I nostri carbonai erano così famosi che li chiamavano dalla Val d'Aosta

Centro di documentazione e informazione dell'Ecomuseo delle Grigne

Articolo pubblicato da Pietro Pensa in L'Ordine, 6.4.1979


Documenti risalenti a cinque secoli fa testimoniano questa abilità unanimemente riconosciuta agli uomini di Esino, di Premana e della Valle Cavargna - Come si costruisce un «pojatt» evitando che prenda fuoco

Ad autunno avanzato, dopo aver perticato le castagne ed aver raccolto i ricci in mucchio, in attesa che si aprissero da soli per batterli e farne uscire le castagne, dopo aver raccolto il granoturco ed espostolo sulle lobbie a venir secco, si apriva per gli uomini il greve lavoro del taglio e del trasporto della legna. Gli attrezzi del legnatolo furono, dai più antichi tempi, e ne sono prova ritrovamenti celtici e romani, sino ad oggi, pochi, semplici, ma di forma e fattura dettate da una millenaria esperienza. Per abbattere i grossi tronchi servivano la segùr e il segùrin, scure ed accetta con lungo manico di legno duro; per i rami la folc con manico di cuoio, o pennato, il folcin o roncolino per ramicela e i virgulti. La folc veniva appesa dietro al fianco ad apposita fìbbia della cintura, il folcin era tenuto in tasca e, purtroppo, qualche volta veniva sfoderato durante le liti.

Mentre un tempo la legna era quasi tutta utilizzata per carbone, e quindi trasportata negli spiazzi adatti disseminati un po' ovunque, facili dunque da raggiungere, negli ultimi cinquantanni, crollata l'industria siderurgica, diminuita la produzione di carbone, il legname veniva portato o sulle strade carrettabili o sulla riva del lago per essere imbarcato sui comballi ed avviato a Lecco e a Como. Il trasporto, quindi, era il lavoro più lungo e faticoso. Allo scopo, si utilizzavano tutti i mezzi che offriva la natura. Dai burroni scoscesi o lizze detti oghe, tronchi e legni venivano fatti rotolare verso il basso, poi, trainati alle lizze successive lungo le strade, sorta dì larghi sentieroni tagliati per lo più in orizzontale sulle pendici della montagna: alla bisogna servivano carri primitivi od assali ed a ruote di legno, tirati da buoi, sostituiti solo in tempi più recenti da slitte a cui si applicavano talora ruote di ferro e che venivano tirate da muli. Così, di oga in oga, il legname era lizzato sino alla riva.

L'aiuto più grande era dato però dalla neve. Trovo scritto nel 1851: L'attività di quegli atletici terrieri è di prevalenza messa alla prova nella invernale stagione col trascinare tra alte nevi con sorprendenza scioltezza e velocità sopra slitte, per altissime e pericolose calli, cataste di legname con meraviglia degli astanti. Le nevi sono quindi elemento direi quasi indispensabile per l'utile che procaccia nel trasporto del più irnportante prodotto del suolo, e senza di che non potrebbero sopperire ai giornalieri bisogni.

Venivano preparate piste nevate o ghiacciate, le soende, quasi sempre lungo ripidissimi pendii: l'uomo teneva una fascina sotto ciascun braccio; altre due venivano agganciate a quelle e poi erano legati i tronchi sino a formare una larga coda, la saina, che col suo peso spingeva il guidatore al quale toccava il compito di frenare la massa scivolante. Il gelo e il disgelo, alternandosi, rendevano vitree le piste in modo che, gettandovi sopra i tronchi liberi, questi scivolavano sino a valle. Talora le soende descrivevano curve anche strette ed era straordinaria l'abilità con cui i guidatori, in piena velocità, buttando tutto il peso all'interno, riuscivano a vincere la forza centrifuga e a mantenersi nella pista.

Quando il percorso obbligava a superare un torrente e a risalire sull'opposto versante, occorreva effettuare il trasporto a spalle, su impervi sentieri. Non era diffìcile trovare impiegate al lavoro anche delle donne con le gerle. Quando il passaggio da oga ad oga era esposto, venivano usate delle slitte piccole tirate dagli uomini: ancor oggi in alcuni luoghi se ne vede il passaggio dalla profonda impronta lasciata nelle rocce. Lavoro più pericoloso era anche quello del rinvio della legna che si fermava contro qualche sporgenza, lungo le lizze; non infrequenti le disgrazie.

A sera, gli uomini ritornavano per ripidi sentieri tracciati ai margini delle oghe; giungevano alle case di notte, a tarda ora. Li attendeva la polenta preparata dalle donne con il poco formaggio magro, oppure patate e castagne bollite. Con loro erano i ragazzi sopra i dodici anni; li vidi più di una volta addormentarsi mentre mangiavano, lasciando cadere la scodella. Dopo la magra cena e le brevissime ore di sonno venivano nuovamente destati. Gli uomini si raccoglievano a gruppi nelle strade e prendevano insieme il cammino; quando il sentiero diventava più impervio, il capoccia accendeva una coda, sorta di torcia fatta di lista di betulle, che illuminava per tutti la via.

Sul principio del secolo apparvero le prime corde metalliche e parve che una nuova era si aprisse per i boscaioli. Prima, la legna richiedeva giorni e giorni per giungere alle strade o al lago e quando veniva imbarcata il suo peso, a causa dei tanti salti da roccia a roccia, era divenuto poco più della metà dell'iniziale; con le teleferiche, poche gettate di cavo, a tendere il quale i montanari divennero subito maestri, brevissimi rinvìi, e il legname giungeva a destinazione.

