I frigoriferi della natura: giazzere, crotti, sorei

Centro di documentazione e informazione dell'Ecomuseo delle Grigne

Pietro Pensa, I frigoriferi della natura: giazzere, crotti, sorei in "Broletto", n. 7 (1986), pp. 21-27.

Dalle età preistoriche quando l'uomo imparò a prender possesso della terra ebbe modo di apprezzare le caverne e gli antri per proteggersi dalle intemperie e difendersi dalle belve. Ma un giorno utilizzò queste dimore primitive come degli scantinati per mantenere i cibi in condizioni di termostabilità.

Fin dai primordi della sua presenza sulla terra, quando il sostentamento gli era dato dalla caccia e dai prodotti spontanei della vegetazione ed era costretto a continui spostamenti per l'inseguimento degli animali, l'uomo ha avuto modo di apprezzare i vantaggi che davano quali luoghi di sosta le caverne, i ripari sotto roccia, gole di erosione glaciale e fluviale, antri nei macereti di grandi massi di frana o fra erratici morenici, sia per proteggersi dalle intemperie e dalle variazioni climatiche stagionali, sia per difendersi dalle belve e da suoi simili nemici. Divenuta la grotta, durante l'ultima glaciazione, sua abitazione stabile, aveva imparato a valutare come quei locali si sottraessero alle escursioni termiche, di umidità e di luminosità dell'ambiente atmosferico; né allora si presentava il problema di conservazione delle carni, data la presenza in superficie di nevi perenni. Con il trascorrere dei secoli, ricopertesi le montagne di vegetazione dopo il ritiro dei ghiacciai, l'aumento demografico rese necessario passare da tali abitazioni naturali a dimore costruite con i materiali messi a disposizione della natura, con modalità diverse secondo il luogo di insediamento. La conoscenza e l'esercizio dell'agricoltura e dell'allevamento del bestiame condussero a risolvere il problema del mantenimento del cibo. Fu così che il procurarsi il sale, non solo essenziale per le necessità biologiche dell'uomo e degli animali, ma anche per la salatura delle carni, sia insaccate, sia seccate col fuoco, divenne il primo motivo di commerci con chi disponeva di salgemma nel Centro Europa e di sale marino sulle rive del mare, commerci che, molto più tardi e soprattutto dopo la scoperta dell'America, avrebbero avuto per simili motivi un seguito nei traffici di spezie, destinate peraltro, a causa degli altissimi prezzi, alle classi nobili e borghesi. L'intelligenza umana rese allora preziose le conoscenze tratte dalle prime dimore trogloditiche e divenne così fondamentale, nella costruzione di abitazioni con la parte basale di materiali litici e di loro derivati - ghiaie, sabbie, argille, laterizi, malte - la cantina, seminterrata o addirittura sotterranea, adibita al mantenimento dei cibi in condizioni di termostabilità. No solo negli edifici abitativi fu applicata l'esperienza primordiale, ma anche nelle necropoli, con la collocazione dei morti in sotterranei naturali e anche in ipogei appositamente scavati.

