Famiglia Manzoni: quel ramo del casato

Centro di documentazione e informazione dell'Ecomuseo delle Grigne

Articolo di Pietro Pensa in Broletto, n. 2 (1985), pp. 62-69.


Il padre dello scrittore fu davvero Giovanni Verri? Una maldicenza.

Dell'argomento già mi occupai due lustri or sono, aiutato nelle ricerche da mia moglie, sempre sensibile ai rapporti nelle compagini familiari, di ogni tempo storico e ad ogni livello. Le conclusioni a cui allora giunsi mi sembrano più che mai valide ed attuali, anche se oggi, basandosi solamente sulla maldicenza dei contemporanei, si dà per accettata la paternità di Giovanni Verri. Riprendo qui, e completo, quanto io scrissi.

I MANZONI

Progenitore della famiglia fu lo spettabile magnifico messer Giacomo, che appare nella seconda metà del 1500 a Barzio, carico di titoli e di onori militari, cavaliere aurato palatino, nobile di Ravenna, ricco di beni (1). L'araldista Sitonio lo fa discendere da un Pasio, vivente alla Culmine di S. Pietro all'inizio del secolo, bandito da Torino per omicidio; non dà, tuttavia, riferimenti documentari. Si sa, però, che i Manzoni già nel 1400 erano diffusi sia in Valsassina che nel Lecchese e che probabilmente venivano dalle valli dell'occidente bergamasco; forse qualche notizia maggiore si avrebbe indagando i rogiti di allora, conservati nell'Archivio di Stato di Milano, nei quali il nome di Pasio Manzoni appare più volte. Era, il 1500, un secolo in cui largamente fioriva in Valsassina l'arte del ferro, e i Manzoni, attratti dagli interessi economici, accaparrarono quote delle cave più importanti dell'Alto Varrone e i forni più redditizi, aprendo con le dinastie ferriere concorrenti, quali gli Arrigoni e i Fondra, una faida che negli anni della peste portata dai Lanzichenecchi esplose in episodi di sangue (2). Quegli episodi, di cui furono protagonisti Giacomo Maria Manzoni, terzo nella discendenza di messer Giacomo, ed altri personaggi minori di quella parentela, avrebbero dato ben altra immediatezza a un romanzo che Alessandro, certo attento conoscitore dei fatti, avrebbe ber più felicemente scritto in luogo della noiosa «Colonna infame» se non lo avesse trattenuto la incalzante presenza del suo cognome. Ora, Giacomo Maria, possessore di edifici di ferro, fu capostipite di uno dei quattro rami della famiglia che dalla Valsassina scesero a Lecco, e, preso alloggio al Caleotto, sposando nel 1611 Ludovica figlia di Alessandro Airoldi, avviò una discendenza che, alternando i nomi di Alessandro e di Pietro Antonio, giunse, dopo tre generazioni, a quel Pietro Antonio che ebbe per figlio il grande romanziere. Se il Caleotto, ora adibito a pubbliche manifestazioni, è dimora notevolmente mutata nel corso di questo secolo, la casa avita dei Manzoni è invece tuttora conservata intatta a Barzio, poco distante dalla chiesa parrocchiale di Santo Alessandro e, se la famiglia si è estinta in Valsassina, pure ancora ivi si ritrova il ritornello: Cuzzi Pioverna e Manzon / intenden minga de reson e ancora si narra della leggendaria prepotenza dei suoi membri, mentre gli storici scrivono dei notai, dei giureconsulti, degli scrittori che illustrarono il nome Manzoni. Del ramo del Caleotto si sa che un giureconsulto e notaio ebbe nel 1691 da Carlo II di Spagna il feudo camerale di Moncucco nel basso Novarese (3). L'origine valsassinese fu però sempre cara alla famiglia e lo stesso romanziere ne dà prova, ambientando nella valle episodi del suo celebre libro. Pietro Antonio, dunque, nacque ai Caleotto il 2 luglio 1736 da Alessandro, dottore in legge, e da Maria Margherita figlia del giureconsulto