Si denominavano pojatt nelle nostre valli le carbonaie, grossi manufatti di legname destinati a produrre il carbone. Preparati nelle ajai o jaal, piattaforme ricavate in piazzole naturali completate talora da un muraglione a valle, venivano accesi nei mesi primaverili, ciclicamente. Tuttora evidenti per il terriccio carbonioso del fondo coperto da erba tenera, ciascuna con una propria denominazione riferita o alla località o al nome del carbonaio che la gestiva, il numero delle ajai dà un'idea di quante carbonaie dovettero levare al cielo le loro fumate nei secoli passati. Un semplice calcolo che tenga conto del fatto che un forno fusorio nel 1700 richiedeva per la produzione biennale di ghisa dalle 300 alle 400 tonnellate di carbone e che un pojatt dava mediamente 100 quintali di combustibile con un impiego medio di 600 quintali di legna, pari a un volume di manufatto di una cinquantina di metri cubi, permette di rendersi conto del numero di carbonaie accese ogni anno per i cinque forni del Lario orientale e per i due dell'occidentale. Ne veniva lavoro a varie centinaia di persone, interessate lungo l'arco dell'anno al taglio e al trasporto di legna e di carbone!

Dopo il crollo della siderurgia nel secolo scorso, una notevole produzione di carbone si mantenne sino al 1920, convogliata verso le città. Nell'ultima guerra l'antica esperienza, non ancora dimenticata, fu utilizzata per le necessità di gas per automezzi. Ora, ben difficile sarebbe trovare ancora chi sapesse condurre un pojatt! Occorre, infatti, una abilità particolare. Io, da giovanetto, con un amico, costruii una volta, guidato da un vecchio carbonaio, una piccola carbonaia di un due metri e mezzo di altezza e rammento il tremore con cui, semiaddormentati nella notte di guardia, ci affannavamo ad aprire e a chiudere gli sfiati per regolare la carbonizzazione e ad impedire che l'intera catasta prendesse fuoco; rammento, poi, la gioia con cui, tutti neri in volto, traemmo i lievi pezzi di carbone ben cotto che avevano ancora la parvenza dei legni da cui erano venuti.

Dopo aver portato la legna tutt'attorno all'ajal, presso la quale una piccola baitele di frasche serviva per il riposo notturno, si procedeva alla costruzione dei pojatt nel modo seguente: nel centro della piazzola veniva piantata verticalmente una pertega diritta, lunga qualche metro, destinata a servire da riferimento. Attorno, per tutta l'altezza prevista dal manufatto, si innalzava il fornello, o casele, ponendo in quadro, a due a due alternativamente l'uno sull'altro, legni di pari grossezza, squadrati. Al fornello si appoggiavano poi i legni tondi a corsi uniformi, sovrapposti, con la minore inclinazione possibile all'interno e via via più pendènti, procedendo in tondo, sino a formare una semisfera piuttosto appiattita. Occorreva badare a non lasciar vuoti tra legno e legno. Terminata la catasta, la si copriva di foglie umide di felci e quindi la si avvolgeva di un notevole strato di terra nera, ricavata dal piano dell'ajal, ben battuto.

Si dava fuoco al pojatt immettendo da un foro nel fornello della brace e quindi lo si alimentava a intervalli con alcuni gnocch, o pezzetti di legna, chiudendo ogni volta il foro di immissione con un cespet o zolla di erba. Cominciava qui il lavoro più diffìcile, guidato dal carbonér più esperto, consistente nell'introdurre dei gnocch nel fornello, nell'aprire dei fori di sfiato a varia altezza nel manto, a seconda dell'andamento della combustione che doveva procedere uniforme in tutta la massa, nel tamponare le inevitabili crepe che si formavano all'esterno per l'assestamento dei legni, a mano a mano carbonizzati e quindi divenuti più deboli. Una scala ricavata in un tronco stava appoggiata al pojatt e il carbonaio la spostava, palpando con il palmo il manto in ogni posizione per rendersi conto dal calore del procedere della combustione. Il pojatt era come un essere vivo affidato alla premurosa cura di lui.

La combustione si completava, a seconda della dimensione della catasta, in due o tre giorni. Quando si era certi della totale buona cottura, si procedeva a disfare la catasta, sezionandola, raffredando con acqua che si trasformava in vapore di particolare profumo. Il carbone veniva insaccato e condotto a valle su gerli portati quasi sempre dalle donne.

Benché rari fossero casi del genere, data la grande abilità dei carbonai, pure talora accadeva che un pojatt prendesse fuoco; vuoi per una disattenzione, vuoi, particolarmente, per l'inesperienza di un giovane che, messo a guardia, troppo tardi si accorgeva di qualche anomalia. Era allora una vera tragedia, pèrche andava perduto, un lavoro di mesi! Raccontano, poi, che una volta a un carbonéer, salito in alto sul finire dell'operazione, crollò sotto la copertura del pojatt, facendolo precipitare nel fornéle, dove la temperatura non era mai inferiore ai 300°. Dicono che del poveretto si trovò solo ol fer de la folc, ossia la lama del pennato! Tra i legnaioli per l'abilità nell'organizzare i trasporti e tra i carbonai per saper condurre a buon fine anche pojatt di eccezionali dimensioni erano famosi gli uomini di Esino, di Premana, della valle Cavargna. Venivano chiamati sovente in altri territori, anche lontani, ed ho documenti di contratti in Valtellina, nei Grigioni, in val d'Aosta, risalenti persino a cinque secoli fa.