vi si infilò: era la chiesa di Santa Maria del Fiore; l'attraversò e, giunto sull'altare, si distese sul marmo fresco che dava refrigerio.
Nel tempio vi era solo una donnetta, che scorgendo le corna della bestia accovacciata e gli occhi verdi e fissi pensò subito che fosse il diavolo in persona e corse gridando dall'arciprete. Chiama i canonici, tutti mettono i paramenti di liturgia e in processione vanno all'esorcismo.
Giunti sulla porta, il sacerdote cominciò a scongiurare, ma il demonio restava immobile all'altare. Accorreva intanto tutta la popolazione del borgo e con quella anche il capraio, incuriosito dall'avvenimento. Si fece strada fra la folla e giunse finalmente presso l'arciprete. Vide il caprone, mise in bocca due dita e fece un gran fischio: l'animale allora si sollevò e attraversò trotterellando la chiesa e venne tranquillo dal padrone. Da quel giorno, e per secoli, per dire che una cosa semplice serve talora più di una complicata si adottò sul Lario questa sentenza:
Var püsé el siful del cavrer de Pagnona
Che tùcc i scongiürament del prevost de Gravedona.
Tanto per finire, ne racconterò ancora una, sempre a proposito di bestie, ed è quasi patetica e mi hanno assicurato che è accaduta per davvero, neppur tanto tempo fa, nel secolo passato.
Un pastore, dunque, sempre della Val Varrone, e spiegherò un'altra volta le ragioni che legavan quella valle all'alto lago d'occidente, vendette una sua mucca al mercato di Gravedona. L'animale era sano e dava una ventina di litri di buon latte, cosicché l'uomo se ne tornò con un bel gruzzolo di denaro. Se non che, la bestia scappò dalla stalla del nuovo padrone, scese sino al lago, l'attraversò a nuoto sino a Dervio e tornò in Val Varrone. Il fatto era straordinario e in tutti i paesi se ne parlò per decenni e lo raccontarono anche a me.
Qualche tempo fa, ho visto in una stalla modello degli Stati Uniti d'America una vacca da latte gigantesca, che ho poi fotografato, e le poppe tutte gonfie eran sostenute da sopporti idraulici che automaticamente si aggiustavano a seconda del peso che vi gravava. La produzione era di 140 litri alla giornata: vera macchina da latte! Mentre la guardava e uno strano malessere mi prendeva, pensavo alla cara mucca della vicina Valvarrone che aveva sfidato il braccio del nostro lago per tornare agli scomodi pascoli delle nostre montagne, e quasi mi commuovevo!