collegiato di Milano Fermo Porro. Paolo, suo fratello più anziano, divenne canonico del duomo; con lui e con diverse sorelle,tra le quali una monaca che aveva lasciato il velo in seguito alle leggi promulgate da Giuseppe II, Pietro si trasferì a Milano in una casa del Naviglio della parrocchia di San Babila e prese a frequentare la società bene della metropoli, condottovi da parentele e da conoscenze. Allorché nel 1782 sposò Giulia, Pietro aveva alle sue spalle un primo matrimonio con Maria Teresa nata dal nobile Ignazio Maineri decurione di Lodi, di dodici anni più giovane di lui, morta nel 1775 per febbre acuta maligna. (4) La sua situazione economica era tutt'altro che cattiva: risultano infatti dal catasto di Maria Teresa a favore suo e del fratello Paolo canonico, 1.850 pertiche nelle Pieve di Lecco per un estimo di 6.000 scudi, 2.250 pertiche in Valsassina per un estimo di 1.800 scudi e 220 pertiche in Pieve di Garlate per un estimo di 1.200 scudi. Patrimonio, dunque, che, seppure non paragonabile a quello delle grandi famiglie milanesi, era tuttavia cospicuo (5): basti pensare che 1.000 scudi di allora avevano il potere di acquisto di tre milioni del 1984, ma che in quei tempi il costo della mano d'opera era irrisorio. Quanto alla figura fisica di Pietro, il Petrocchi, deducendola dal ritratto ad olio che di lui si conserva nella villa di Brusuglio, rileva la «faccia sbiadita e indifferente» e definisce il viso «buono, ma insignificante»; tuttavia osserva: «E non era Pietro, diciamolo subito, uno zotico qualunque. Signore campagnolo, amante di vigilare i suoi beni di Lecco, dove andava spesso, si compiaceva però anche delle lettere e delle arti, e a letterati e artisti apriva a convegno la propria casa, primi tra i quali il Verri e il Monti». Sono dunque da giudicarsi del tutto errate le note di Francesco Cusani che lo definiscono «buonissimo uomo, ma scarso di ingegno e di fortuna», e ancor di più il quadro che di lui fece Cesare Cantù, trasmettendo ai successivi commentatori una macchietta di genere, concepita, secondo la sua abitudine, senza neppure averlo conosciuto (6). «Egli, come il padre e il nonno - osserva Pacifico Provasi - era entrato da molto tempo nella società signorile di Milano» e prosegue: «che non sia stato un uomo insignificante e volgare ce lo dicono anche le sue ultime parole, che sono così nobili e dignitose» (7).

IL BECCARIA, IL VERRI E IL MATRIMONIO DI PIETRO CON GIULIA

Giulia era nata a Milano nel 1762 da Cesare Beccaria e da Teresa de Blasco, figlia di un colonnello spagnolo. Il padre, laureato in giurisprudenza, apparteneva a quel cenacolo di nobili illuministi che faceva capo a Pietro Verri, nella cui casa nacque il famoso libro «Dei delitti e delle pene» che fu pubblicato con immenso successo nel 1764. Con il correre degli anni, nonostante gli incarichi ottenuti nella magistratura e nella scuola, il Beccaria dovette superare difficoltà finanziarie, non ultima delle quali fu quella che spinse la moglie nelle braccia di un ricco milanese, portandola a morire di mal francese; reso obeso da una vita via via inattiva, morì, dopo essersi risposato ed aver avuto un figlio maschio, nel 1794, mentre Pietro Verri, per venti anni operoso in alte cariche, rimaneva alla ribalta sino al 1797, anno in cui lo stroncò un colpo apoplettico durante una seduta serale, dopo aver lasciato pregevolissimi libri che testimoniano la sua apertura sociale e la facilità nello scrivere. Giulia, ancor fanciulla, era entrata in convento e tutti l'avevano dimenticata; solo a visitarla qualche volta era Pietro Verri, che, quando ella giunse