Indice

Nevere e giazzere

Impossessatosi nel Neolitico dei segreti della lavorazione del latte e quindi indirizzato all'allevamento di grosse mandrie e alle transumanze sulla montagne, l'uomo dovette risolvere il problema di immagazzinare il latte, conservandolo fresco per alcuni giorni, anche in estate, perché affiorasse la panna con cui fare il burro: da che l'origine dei «caselli del latte», costruiti, in gran parte interrati, là dove sgorgava dalla montagna una sorgentella di acqua fresca, da cui fare investire il recipiente contente il latte, che noi conosciamo nelle conche, bacinelle di rame ancora in uso oggi in molte valli. Là dove era difficile disporre di sorgentelle, e ciò particolarmente in quei mesi di calura in cui più necessitavano, particolarmente nel meridione del Lario e nella Brianza comasca, fatta di rocce calcaree con fenomeni di carsismo, l'uomo inventò le neverse, caselli con buche profonde 5 metri, aventi diametro di 4, in cui durante l'inverno buttava e pressava neve, coprendola di foglie secche che facessero da coibente ritardandone l'evaporazione. Su quella neve, che a mano a mano calava di livello durante l'estate, venivano appoggiate, con supporto di legno, le conche del latte. Locali del genere venivano sovente costruiti non lontano da grossi corsi d'acqua, presso prati su cui in inverno si derivava acqua facendola gelare, in modo da ricavare pezzi di ghiaccio che venivano accatastati nella buca e pressativi. La cascina era chiamata allora giazzera anziché nevera. Mentre il concetto della conservazione della neve invernale in manufatti è diffuso in regioni montane di molte parti del mondo e si trova tale usanza un po' in tutte le Prealpi, sull'Altopiano Iranico e nelle Ande, esempi dell'uno e dell'altro tipo si rintracciavano un po' ovunque sul Lario, nell'Alto Lago, in Valle Intelvi, in Valsassina, nell'Alta Brianza, generalmente sui «monti» dei maggenghi, già che la conservazione del latte ivi era importante nell'estate, mentre non creava problema né presso i villaggi, dove le vacche erano tenute d'inverno, né sugli alpeggi, dove il latte veniva cagliato appena munto per ottenere formaggio grasso. Esistevano anche in Valtellina nelle zone meno elevate, ma lassù l'abbondante presenza costante di acqua sorgiva le rendeva meno necessarie.

Il ghiaccio per i trasporti e per gli alberghi

Sul Lario non è tutto lì: problemi di utilità del ghiaccio furono sempre attuali sino all'inizio di questo nostro secolo. Basti infatti pensare ai lunghi tempi richiesti dal trasporto del pesce che da borghi rivieraschi lontani, quali Bellano, Gravedona, Bellagio, veniva portato a Como, a Lecco, a Bergamo e persino a Milano. Lo stesso burro, ottenuto nei paesi vallivi, sovente era destinato alla capitale lombarda, ed io ho non pochi documenti che testificano ciò addirittura nel 1500 e nel 1600. Il trasporto veniva fatto in sacchi di canapa pieni di foglie secche o di paglia con involti di foglie fresche in cui pesce e burro erano circondati da pezzetti di ghiaccio. Pur limitata tale prassi a occidente del lago, dove il trasporto ai mercati di Como, effettuato al mattino presto, richiedeva poche ore, singolare è la provenienza del ghiaccio utilizzato per i trasporti a Milano e a Bergamo. Due sono le località che in piena estate lo fornivano: la ghiacciaia di Moncodeno sulla Grigna settentrionale a 1800 m. di quota, e il nevato perenne di Colico, a m. 700 s.l.m. Il primo è un fenomeno naturale la cui conoscenza, attribuita forse erroneamente anche a Leonardo, e-ra certamente diffusa nel 1700 e nel 1800, secolo in cui richiamò visite di scienziati e di turisti. Non fatto unico perché casi consimili si verificano anche in altre montagne, tra cui il Giura franco-svizzero, è tuttavia di grande interesse. Trattasi di una spelonca che da una bocca aperta in un lariceto si affonda nella dolomia con un vasto ambiente, il quale, nell'estate, per un processo di evaporazione provocato dalla calura esterna si tappezza di ghiaccio cristallino, purissimo e trasparente, con la formazione di massicce colonne che congiungono la volta alla pavimentazione di ghiaccio, a cui si scendeva con una scaletta di legno, fiancheggiante un profondo pozzo a ripiani, pure tutto ghiacciato. Mentre i pastori della vicina alpe comunale di Moncodeno, su cui vengono caricati tuttora da giugno ai primi di settembre bovini e mandrie di pecore, prelevano da quella grotta pezzi di ghiaccio che gettano in una bolla poco lontana dalle baite per abbeverare il bestiame, dato che la Grigna settentrionale, tipicamente carsica, è totalmente priva di sorgenti. Nel 1700 e soprattutto nel 1800 era attivo un commercio di ghiaccio con gli alberghi della riviera del lago e con i pescatori, traffico che dopo la presenza della ferrovia si estese addirittura a Milano. Preparati i pezzi di ghiaccio nella caverna, i montanari li portavano nottetempo in sacchi sino ad Esino, dove li depositavano in una giazzera poco lontana dal paese, per prelevarli all'alba seguente e portarli a Varenna al primo treno in partenza per Milano. Qui il ghiaccio cristallino, purissimo, veniva acquistato dagli alberghi. Trattasi di un commercio che durava tre mesi e che io ancora bene ricordo. Come accennato, aveva secolari precedenti per il trasporto del pesce e del burro. Non molto diverso era l'utilizzo che avveniva a Colico, limitato tuttavia dalla differenza del ghiaccio, che qui, in effetti, era neve assai pressata. Trattasi, infatti, di un singolare nevato, che tuttora si presenta durante tutta l'estate, in mezzo a un fitto verde bosco a m. 700 di elevazione in Valorga, nell'alta valle dell'Inganna sopra Colico. Ai piedi della parete nord del Legnone, che nelle guide della fine del 1800 si indicava come la più alta delle Alpi - e splendida in effetti sarebbe se partisse da 4000 m. anziché dai suoi 2600 - quel nevato proviene dalle slavine che in primavera si staccano dalla vetta e che, precipitando lungo diversi valloni, vanno a comprimersi alla base. Un tempo vi si saliva da Colico per prendervi quel ghiaccio e utilizzarlo per il trasporto del pesce; poi, giunta la ferrovia Colico - Lecco - Milano, si impiantò una teleferica e il ghiaccio, isolato con fogliame e con paglia in sacchi, veniva inviato col primo treno del mattino a Milano. In secoli lontani il «ghiaccio», sia del Moncodeno che di Colico, veniva utilizzato anche nei borghi del lago per la conservazione della carne dei beccari e del pesce venduto sui mercati locali, e tale impiego, diffuso anche in Valtellina, che aveva a disposizione il ghiaccio dei grandi ghiacciai, fa ricordare che tra gli agi di Ninive e di Babilonia si annoveravano quei «frigoriferi», in cui, protette da locali interrati e isolati, si conservavano lastroni di ghiaccio provenienti dal Caucaso e trasportati con chiatte lungo l'Eufrate.

