Il dramma di tre infelici "fraini" che stavano scavando l'Alto Varrone

Centro di documentazione e informazione dell'Ecomuseo delle Grigne

Pietro Pensa, Il dramma di tre infelici "fraini" che stavano scavando l'Alto Varrone in L'Ordine, 29.6.1979.

Soffocati in galleria da un'improvvisa valanga nell'inverno del 1785 hanno dato il nome al Passo delle Tre Croci, una bocchetta obbligata sul cammino verso il Pizzo dei Tre Signori - Il minerale scavato era portato a spalle, nei gerli delle donne verso i barconi del lago e, poi, su al forno di Premana, dove il lavoro era regolamentato da una saggia legislazione austriaca

Narrerò, dunque, un fatto che, realmente accaduto, arricchito e accarezzato dalla commozione popolare, è oggi leggenda. Certo più di una cronaca, esso dà il quadro di quella che fu la vita dei minatori sugli alti monti del Varrone.

Svettano lassù, sotto un cielo sempre luminoso, da cui le nubi scendono a giocare tra le creste, levandosi da una testata di valle a 2200 m di altitudine, alcuni pizzi aguzzi, di sedimentano continentale rossiccio e bruno che sfascia di anno in anno in una degradazione impressionante. La neve li ricopre ad ottobre ed anche prima; a giugno inoltrato, vaste lingue bianche evaporano ancora al sole e si fanno in torrentelli che scendono a formare il Varrone. Anche all'interno del monte le acque colano tra le fratture, cosicché vano era, con i poveri mezzi di un tempo, tenere asciutte le gallerie che si andavano scavando. L'opera dei minatori si svolgeva perciò nel pieno inverno, freddissimo a quelle altezze ed asciutto.

Le «compagnie», ingaggiate con un contratto che dava loro il cibo e la polvere, pagandone il lavoro con una quota di vena, salivano lassù dopo le ricorrenze dei Morti. Erano formate ciascuna da due «fraini», o cavatori, e da un «garzone», il cui compito sarebbe consistito nel portare all'aperto il minerale staccato in galleria.

La loro partenza per la montagna avveniva generalmente il 3 di novembre. I vari gruppi si adunavano nella piazza di Introbio, dove pure si affollavano i conducenti che li avrebbero accompagnati sino alla miniera con muletti carichi di polvere da sparo, di farina, di formaggio, di panni e di qualche povera masserizia.

Alla partenza era presente quasi tutta la popolazione del villaggio. Il parroco si faceva sulla porta della chiesa e, dopo alcune parole di raccomandazione e di augurio, benediceva con l'aspersorio i drappelli, i quali subito dopo prendevano il cammino. Nell'anno 1785 l'inverno era giunto precocemente. Quando i minatori giunsero a Biandino, presso la chiesetta dedicata alla Madonna della Neve, località dopo la quale si sarebbero divisi, gli uni per portarsi alle miniere dai possessori delle miniere del Sasso sotto il Pizzo dei Tre Signori, gli altri per superare la cresta sovrastante e scendente nell'alto Varrone, la neve raggiungeva già i 40 centimetri.

Cominciò per tutti la dura vita di ogni inverno.

Traggo qui un brano da uno scritto del 1853 perché si abbia un'idea delle baite in cui, per mesi, i poveretti sarebbero vissuti: «Si immagini un tugurio alto da terra poco più di tre braccia, per la metà fabbricato a secco, difeso da un'imposta sconnessa che serve d'ingresso e di spiraglio ad un tempo, tetto piovente sul lato che non impedisce di rimirar le stelle nella notte, suolo umido ed ineguale. Un po' di cenere e una catena assicurata ad una trave del tetto segnano in un cantuccio il focolare, alcuni sacconi di foglie di faggio ed alcune coperte poste su di una specie di graticcio occupano metà dell'abituro e formano il talamo su cui dormono i poveri scavatori. La mattina solevansi alzare per tempo e, recatisi alla cava, attendevano al lavoro sino a tre ore di giorno, momento nel quale veniva dall'uno dei compagni, per turno, imbandito il pasto frugale, stracchino e polenta. Ripigliato il travaglio, non desistevano sino a sera per la cena e talvolta rimanevano nella buca sino a notte inoltrata. I dì festivi, invece di stare attorno al focolare, si portavano nella cava, la quale, avendo l'ingresso in alto, veniva a formare una specie di stanzone difeso da ogni lato, appena illuminato dalla luce che filtrando illuminava il soffitto. Passavano il tempo chiacchierando, leggendo ed anche suonando una specie di zampogna. Talvolta avveniva che il cagnolino, loro fido custode, con un certo piagnucolare, a suo modo avvisasse che era vicino il lupo; tenevano quindi accanto sempre pronti gli schioppetti».