a diciotto anni, sollecitò il padre a riprenderla in casa. La giovane era assai bella, aveva capelli rossi e occhi verdi. Immessa nella società bene, vi incontrò Giovanni Verri, fratello minore di Pietro, cavaliere di Malta, sfaccendato, dai tratti femminei. Giovanni divenne il cavalier servente di Giulia; erano i tempi del libero amore, che facevano chiedere da Giuseppe II, in visita ufficiale a Roma quale principe ereditario, alle dame che gli venivano presentate: «Voi fate all'amore? Ditemi, vi prego, con chi fate all'amore?» Nel 1782, quando Giulia aveva venti anni, e Pietro Manzoni quarantasei, si combinò il loro matrimonio. E' da pensarsi che il motivo principale ad indurre Pietro al nuovo vincolo, dopo sette anni di vedovanza, fosse stato il desiderio di assicurare alla famiglia la discendenza, forse sollecitato dal fratello Paolo, sacerdote. A raggiungere un accordo furono determinanti i buoni uffici di Pietro Verri, certamente preoccupato della relazione del fratello che, sfociando in un matrimonio, avrebbero compromesso il patrimonio familiare. Né qui, contro le arbitrarie affermazioni che verranno fatte più tardi, si possono avanzare dubbi sulla virilità di Pietro: il livello sociale e la notorietà delle persone con cui il Manzoni trattò la sua nuova unione fanno escludere che egli si esponesse a una meschina figura. Le nozze furono celebrate il 12 settembre 1782; il dottor Antonio Calvi rogò l'atto dotale (8); è interessante rilevare che Pietro Manzoni, «in attestato del particolare affetto e stima per la futura sposa» versò a lei 9.000 lire, il che è indice sia delle sue possibilità finanziarie che del suo tratto signorile, tanto più se il fatto è messo in confronto col comportamento di Cesare Beccaria, che, adducendo, particolari difficoltà, diede in dote alla figlia solo 4.000 scudi più il corredo di 1.000 scudi. Il matrimonio di Giulia si rivelò subito infelice; ella né diede colpa al padre e continuò a frequentare quella società di cui era figura assai rappresentativa, mantenendo i rapporti con Giovanni Verri. Qui intervengono alcuni interrogativi. La giovane era andata ad abitare nella casa sul Naviglio, dove vivevano il cognato monsignor Paolo e le cognate. Il primo e la ex monaca divennero l'incubo di Giulia. Ella scriverà, assai più tardi, il 14 marzo 1791, in una celebre lettera a Pietro Verri: «Monsignore sta nel suo Casino raffinando le sue idee e imponendone la pratica al fratello, il quale ritorna a casa, scorre tutte le stanze, e credo non ometta osservare di dietro i quadri. ... Poi l'ex monaca si prende ad ogni momento la pena di calar pian pianino le scale interne per sentire ogni cosa si dice e va poi a riferire tutto al Prelato» (9). Se tale sarà la guardia dei due cognati su Giulia a nove anni dalla celebrazione del matrimonio, non si vede perché dovesse essere stata minore all'inizio, quando la giovane sposa non aveva ancora avuto figli; non è infatti plausibile che i Manzoni, religiosamente bigotti, accettassero l'idea, disinvoltamente ammessa da taluni della buona società cittadina, di vedere entrare nella famiglia un figlio adulterino. Viene così logico supporre che Pietro seguisse la moglie nella sua vita di società, pur divenendo forse una di quelle patetiche figure che in ogni tempo sono d'obbligo nei salotti mondani. Avvalora questa ipotesi il fatto che il 1° dicembre 1791 Pietro, in un estremo tentativo di trattenere la moglie che lo vuole lasciare, presenterà al Consiglio Generale una istanza per avere l'ammissione al patriziato milanese, certamente allo scopo di soddisfare l'ambizione della consorte.