Il sorel

E dirò ora dell'ultimo frigorifero offerto dalla natura ai nostri antenati e che, in effetti, è il capitano della schiera: non detronizzato dalle macchine che oggi costruiamo, ostenta con dignitoso distacco il suo antico blasone ed è sempre attuale in Valchiavenna e nell'Alto Lago, dove è stato protagonista di un indirizzo sociale forse unico nell'Italia delle lotte fraterne, e in Valsassina, da dove mantiene un'aureola di leggenda al nome di formaggi che i casari di lassù hanno portato in tutto il mondo. Il sorel, in effetti, non è fenomeno esclusivo delle nostre montagne: lo si incontra anche in altre zone italiane ed estere, come nelle cuevas a tinajas della Castiglia, dove si conservava l'acqua potabile in grandi vasi di argilla. Da noi, tuttavia, un che di esibizionismo che è nel nostro carattere ce lo ha fatto imporre all'attenzione degli altri. Sorà in dialetto lombardo significa «sfiatare» e sorel in dialetto del Lario e della Valtellina vuol dire «soffio» che viene da sotterra. L'origine di quel fenomeno, studiata già nei secoli scorsi, è stato motivo recentemente di una ricerca e di una pubblicazione di Athos Pandini, simpatico personaggio che coprì negli ultimi decenni importanti cariche a Chiavenna e che fu anche consigliere di fabbriche di frigoriferi, e quindi esperto nel ramo. Con una sofisticata dissertazione, ricca peraltro di molti dati rilevanti, egli propone una provenienza dei soffi, mantenenti una costante temperatura attorno agli 8 gradi centigradi nell'arco delle stagioni, da correnti d aria che giungono per vie sotterranee dai ghiacciai alpini. In effetti, 'a genesi del sorel è molto più semplice. Premesso che appare in quei territori in cui il sottosuolo, per motivi geologici di varia origine, morene, alluvioni, frane, è discontinuo e presenta meandri sotterranei che van-! no da crepe a cunicoli, consentendo la penetrazione dell'aria esterna, questa, termolabile, viene in contatto con l'umidità e i flussi idrici sotterranei che l'alimentano e che sono termostabili, a una temperatura costante, di gradazione che rispecchia la media termica delle precipitazioni nelle varie stagioni: a Chiavenna, per esempio, di circa 5°, media tra le precipitazioni invernali di 0° (neve), e quelle estive di 10° (piogge temporalesche). L'aria, venuta a contatto con i flussi sotterranei delle formazioni rocciose adiacenti e assuntane la temperatura e l'umidità, riesce in superficie, con una ventilazione blanda e continua, per i noti spostamenti provocati da diversa situazione termica, in quegli spazi limitati, racchiusi entro pareti rocciose e manufatti in murature, che sono i erotti. Ivi si mantiene pressoché costante, quindi, nell'arco delle stagioni e del giorno, una temperatura e una umidità favorevoli alla conservazione di viveri deperibili e alla maturazione ottimale di prodotti genuini, quali i formaggi, i salumi, carni tipo bresaola e violino, vino, birra, nonché a una gradevole abitabilità, specialmente nella stagione estiva. Il fenomeno del sorel, dunque, si verifica in un ambito strettamente locale, e non per connessioni grandiose quali quelle proposte con i ghiacciai : ne è prova il fatto che nessun turbamento è stato provocato da importanti opere idrauliche realizzate nelle loro vicinanze. Chiaritone così l'aspetto naturalistico, accenno ora ai due utilizzi che se ne fecero e che, forse per scopi di folclore più che per risultati pratici, ormai raggiunti con macchine, se ne fanno ancor oggi.

