La "civiltà della filanda" venne lasciata alla Brianza

Centro di documentazione e informazione dell'Ecomuseo delle Grigne

Articolo pubblicato da Pietro Pensa in L'Ordine, 11.5.1979


Durò poco ed ebbe scarso peso la produzione della seta - In alcuni paesi rivieraschi i bachi venivano messi su un tavolo in cucina perchè godessero di un tepore costante - Bambine di sei anni lavoravano quattordici ore al giorno per portare a casa un «sesin»


Per completare il quadro dell'attività delle nostre donne nella preparazione dei fili per tessuti, dovremmo soffermarci sulla produzione della seta. Diciamo subito, però, che si i tratta di un folclore assai più della Brianza che del Lario. Se è vero, infatti, che la cultura della galèta era diffusa lungo tutte le rive del lago, non solo, ma era penetrata anche nelle vallate montane, tanto che si vedevano filari di gelsi, incannatoi e filande persino in paeselli interni a 900 metri di altitudine, pure l'animo della gente del Lario fu sempre estraneo all'attività serica, attrattovi per necessità di guadagno, ma lontano da una vocazione.

L'allevamento dei bachi era operazione che ripugnava, condotta qual era nell'interno delle case stesse delle famiglie che vi si dedicavano; pochi, e solo nel dintorno dei borghi rivieraschi, erano i piccoli produttori che possedessero appositi locali. Messa la semente a San Giorgio o a San Marco a schiudere sotto il materasso, al calore naturale del letto che veniva tenuto sfatto anche di giorno, i bruchi nascevano attorno al 5 maggio. E subito ci si affannava ad alimentarli con foglie di gelso tritate. In una quarantina di giorni i bigatt passavano le mùde, dormendo e risvegliandosi quattro volte. Il taol su cui erano allevati veniva tenuto in un angolo delle cusine perchè occorreva un tepore costante; raramente veniva posto nella stalla, poiché in quella stagione il bestiame era già stato condotto sui munt.

Le dormite del baco erano dette de la prima, de la segunda, de la terza, de la quarta o , de la grossa, dal che i modi di dire per uno che dorma sodo. Sino a giugno l'intera famiglia era occupata; quando, all'ultimo, il baco diventava voracissimo, occorreva somministrargli sei volte al giorno la foglia tritata, fresca ed asciutta; e quale attenzione alle formiche, le grandi avversarie!

Se l'allevamento aveva esito felice, e quanti i pregiudizi e le superstizioni in proposito, tutti importati dalla Brianza, a giugno giungevano gli agenti delle ditte a raccogliere i bozzoli; allora un buon gruzzolo di soldi, il primo denaro della stagione, compensava della fatica ed anche dei motteggi dei molti che, esclusi dall'attività perchè non possedevano gelsi, avevano disertato le case dei produttori per il gran puzzo che i bachi vi diffondevano.

La trattura e la filatura della seta era ormai, nella seconda metà del secolo scorso, diventata attività industriale. Qualche raro fornello a fuoco diretto, dei molti che un po' ovunque erano attivi presso le famiglie tra il 1700 e il 1800, rimase sino alla prima grande guerra per il trattamento dei bozzoli scarti e ne uscivano i bellissimi indumenti serici grezzi che, colorati, tanto abbellivano i costumi festivi locali.

Negli ultimi decenni del secolo scorso filande, torciture e incannatoi sorsero un po' ovunque sul Lario, sotto la vivace spinta della speculazione industriale. Si addensarono soprattutto attorno alle rive dell'alto lago occidentale, del centro lago orientale e in Tremezzina, ma non ne mancarono neppure, come detto, nel più interno delle valli montane. E vedevi allora le nostre donne lavorare 14 ore al giorno per guadagnare sessanta centesimi; ben poca cosa che frenò d'altronde l'emigrazione in America. Anche le fanciullette, e non mancavano persino di sei anni, andavano alla filanda e le ricompensavano e con un sesin al giorno; cessavano il lavoro per un paio di ore, una maestra faceva loro scuola, poi subito riprendevano l'attività. Tornavano la sera alle case, stanche come i loro fratelli che erano, andati a legna con i padri, ma quanto più intristite dall'ambiente chiuso e malsano!

Immalinconivano, le nostre povere donne e delle canzoni diffusesi dalla Brianza cantavano le più tristi, che bene esprimevano la loro ribellione a dover rimanere racchiuse tutto il giorno, sotto padrone: 0 mama mia, tegnimm a cà Che mi 'n filanda vöi pu andà. La filanda l'è una presun, La filanda l'è di vilan!

In principio di questo secolo la rivolta allo sfruttamento cominciò a serpeggiare anche sul Lario. Rammento, e non avevo dieci anni, uno sciopero di donne in un paesino di montagna: se ne andarono in processione dall'incannatoio alla chiesa, sventolavano una bandiera tricolore e una rossa e cantavano a ricorrenza «Bandiera rossa...» e «La bandiera dei tre colori...». Il riunire i due vessilli e i due ritornelli era, infine, una prova più di freschezza che di ingenuità. Il proprietario della filanda, che non aveva più tornaconto a gestire l'opificio, vecchio ormai di quarant'anni e quindi bisognoso di innovazioni, prese occasione del gesto per chiudere. Nell'anno che seguì infittirono le immigrazioni in America da quel paesello.

Il dopoguerra segnò il crollo del setificio, ormai troppo minato dalla concorrenza giapponese e dalla scoperta della seta artificiale. Ad una ad una le filande chiusero quasi tutte. Poi con le grandi risorse della nostra gente, si trovarono vie nuove.

L'esperienza del setifìcio fu presto dimenticata; il lavorare sotto padrone era stato un impatto troppo forte per la nostra millenaria mentalità; ancor oggi le vecchie, e non sono molte ormai, scuoton la testa, rifiutan di parlarne: «Me regordi pü» dicono.