Il rifiorire dei Balbiani nella loro terra d'origine

Centro di documentazione e informazione dell'Ecomuseo delle Grigne

Articolo pubblicato da Pietro Pensa in Clavenna, XXVII (1988), pp. 190-193.


Antonio Balbiani (1838-1889)
Accompagnati sino all'estinzione i rami dei Balbiani legati, come suol dirsi in termini araldici, o per diritto di sangue o per pretese nobiliari, ai conti di Chiavenna, riprendo l'argomento con questo mio terzo intervento su «Clavenna», sia per illustrare il rifiorire del casato sul Lario che gli aveva dato origine, sia per mettere in luce una figura che mi piace affiancare a quella del conte Giovanni per le caratteristiche proprie della famiglia, di grande amore alla propria terra, di intenso dinamismo, di salda volontà di emergere: voglio dire di Antonio Balbiani, di cui nel 1989 si celebra il centenario della morte.

Alla fine del 1500, come in precedenza scrissi, scomparvero i Balbiani in Varenna con Ludovica, nipote del conte Giovanni; in nessuno «stato d'anime» del tempo di san Carlo appare infatti un Balbiani in diocesi di Milano. È da pensare, quindi, che i Balbiani di Varenna fossero passati in Lierna, cosa probabile perché il territorio di quel vicino paese era allora tutto possesso dei Varennati, mentre si discuteva con Mandello la sua appartenenza alla diocesi di Como, la quale curò l'anagrafe parrocchiale solamente con il vescovo Ninguarda, a partire cioè dal 1600.

Proprio da Lierna, dove ancor oggi i Balbiani fioriscono, si staccò un ramo, stanziandosi prima a Dervio, poi a Bellano.

Nel grosso borgo della riva orientale Antonio Balbiani nacque l'8 ottobre 1838 da Bernardo, proveniente da Dervio, e da Marta Conca. Di lui una piccola lapide in via della Dispensa, oggi via Volta, indica la casa di nascita, allora data in affitto dal proprietario Domenico Loria; un'altra lapide fu murata nel 1938 in occasione del centenario della nascita e al Balbiani fu intestata una strada di Bellano.

È tutto qui quel che rimase di lui ma si meritò ben altro. Forse nel 1989 Bellano gli darà l'aureola che gli compete.

Nato dunque, primo di quattro fratelli e di una sorella, da genitori indicati quali «negozianti», mentre il padre più tardi apparirà come «commesso postale», Antonio fu mandato a studiare a Como nel seminario diocesano, secondo il costume di chi avviava un ragazzo agli studi senza avere possibilità finanziarie. Vi uscì nel 1858 con il diploma di maestro elementare e subito si recò a Milano, dove si viveva la vigilia della liberazione dagli Austriaci. Venuto presto in sospetto ai dominatori, passò a Torino, dove intendeva arruolarsi nei Cacciatori delle Alpi. Impossibilitato a far ciò per motivi di salute, dopo la liberazione tornò a Bellano, e da qui a Milano dove sposò Maria Mangiagalli. che morì prematuramente lasciandogli una figlia, Virginia, destinata a farsi monaca.

Nel capoluogo lombardo iniziò il suo frenetico lavoro di scrittore che si occupava di tutto: romanzi, novelle, compilazioni storiche e di economia, istruzioni per artigiani e per agricoltori, pubblicati da diversi editori, particolarmente da Politti e Pagnoni, e collaborò con giornali e riviste.

Sempre irrequieto e disordinato, nel 1868 si stabilì a Como, insegnando belle lettere nelle scuole commerciali dell'istituto Roncoroni. Entrò in relazione con persone di cultura della città, tra le quali Antonio Bertolini che alla sua morte avrebbe scritto una commovente biografia di lui. Resosi però conto che l'insegnamento non era adatto per lui, tornò a Milano e nel 1880 si trasferì a Vigevano per dirigere il giornale «Il libero operaio. Lavoro e libertà». Schiettamente democratico, di tendenze già verso sinistra, incontrò contrasti nel mondo agricolo imprenditoriale della Bassa, tanto che presto tornò a Milano, inutilmente invitato ad abitare con lui dal fratello Rinaldo che viveva a Briosco.

Sul Lario inizia ad essere conosciuto, particolarmente per il romanzo «Lasco, bandito della Valsassina», pubblicato in dispense dall'editore Pagnoni nel 1871 e poi ripetutamente ristampato: opera che ha una certa originalità a differenza di quelle che subito seguirono come continuazione de «I promessi sposi» e che gli valsero la taccia da Giosuè Carducci di essere «un manzoniano che tira quattro paghe per il lesso».