I crotti

Individuata certamente l'utilità del sorel in tempi antichissimi, forse da quando risultò importante la temporanea conservazione del latte, e ancor più allorché la maturazione del vino poco alcolico di quei luoghi ne accentuò il valore, i primi erotti, limitati a una chiusura muraria degli spazi determinati da grossi massi di frana, in cui spiravano i so-rei, sorsero là dove più frequenti erano quei soffi, più gagliardi e più freschi. \

Mentre certamente erano in quei crotti le osterie che Leonardo ricorda di Chiavenna, la loro presenza avviò in secoli lontani il modo di sfruttamento comunitario, per cui la proprietà di un crotto andò sminuzzandosi fra diversi titolari, ciascuno dei quali aveva diritto di tenervi una o più botti di vino, in un armadio le carni insaccate o secche, con una gestione condominiale che tuttora, senza statuti, senza regolamenti, si tramanda da parte in figlio per tradizione, con scrupoloso rispetto delle cose altrui, ispirandosi a contratti, come bene sottolinea il Pandini, firmati colla stretta di mano, secondo i dettami della civiltà della montagna. Tali minuscole consorterie di amici, dando ragione di ritrovo nei mesi estivi e nelle grandi ricorrenze festive, fu il motivo di un carattere vivace, allegro, cordiale e cortese, che distingue la gente del Chiaven-nasco, e probabilmente influì a fare apprezzare i vantaggi del saper vivere insieme, rendendo in quei luoghi meno sinistre le lotte di parte, a deferenza di quanto accadeva nella media e nell'alta Valtellina. Mentre, con l'andar del tempo, si infittirono sempre più le consorterie dei crotti, che ancor oggi vedono proprietari di uno stesso erotto sino a dodici persone, andò a poco a poco perfezionandosi e dilatandosi l'architettura, con l'aggiunta di locali atti a consentire il ritrovo anche in giorni non estivi. Ad anticrotti circondati da alberi, da siepi, da giardini con panchine e tavoli di pietra che arricchiscono la suggestione naturale, si aggiunsero, costruite sopra il locale del sorel, una cucina e una saletta con focolare, per bruciarvi il ceppo d'inverno e trovarsi a mangiare i marroni o, talora, la cacciagione: rustica la mensa, unico il boccale in terracotta da cui bevono tutti, passandoselo e regolando «a memoria» il consumo di ciascuno. Un motto che dice: «un po' per un la ciaaf del crott» rispecchia la mentalità. Anche nel campo dei erotti si cercò, negli anni a cavallo di questo secolo, di industrializzare il fenomeno, che, in effetti, ha in sé solo quel valore umano che oggi lo rende un motivo di richiamo ai bei tempi passati. Si provò, infatti, di introdurlo nel campo della birra: Pratogiano, detto localmente «la Predegiana», divenne un operoso cantiere dove la birra, che portò in tutta Italia il glorioso nome dello Spluga, veniva fermentata nei erotti e quindi caricata in botticelle ben cerchiate e spalmate di colofornio fuso in caldaie. Fu, naturalmente, un periodo breve, di illusioni, che lasciò il passo agli odierni sistemi di birreria, ma che molti di noi ricordano, con l'immagine del refrigerio portato da una bottiglia di birra, chiusa con quel simpatico sistema a punto morto. Crotti sono disseminati, e richiamano schiere di turisti, in tutta la Valchiavenna, nelle valle Bregaglia italiana e nella Val San Giacomo, sino a m. 800 s.l.m.; in bassa valle se ne trovano a Mese, a Prata, a Gordana, a Samolaco, a Novate e a Verceta, ma anche oltre, nell'Alto Lario occidentale. Qui, attorno a Stazzona il terreno, pieno di detriti di falda e di frana, presenta molti sorel. Particolarmente lungo la mulattiera che conduce a Consiglio di Rumo, sono ben conservati antichi crotti, dove da alcuni anni si celebra la «Sagra dei Crotti», rinnovando l'antica abitudine della gente locale di riunirsi nelle feste di agosto a consumare cibi, chiudendo l'incontro con canti, con giochi e con bevute ineggian-ti a una abbondante prossima vendemmia. Anche nell'Alto lago orientale, a Colico, a Dervio, a Bellano e Varenna non mancano crotti, che sono però cantine vere e proprie, in cui la presenza del sorel non è sensibile come nel Chiavennasco. Poi, ancora, crotti si trovano in tanti altri luoghi del Lario, là dove vi è terreno discontinuo, con detriti, massi: nel Menaggino di Plesio, di Carlazzo e del fondo valle alluvionale, a Porlezza, in Valle Intelvi, e persino a Moltrasio, dove grandi cumuli di pietrame sono tradizionali. Là dove, quasi ispirati dal grande esempio di Chiavenna, sorsero crotti, fiorirono i bottai, con le belle botti e botticelle, tonde od ovoidali, in castano per il vino rosso, in rovere per le grappe.

