Il pastorello salvato dal diavolo con panni filati in tempo benedetto

Centro di documentazione e informazione dell'Ecomuseo delle Grigne

Pietro Pensa, Il pastorello salvato dal diavolo con panni filati in tempo benedetto in L'Ordine, 22.12.1978.

Numerose festività erano dedicate ai fanciulli che approfittavano della benevolenza per ricevere più regali possibile - Ogni perìodo era buono per fare festa e per rivivere le tradizioni — Ogni istituzione per i bambini era opera di benefattori

Le nonne, per tener quieti la sera i nipotini, raccontavano le fiabe: fiabe che si riattaccavano alla tradizione dell'Occidente nordico ma che avevano qualche gustosa variante locale.

Il lupo e la volpe, eterni protagonisti, entrano un giorno nel locale di una baita di montagna: al fresco su un rivo d'acqua sta una grande conca di rame piena di latte. La volpe dice al compagno: «ci sono foglioline e bacchetti, lascia che li ripulisca!» e si lecca la panna. Il lupo attende, poi beve tutto il latte scremato. Sopraggiunge il pastore: la volpe scappa dal pertugio da cui i due sono entrati, ma il lupo, fatto gonfio dal liquido trangugiato, non riesce a passare e si prende sonore legnate, sino a che, ridotto a pellaccia, può infilarsi lui pure nel passaggio. La volpe, frattanto, in attesa nel bosco vicino, ha mangiato nocciole e coi gusci ha fatto una collana infilandosela poi attorno al collo. Quando vede giungere il lupo zoppicante, scuote la collana e dice: «Pur io son stata bastonata: senti come mi scricchiolano le ossa!». Preso da compassione, il lupo credulone fa salire la compagna sulle spalle e, zoppicando, la porta con sé nel ritorno. Concludevano le nonne, con la saggezza dei vecchi: Are are per ol pian, ol malàa al porta ol san! Vai vai per la piana; il malata porta il sano!.

Non appena in grado di prestare qualche aiuto ai genitori, i ragazzetti erano avviati al lavoro; col loro gerletto in spalla, dentro un po' di polenta e un pezzetto di formaggio magro, venivano mandati sui monti a custodire mucche, capre e pecore.

Mi raccontavano i vecchi che quando si recavano sui monti più alti portavano con sé campane ed oggetti di ferro, atti a levare rumore, per tener lontano l'orso, allora tutt'altro che infrequente. E che non fossero fole i loro ricordi mi è confermato da un diario di allora, in mio possesso, su cui è annotato che nel 1867 fu ucciso un orso; per non andare più indietro, al 1700. secolo in cui la morte dei pastorelli per opera di lupi e orsi è documentata, tanto che il governo austriaco pagava un premio per la loro cattura.

Ne mancavano storie e leggende ad impaurire i poveri ragazzi perché facessero giudizio.

Non era cattivo il pastorello che portava ogni mattina le capre nella valle grande, ma aveva il gran difetto di non ascoltare i consigli dei genitori: il padre gli raccomandava di non abbandonare mai il branco perché era facile smarrire qualche animale nelle forre del monte; la madre, poveretta, nel dargli un indumento benedetto per guardarlo dal malanno, lo faceva attento a non disubbidire e a pregare la Madonna perché lo proteggesse. Il ragazzo. però, appena poteva, lasciava in custodia al cane il piccolo gregge e correva a giocare con i compagni nell'alpe più vicina.

Un giorno di settembre, ritornando verso sera a radunar le capre, ebbe la sorpresa di trovar mancante la più bella. Atterrito al pensiero della punizione, il poveretto riportò il branco nella stalla del paese e tornò di corsa sulla montagna; era già buio e lui vagava pei burroni lanciando il suo richiamo.

Finalmente dal fondo di un dirupo gli giunse il belato della capretta. Aggrappandosi alle rocce, la raggiunse e se la mise sulle spalle. Mentre risaliva con gran fatica, una voce profonda e cavernosa giunse dall'altro versante della valle: Pesegh adoss! Al che la capretta belò lamentosa: Nu poss, nu poss! El gh'a la vesta filada n'i Tempur adoss!