«Lasco», imperniato sul leggendario «buon signore» che, sfruttando la paura suscitata dalla «caccia selvatica», rapinava coi suoi bravi la povera gente, divenne il «romanzo nazionale» della Valsassina, letto e riletto durante le sere invernali nelle adunate delle stalle, e fu popolare in tutti i paesi del Lario. Ma l'opera più importante del Balbiani fu «Como, il suo lago, le sue ville e le sue valli descritte e illustrate», pubblicato nel 1877 dal Pagnoni di Milano; costatogli sette anni di fatica, pur con tanti svarioni, in una arruffata raccolta di notizie, di leggende e di aneddoti, è una preziosa testimonianza del Lario di cento anni fa e un caldo atto di amore del Balbiani per la sua terra.

Gli anni migliori dello scrittore furono quelli che seguirono il 1880. Erano i tempi aurei del turismo, che segnarono l'inizio del giornalismo sul Lario. Giuseppe Gianella aveva avviato l'albergo «Bellevue» a Ca-denabbia, i Mella e i Genazzini si impegnavano a Bellagio, i Balbo a Menaggio; accanto ai turisti inglesi affluiva sul lago la ricca borghesia europea e quella italiana; la navigazione non cessava di iniziativa sull'acqua e sui trasporti a cavallo per strada.

Antonio Balbiani si stabilì a Tremezzo e fondò «Il nuovo Lario», giornale di quattro pagine su due colonne, stampato dalla tipografia Viganò di Lecco. Uscito per la prima volta il 12 aprile 1884, per sei anni ogni domenica giunse nelle case dei paesi del Lario.

Furono gli anni di vero giornalismo del Balbiani, oggi giustamente considerato pioniere del giornalismo lombardo e ladano. Redigeva personalmente le «Cronache del borgo» e gli «Echi» di altri centri lacuali; si occupava di scuole, di problemi agricoli e scriveva: «Troppi monumenti sorgono in Italia per lodare il re vittorioso; ne basterebbe uno solo a Roma; l'Italia abbisogna di bonifiche, non di marmi superflui». Era veramente un precursore, che non mancava mai dove la sua presenza poteva essere utile. Sostenne anche campagne elettorali, pur giungendo a un compromesso con le sue idee.

Era però una vita difficile per un foglio locale; nel 1887 cambiò testata, diventando «Corriere del lago di Como, di Lecco, della Brianza, delle valli, dei monti», ma, cresciuto l'impegno redazionale, non sostenuto da parlamentari, il giornale, data anche la crisi industriale in corso, dovette chiudere.

Il Balbiani, ormai in cattive condizioni di salute per tabe enterica, si dedicherà a ogni umile fatica: poesie per sponsali, elogi funebri, reclame per ristoranti e persino a far da guida ai forestieri, allo scopo di avere di che vivere.

Morì improvvisamente a Bellano il 19 agosto 1889: un uomo fallito, che aveva tentato invano quando purtroppo era ancora prematuro. La sua bibliografia elenca cinque traduzioni e una cinquantina di opere, poche brevi, molte voluminose, di centinaia di pagine sui più svariati argomenti: un vero monumento di operosità in trent'anni di lavoro!

A condurre nel 1989 le celebrazioni del centenario della morte di Antonio Balbiani sarà il dottor Paolo Balbiani, il secondo sindaco di Bellano della famiglia in questo secolo. Già funzionario della Comunità europea, egli è stato chiamato in questi mesi a preparare l'ingresso italiano nel nuovo parlamento. Tipica figura dei tanti Balbiani che fioriscono ora sul Lario, pubblici amministratori, professionisti e imprenditori, gente capace ed impegnata, egli con tutti i Balbiani guarda con simpatia a Chiavenna, sia perché quella città ha illustrato il loro nome, sia perché la vede impegnata nell'ottenere il traforo dello Spluga, opera che, se realizzata, sarà una fortuna non solo per la valle della Mera, ma per l'intero Lario.

Bibliografia essenziale
A. Bertolini, Antonio Balbiani, «Almanacco della provincia di Como», 1890.
D. Severin, Antonio Balbiani, «Communitas», 1977-78.
L. Lombardi, Antonio Balbiani: la vita e le opere, «Archivi di Lecco», 1988, n. 4.