Le casere da invecchiamento

In Valsassina, utilizzato per altro scopo, il sorel ebbe i suoi fasti. Meno frequente che in Valchiavenna, per le diverse formazioni rocciose, è presente nel fondovalle e nell'ati-piano orientale, in quei paesi che divennero largamente conosciuti per l'arte casearia. Praticato qui da tempi preistorici, lasciando traccia in non pochi toponimi, il caseificio aveva trovato nel sorel un aiuto per la stagionatura dei formaggi. Preso avvio nella seconda metà del 1800 un notevole commercio con Milano, col ritiro dagli stagionatori valsassinesi da parte di ditte distributrici nella città, di formaggio prodotto sulle alpi dell'altopiano e nelle vicine vallate bergamasche, particolarmente nella Val Taleggio, resisi conto dell'importanza di una simile attività e anche spintivi dalla necessità di trovare una alternativa all'arte ferriera in quegli anni crollata, alcuni Valsassinesi si dedicarono all'industria casearia, impiantando nella valle edifici di produzione, di raccolta e di stagionatura. La Locatelli si formò a Ballabio Inferiore nel 1860, producendo «le gorgonzole» a doppia cagliata; nel 1880 sorse in Baiedo, frazione di Pasturo, la Galbani, divenuta nota per il «Bel Paese». Sempre in quegli anni nacquero anche la Invernizzi, proveniente da Morterone, e la Cademartori, conosciuta per le robiole, per il taleggio e per il quartirolo; in questo secolo seguirono la Mauri e la Ciresa. La notorietà dei formaggi e il dilatarsi della richiesta costrinse quelle ditte, oggi note in tutta Italia, a trasferirsi nella vicina pianura, più ricca di latte, e a creare filiali in altri luoghi italiani, in Europa e in America. Gelose tuttavia del loro nome, esse mantennero in Valsassina edifici di invecchiamento, che, se oggi limitatamente sfruttati, servono a conservare ai prodotti l'aureola di buon formaggio di montagna nelle ré-clames che regolarmente vediamo in televisione. Chi sale oggi in Valsassina alla Chiusa del Pioverna tra Pasturo e Introbio può vedere e visitare locali di invecchiamento della Galbani e della Cademartori, dove è protagonista il sorel, il più originale frigorifero naturale utilizzato nel passato dalla gente dell'Adda e del Lario.