A Natale scendevano in paese: le grandi nevicate infatti, avvenivano generalmente solo in gennaio. Quell'anno, però, l'inverno, come detto, si era fatto sentire assai presto. Già a Sant'Ambrogio, 7 dicembre, il gruppo di «fraini» dell'Alto Varrone era a corto di farina. Uno dei compagni pensò di chieder soccorso agli amici che lavoravano presso il lago di Sasso. Li raggiunse, adoperando primitive racchette che usavano allora. Ottenuto il prestito, stava ritornando dai suoi, quando, raggiunto il passo della Cazza, udì un cupo boato di una valanga; scorse, proprio dal lato del lago, un tratto di pendio appena scoperto dalla neve; non vi fece caso e proseguì. A Natale, i drappelli, come di consueto, scesero ad Introbio; quelli del Sasso, però, tardavano ad arrivare. Li attesero sino a Santo Stefano, poi, preoccupati che fosse accaduta una disgrazia, i «fraini» in gruppo raggiunsero la cava: la bocca ne era chiusa da uno scoscendimento di neve e di sassi; fu assai duro liberarne l'apertura. I tre vennero trovati accantucciati all'ingresso, già da tempo cadaveri.

La storia, che veniva raccontata in Valsassina sino a non molto addietro, aggiungeva che la moglie di uno dei minatori periti, sposa solo da pochi mesi, diede alla luce una bimba, subito morta, e che ella stessa si spense per il crepacuore. Non so quanto di vero e quanto di leggendario ci sia nella narrazione; certo è che nel libro delle morti trovai annotato, in data 9 dicembre 1785: «Vincenzo Tandarini passò a miglior vita soffocato nel corso delle nevi presso la ferrata di Varrone, in età di anni 25 circa». Sembra che i due compagni di lui fossero originari delle vicine valli bergamasche.

Presso il passo della Cazza fu levata una croce di legno che i locali chiamavano la «croce dei Tre», mentre i forestieri, i quali passavano di lì per l'ascensione al Pizzo dei Tre Signori diedero alla bocchetta il nome di «Passo delle Tre Croci». Oggi, poco sotto, si erge il rifugio di Santa Rita, meta frequente degli alpinisti: da quello, la bocchetta prese pur essa il nome di «Passo di Santa Rita».

E' luogo aprico, grandioso, vi aleggia attorno storia e leggenda. Di là passava l'antica via che dalla pianura Padana portava in piena Valtellina. Vi transitarono pellegrini e mercanti, ma vi passarono sovente orde di invasori, dal tempo dei Celti sino alle guerre tra Francia e Spagna. La vicenda dei tre minatori morti è forse, dunque, la più piccina tra quelle che interessarono il posto, ma il simbolo di una durissima vita di giorni, di mesi, di anni, di secoli: vita che, con la sua minuscola costante goccia, servì di alimento al fiume del progresso industriale lombardo.

Se la vicenda dei minatori soffocati dalla valanga è rimasta ancora nel ricordo popolare, altre, peraltro, e molte, funestarono fino al secolo scorso le cave del ferro. Trovo annotata, su un diario del bisnonno, la morte di un garzone quattordicenne che, condotto a valle perché sofferente, come sovente accadeva a tali giovanissimi lavoratori, morì lungo il percorso; i compagni che lo portavano dovettero abbandonarlo nella tormenta per mettersi in salvo; si rinvenne il suo cadavere solo a primavera. Trovo ancora di incidenti seguiti al crollo interno delle gallerie, che, per risparmio, venivano malamente armate. Io ne percorsi qualcuna: erano basse e strette, seguivano l'andamento della vena, si intersecavano sovente con altre scavate più sotto o più sopra e quindi frequenti erano i crolli.