LA NASCITA Di ALESSANDRO E LE DICERIE SULLA PATERNITÀ

Alessandro nacque il 7 marzo 1785. Subito dopo messo al mondo, fu inviato a Malgrate con la balia Caterina Panzeri. Da allora sino ai venti anni la madre lo vedrà assai raramente e ben poca cura si prenderà di lui. E' comune leggere, nelle biografie di lei e del figlio, che questo suo disinteresse nasconde un sentimento di colpa, quasi il rimorso di avere avuto un figlio illegale. Osservo che generalmente, anche quando la donna mettendo al mondo un figlio non è nella legalità, quale si voglia la sua condizione, se il figlio è il frutto di un amore sentito, come sarebbe dovuto essere quello tra Giulia e Giovanni, ebbene, la madre ha gioia da quel figlio. Così non fu per Giulia. Mi sembra quindi di leggere in quel suo agire senza affetto verso il neonato, abbandonandolo praticamente a Pietro: «Eccoti, il figlio che volevi l'hai avuto; tienlo e lasciami tornare alla vita che amo». In effetti, molti indizi, e in particolare il contegno che ella tenne quando incontrò l'Imbonati, fanno pensare che, se malamente sopportava il marito, Giulia non amasse veramente neppure Giovanni, che, diciamolo pure, era quel degenerato a cui lei, reduce da una vita religiosa di monastero, aveva dato la verginità. Per tre anni, poi, dopo le nozze, Giulia non aveva concepito figli: pare quindi di concludere che ella avesse intimità con i due uomini, ambedue sopportati, senza quel vero amore che conobbe solo con l'Imbonati. Con ogni probabilità, Giulia stessa non seppe mai di chi Alessandro era figlio. Pietro pose al figlio il nome del padre suo, Alessandro, fatto che pur esso conferma la supposizione che fosse ansioso di continuare la discendenza. E' poi da notarsi come tra gli altri nomi impostigli non figuri quello del nonno Cesare, bensì Francesco, Tommaso, Antonio, presi probabilmente dai Manzoni dei rami collaterali, pure viventi nei pressi di Lecco. Tutte concomitanze che, ove Pietro avesse saputo che il figlio non era suo, avrebbero richiesto in lui una amoralità e una cinicità che sinceramente non gli si addicono. Durante la fanciullezza, Alessandro ebbe poi particolari cure dalla zia ex monaca, figura che forse l'aiutò più tardi nell'interpretare il personaggio di Geltrude. Scrive lo Stoppani: «Il Manzoni si ricordava fin negli ultimi anni della buona zia, che egli ricordava agli amici, come fossero ancora quei giorni» (10). E anche qui ci si domanda come ella potesse essere affettuosa con un piccolo bastardo. Non ci è dato sapere quando cominciarono a correre le dicerie che addebitano la paternità di Alessandro a Giovanni Verri. Ci sembra, però, di poterle riferire agli anni immediatamente precedenti la separazione di Giulia da Pietro, cioè attorno al 1790, anni dopo la nascita del figlio di Giulia. Vale qui la pena di ricordare, trascurando naturalmente quanto fu poi riportato dai moltissimi biografi, che si passarono la voce da uno all'altro senza analizzarla, gli scritti di qualche fondamento sulla questione. Si tratta, essenzialmente, del carteggio del barone Custodi, di una lettera del giugno 1808 di Gorani a Giovanni Verri, dei «Colloqui» del Tommaseo e infine di una nota di un anonimo araldista posta in calce a un manoscritto genealogico del XIX secolo. Metteremo subito da parte quest'ultima, che suona così : «Questo Alessandro era già nato, quando la Beccaria divenne concubina di Imbonati, e Giulia diceva che detto Alessandro apparteneva al cavalier Giovanni Verri, di cui fu amica alcuni anni». Ha infatti la chiara apparenza di un «sentito dire» (11). Ben più precise sono le affermazioni del Custodi. Egli dice: «Per asseveranza di Pietro Taglioretti, Sigismondo Silva, e di altri amici della Giulia Beccaria - Manzoni, il vero padre di Alessandro Manzoni fu il cavalier Giovanni