Il pastorello comprese di avere sulle spalle il diavolo incarnato e che lo facevano salvo i panni filati dalla madre in tempo benedetto. Gettò il capretto, e a gran corsa, piangendo di paura, scese al paese. Prima di giungervi, incontrò i genitori che, in grande apprensione, erano usciti a cercarlo; con loro era la capretta smarrita, trovata mentre da sola tornava all'ovile. Raccontavano che da allora il pastorello seguì i consigli del padre e della madre; e il suo caso era additato a tutti come esempio ammonitore.

Anche per i più grandicelli non cessava l'affettuoso interessamento di genitori e padrini: ne sono prova le numerose festività a loro dedicate.

Il primo giorno dell'anno, essi andavano attorno in comitiva, casa per casa, chiedendo: Bon dì bon ann / Cosa me div por cap d'ann?. Chi regalava qualche frutto, chi una focaccetta dolce.

In molti villaggi, alla vigilia del sei gennaio, giovanetti camuffati da re Magi, su muli, con seguito di paggi e di pastori, con lanterne e stella cometa issate su pali, percorrevano le viuzze a suon di cornamusa, sino al sagrato della chiesa. I bambini, dopo averli seguiti festosi, correvano dai padrini portando loro un calzetto, in cui la "Pefanie", brutta vecchia strega, avrebbe deposto qualcosa nella notte, durante la sua corsa per i cieli a cavallo di una scopa, Al mattino era tutto un andirivieni coi calzetti in mano e le domande si incrociavano: Cosa t'ale cagà a ti?.

Nell'ultimo giorno di gennaio, con l'aiuto dei grandi, i ragazzi fabbricavano con stracci due pupazzi in abito da sposi, riempiendoli di paglia: il ginér e la ginéra. Al far della sera li portavano attorno per lo strade dei paese tra schiamazzi e suoni tratti dai corni; l'allegra processione si concludeva davanti alla chiesa, dove veniva dato fuoco ai fantocci, per celebrare ia fine dell'inverno; usanza certamente di vetusta origine pagana.

II giorno della Candelora, i bimbi, vestiti con quanto di meglio avevano, venivano condotti dai padrini a ricevere la benedizione della gola, con anticipo di un giorno sulla testa di San Biagio protettore. Il cinque febbraio seguente, i più poveri andavano in gruppo da casa a casa chiedendo la santagate; ricevevano qualche leccornia.

Ancora: a San Giuseppe, all'immediata vigilia della primavera, una grande processione di bimbi, suonando campani e battendo tra loro cocci e ferri, girava per i prati attorno ai paesi a ciamà l'erba, a propiziare cioè una felice stagione agricola; usanza pur questa di certa origine pagana. Al ritorno ricevevano in dono castagne. L'arrivo delle intense occupazioni estive interrompeva, naturalmente, ogni festa per i fanciulli.

All'inizio di questo secolo cominciarono a sorgere asili infantili, grazie ai lascito di qualche persona benefica. E furono le prime costruzioni civili, intonacate, dei paesi vallivi.

La popolazione prestava mano d'opera gratuita. Si chiamarono le suore per la gestione e fu meraviglia vedere, a poco a poco, trasformarsi l'aspetto dei nostri bambini, ormai tutti con il loro grembiuiino, con calze e con scarpe, sempre offerte da benefattori. Invalse l'abitudine di cogliere ogni occasione per sopperire alle spese dell'istituzione: dopo un funerale, i parenti del defunto si sentirono in obbligo di donare una somma, piccofa che fosse; i giudici di pace punirono i colpevoli, multandoli a favore dell'asilo. Cosi, dalle radici, si iniziò il cammino verso una vita migliore.

Più di tutto, pero, furono le scuole, già vive talora da secoli, a preparare silenziosamente il futuro: argomento di alto significato, che tratteremo più avanti, sullo sfondo del quadro che stiamo tracciando della vita paesana di ogni giorno.