Il folclore della metallurgia
Pietro Pensa, Il folclore della metallurgia in L'Ordine, 22.6.1979.
Il «maglio del Carlino di Cortenova» - gigantesco martello settecentesco orizzontale - è ora esposto al Museo milanese della tecnica - L'estrazione del ferro, nel Basso Medioevo, nelle Valli di Buggiolo e Cavargna - I Celti e la «vena» del Varrone, - Una meticolosa struttura per regolamentare le cave, l'uso dei forni e dell'acqua per l'azionamento dei mantici - Una società nata nel 1862 e finita male
Non sarebbe certamente comprensibile lo straordinario e rapido adattamento della gente del Lario alle forme più positive dell'economia moderna, nel costante rifiuto peraltro degli aspetti deteriori della stessa, senza conoscere quel che rappresentò nel passato per tutto il territorio l'arte del ferro. Nel formulare tale concetto, richiamo l'attenzione al fatto, su cui pochi meditano, che se il turismo è oggi la forma di attività più appariscente delle rive e delle valli, il suo peso economico non è affatto il maggiore, superato come è, e largamente, da quello attinente ad industria e commercio.
Il folclore della metallurgia, veramente, è più del passato remoto che di quello prossimo; pure, troppo profondamente incise per non soffermarsi a valutarne le molteplici e complesse forme che lasciarono profonde eredità alle popolazioni. Del resto, se il fervore della siderurgia si spense nella prima metà del secolo scorso, le braci dell'arte continuarono ad ardere sotto le ceneri del grande crollo, e poterono cosi rivificarsi rapidamente in questo secolo, non appena le condizioni ambientali diedero materia ed ossigeno.
Non molti oggi sanno che vi fu un tempo in cui l'arte armoraria di Milano, allora tanto celebre quanto lo è oggi l'industria dell'automobile di Torino, ebbe quali grandi fornitori di semilavorati la Valsassina, le valli e le sponde dell'alto lago occidentale, la stessa Valassina; pochi sanno che tutto il territorio lariano ne era interessato, con apporti diversi e con il commercio; pochi sanno che grandi industrie lombarde ed addirittura nazionali, quali la Redaelli e la Falck, emigrarono al piano dopo esser nate ed aver preso vigore sul Lario, dove, d'altronde, restano ancora notevoli e numerosi complessi, medi e piccoli, che traggono la loro linfa da secolari radici. Più che una storia, sulla quale, sia pure disordinatamente, si è scritto, occorrerebbe intessere addirittura un poema, tanto è mitica quella straordinaria attività che, prendendo origine dagli alti monti, scendeva ad investire tutto il territorio, dando lavoro e sostentamento all'intera popolazione forgiandone il carattere nel superamento delle difficoltà di natura, affinandone lo spirito di ricerca e di inventiva, mettendola in contatto col mondo industriale e commerciale di allora.
Cercherò, brevemente, di tracciare un quadro che serva a sintetizzarne il folclore.
Ero vicino a compiere i sei anni quando, in un principio di giugno, mio padre mi condusse per la prima volta sulla Grigna maggiore. Giunti alla testata dell'orrida valle Molinera, là dove si ergono le guglie del Frate della Monaca, udii salire dal basso, dove si vedeva un triangolino di Valsassina tra le costiere dei monti, alternato al richiamo del cuculo in successivi intervalli, un ritmico battere di colpi. Mio padre mi spiegò che era «il maglio del Carlino di Cortenova». Oggi quel maglio, un gigantesco martello orizzontale settecentesco mosso da una ruota ad acqua, è esposto nel Museo della Tecnica di Milano, vistoso emblema dell'arte leggendaria del ferro lariano. Era, allora, l'unico glorioso superstite del fiorire siderurgico sotto la vecchia Austria.
L'udii ancora durante il primo conflitto mondiale, sempre salendo sulla Grigna, ma allora i suoi colpi, che battevano zappe per il Gennaio militare, si alternavano ai cupi boati di cannone provenienti dall'Adamello. Cessò il suo lavoro secolare quando il «Carlino» morì ed i figli impiantarono una moderna forgeria, oggi in piena attività.
L'estrazione del ferro, dunque, fu antichissima. Ad occidente, nelle valli di Buggiolo e di Cavargna, così come in Valassina, se ne conosce la presenza dal basso medioevo; ma forse fu assai più antica, perché, se Como era celebre ai tempi di Plinio per la qualità delle lame di ferro che vi si forgiavano, una tale tradizione ferriera doveva certamente affondare le sue origini in una provenienza locale del metallo, sia pure sostituita più tardi, durante l'impero, da un'importazione dalla Spagna. Sui monti orientali del Varrone, poi, la vena era già estratta con ogni probabilità dai Celti. Documentazione scritta si ha dai principio di questo millennio. Già allora mostra alcuni aspetti caratteristici che rivelano una mentalità industriale in atto da tempo: miniere, forni, fucine grosse, infatti, sono gestiti in consorteria.
Tale sistema, che vede i comproprietari disporre ciascuno di una frazione di cava, di determinate giornate di forno, di un preciso numero di ore di acqua per l'azionamento dei mantici, si manterrà a tutto il 1800, trascinandosi addirittura, per le trafilerie di Lecco, sino ai primi decenni di questo secolo, vera e propria antichissima forma di società per azioni. Dal che, una letteratura vasta di rogiti notarili di vendite, di trapassi, di divisioni ed anche di liti, testimonianza viva di un pensare sensibilmente moderno.
L'unirsi in consorteria provenne certamente dalla necessita di disporre di capitali, in contrasto con la relativa povertà dei singoli, nonché dal fatto che i diritti a cavare minerale appartennero sempre allo scopritore. Il che, peraltro, portò sempre un diffuso interesse di tutti alle ricerche. In ogni tempo troviamo concessioni, tentativi di sfruttamento di vena, quasi sempre condotti in società; pochi, naturalmente, fortunati.
Solo nel 1600 incontriamo famiglie di ricchi e di prepotenti cercare di accaparrarsi il monopolio dell'arte, con tutta una serie di paurose contese, di delitti e di soprusi che altrove racconterò. Nel 1700, però, con la presenza dell'Austria ritornò la normalità e fu tutto un fiorire nuovo di ricerche a cui partecipavano anche i più umili. Tale ne scaturì una mentalità, che anche dopo il crollo ferriero della metà del 1800, non si volle abdicare alle ricerche e una società nata nel 1862 raccolse ovunque azioni. Purtroppo, finì male.
Il ricordo delle miniere si spense a poco a poco. Le millenarie buche si chiusero, franamenti nelle lunghissime gallerie resero impossibili ricerche anche agli studiosi. Solo nei paesi alti si continuò a favoleggiare ancora e qualche antica vicenda passò dalla storia alla saga.