Verri, che morì in Como pochi anni sono». In altro punto precisa: «Giulia Beccaria, ripugnando a vivere col marito, Don Pietro Manzoni, si era decisa a procurare il divorzio per il fondato motivo di essere egli inabile al matrimonio; ma siccome trovavasi gravida ne fu dissuasa dagli, per non pubblicare la sua vergogna; onde partorì al marito il figlio non suo, Alessandro». Prima di commentare, soffermiamoci un istante a illustrare la figura di chi scrisse queste note, redatte nel 1827 e pubblicate nel 1905 (12). Nato nel Novarese nel 1771 e impiegato nell'amministrazione municipale di Milano, Pietro Custodi, uomo di indubbia capacità intellettuale, fu violento assertore delle libertà repubblicane e, appoggiatosi particolarmente al ministro delle finanze Giuseppe Prina, divenne segretario generale e principale collaboratore di lui, salendo i gradi della burocrazia sino a diventare Consigliere di Stato. Napoleone I lo creò barone del Regno d'Italia. Si sa che nell'aprile 1814 il Prina, inviso alla nobiltà lombarda e odiato dal popolo per le riforme attuate allo scopo di raccogliere il denaro necessario a difendere il Regno, venne barbaramente linciato da forsennati raccolti allo scopo. Il Custodi, riemerso dopo il ritorno degli Austriaci quale amministratore delle finanze parmensi nel 1816, dopo un anno si ritirò nella sua villa di Galbiate, dove raccolse preziosi manoscritti e scrisse memorie, pubblicando la continuazione della «Storia di Milano» di Pietro Verri. Morì nel 1847. Sul Manzoni, oltre quanto abbiamo riportato, lasciò altre note, tutte grevi di avversione e di acredine, giungendo persino a stroncare l'opera letteraria dello scrittore; convinto anticlericale, bolla la pia metamorfosi di Giulia e del figlio, che confortati dagli «adulatori in veste nera» vivevano con i beni dell'Imbonati, precisando che «le ricche sostanze, acquistate con mezzi peccaminosi e scandalosi», anziché essere restituite alle sorelle del donatore, in indigenza, venivano impiegate «a mantener i pasti degli ipocriti consiglieri». L'odio del Custodi verso il clero è ben spiegabile in lui, nutrito dallo spirito della Rivoluzione, ma quali le ragioni del suo violento malanimo contro il Manzoni che nel 1827 era l'idolo degli intellettuali? Le rivela il Custodi stesso: «Assicurasi che Alessandro Manzoni siasi trovato tra i nobili spettatori che nel giorno 20 aprile 1814 applaudivano, su la Piazza di S. Fedele di Milano, agli sforzi de' tumultuanti, i quali finirono con l'assassinio del ministro Prina». Come si è detto, Pietro Custodi era stato pupillo del ministro assassinato e certo in cuor suo non aveva perdonato ad Alessandro, che accusa di appartenere a quei «fanatici che parteggiano per le più profane pretese papali e per l'inviolabilità e primazia del clero» addebitandogli «per carattere l'ipocrisia e l'intolleranza, le quali due immondezze morali cuopre sotto l'iride di ostentate virtù e di una vanagloriosa carità». Spiegata così l'avversione violenta del Custodi verso i Manzoni, rileviamo come egli, al tempo della nascita di Alessandro, cioè nel 1785, non solo fosse giovanissimo, appena quattordicenne, ma come la sua famiglia non appartenesse per nulla alla società Verri-Beccaria. Quanto egli scrive è quindi di seconda mano, e, come afferma egli stesso, l'informatore è il Taglioretti. Chiariamo dunque chi era costui. Nato a Lugano, ottenuto qualche successo come architetto, abbandonò presto la sua arte per entrare nella meno faticosa carriera diplomatica e venne creato incaricato d'affari della Repubblica Svizzera presso quella Italiana. Frequentò allora la coterie in cui Giulia primeggiava (13). Ascoltando il barone Custodi, si direbbe che divenne intimo amico, forse amante, di lei. Egli scrive infatti, sempre nel 1827: «Alla morte di