I pericoli, però, non incombevano solo sui minatori. Il trasporto della vena, infatti, utilizzava percorsi spesso impervi. Un tempo si chiamavano «strade», e qualche volta con l'appellativo del sovrano che ne aveva sovvenzionato l'adattamento, come è il caso della «strada di Maria Teresa» nell'alta valle del Varrone.

Lungo quelle vie il minerale era trasportato con slitte, condotte direttamente dall'uomo utilizzando la neve, trainate altrimenti da muli che, peraltro, dovevano nelle curve essere addirittura sostenuti dai loro conducenti. Facile quindi uscire di pista e rotolare col pesantissimo carico. Anche le povere donne, d'altra parte, sempre presenti in ogni attività, partecipavano alla durissima fatica.

E non voglio parlare del lontano 1600 che registra lo straordinario caso di minerale sfruttato poco sopra Dervio, trasportato fino alla riva con gerli dalle donne, caricato su barconi, condotto per acqua sino a Bellano, qui preso nuovamente nei gerli da altri gruppi di donne che, su per le strade della Muggiasca, salivano sino al forno di Premana, qualche cosa come 700 metri di dislivello; dico solo di quanto accadeva ancora a memoria di mio nonno: chiusi ormai i forni valsassinesi, la vena del Varrone continuò ad essere scavata, per un certo tempo, per conto della ditta Rubini di Dongo.

Dall'alto Varrone sino al ponte di Ciudrino, da dove l'avrebbero poi condotta con carri sino a riva e quindi imbarcata per il lago d'occidente, veniva portata a gerlo dalle donne. E diceva mio padre, che ne aveva conosciute parecchie di averle sentite rimpiangere quel loro tempo di gioventù, quando la tremenda fatica consentiva loro di guadagnare 50 centesimi al giorno: rimpianto che, come già dissi, mai fu udito per i lavori di filanda, meno duri ma lavori «da presun».

Più antico, di prima del 1850, è il folclore dei forni, ma anche quello lasciò le sue tracce. Ho scritti e diari in cui si descrive il favoloso spettacolo notturno degli alti forni che, in Cavargna e in Valsassina, levavano fiamme verso il cielo. Si era, ormai, ai crepuscolo della siderurgia: i forni, rammodernati grazie agli aiuti del saggio governo austriaco, permettevano una forte produzione che la scarsità di carbone, di legna ed anche di vena non poteva alimentare che per due mesi ogni due anni. All'opera accudivano esperti maestri che il governo aveva fatto istruire in Austria, uomini fatti, garzoni ed anche ragazzetti. Un alto forno di valle occupava sino a 150 persone. Vi era tutta una legislazione di lavoro, non scritta ma praticata: gli aiutanti minorenni, ad esempio, dovevano rientrare alle case non oltre la mezzanotte; i genitori eran tenuti a pagare i danni che essi avessero procurato alle cose e al lavoro.

Posseggo cartine e note, né mancano negli archivi di Stato, sulle innumeri fucine grosse e piccole che tempestavano il territorio, tanto ad occidente che ad oriente del lago, terzo importantissimo volto dell'industria ferriera: quelle fucine, che non si fermarono mai, furono la salvezza e la fortuna soprattutto del territorio lecchese, e mette la pena di accennarne per mostrare come il folclore di un popolo, inteso come mentalità e abitudine di vita, consenta le più straordinarie resurrezioni. Come la seta, che era entrata nell'animo della Brianza e di Como, non fu mai cancellata in quei territori e lasciò, sia pure in forme diverse, una positiva eredità che tuttora è fonte di lavoro e di fama, ben differentemente da quanto successe sul Lario, così il ferro rimase nell'anima di molti territori lacuali anche dopo il totale spegnersi della siderurgia, ed oggi ne è di nuovo la principale ragione di benessere.