Pietro Taglioretti, questi mostravasi inquieto dell'esito che avrebbero avuto cinque volumi, nei quali aveva fatto legare la sua corrispondenza confidenziale colla Giulia; e l'amico che l'assisteva l'assicurò che, per questa parte, morisse tranquillo, ch'egli stesso si incaricava di sottrarli alle ispezioni giudiziarie e rimetterli all'amica: il che eseguì, passandole anche in aggiunta il di lei ritratto, opera della gioventù di A. Appiani, di che essa indennizzò gli eredi col pagamento di tre doppie di Genova (14)». Assodato dunque che le rivelazioni del Custodi sono afflitte da un profondo risentimento e che le informazioni gli giungono di seconda mano da un intimo amico lasciato da Giulia per l'Imbonati e quindi portato a caricare la maldicenza verso di lei, esaminiamo se nella sostanza vi è dell'attendibile. Pietro Manzoni, come abbiamo già detto, era al suo secondo matrimonio quando sposò Giulia; se veramente egli fosse stato fisicamente incapace ne doveva essere ben conscio e bisognerebbe quindi ammettere un sordido mercato tra lui e Cesare Beccaria; ma quale vantaggio gli sarebbe derivato? Si sa che la dote di Giulia fu modestissima e che anzi Pietro le donò una notevole cifra. Onori, né potevano venirgli, né gliene vennero. Dunque? Non dimentichiamo, poi, che mentre trattava col Beccaria, a Pietro veniva offerto un altro partito (15). E' assurdo ammettere, tra persone della levatura di un Cesare Beccaria che, se fu uomo interessato e debole, fu pur sempre l'autore di «Dei delitti e delle pene», un episodio squallido quale risulterebbe accogliendo le rivelazioni del Custodi. Qualche commentatore vuole trovare una conferma al dire del Custodi nella lettera già citata di Giulia a Pietro Verri, là dove ella scrive: «Mio padre solo volse la mia infelicità; egli mi conosceva, e conosceva quello che mi destinava. Il Conte Verri ignorava tutte le particolarità». Leggendo però con serenità le precedenti frasi della lettera, è assolutamente impossibile giudicare in tal senso. D'altronde, Giulia, che nella stessa lettera afferma: «Faccio uso di quella sola cosa che nessuno può darmi né togliermi, cioè una fermezza di carattere che mi fa dire la verità sempre nello stesso tuono con chiunque io parli», non si sarebbe peritata, pur di ottenere quanto appassionatamente chiedeva, di lasciare cioè Pietro Manzoni, data la sua nuova passione per Carlo Imbonati, di scrivere apertamente, senza inibizioni qual era, del difetto del marito, nonché di farsi forte, se l'avesse potuto sostenere veramente, di aver avuto un figlio non da lui, ma dal fratello del Verri; a Pietro Verri era indirizzata la lettera. Per completare lo spinoso argomento, notiamo in ogni caso che la lettera di Giulia è degli ultimi tempi della sua convivenza con Pietro, con un uomo cioè di 55 anni che si trovava di fronte a una donna a lui costantemente ostile; che stranezza allora se, caduto ogni motivo di eccitazione, Pietro, pure nel possesso delle facoltà virili, fosse praticamente inoperante? Contro la credibilità di Pietro Custodi, comunque, già insorse il Tonelli, che rilevò «il tono vivamente polemico e le molte falsità» delle memorie inedite di lui. Al Tonelli fece eco Pacifico Provasi nello studio citato: «La prima moglie di Don Pietro Manzoni» e, con un accurato e garbato studio che riscatta la figura del padre di Alessandro, Claudio Cosare Secchi (16). Passiamo ora alla lettera del Gorani a Giovanni Verri. Egli, nell'informare l'amico del matrimonio di Alessandro Manzoni, ha un accenno alla paternità di lui. Lo scritto, però, è infirmato da tutto un tono di adulazione verso il destinatario e sembra quasi fatto per solleticarne la vanagloria. Ultima, perché anche facente parte di un manoscritto di cui fu data lettura solo nel 1928, è la testimonianza di Nicolò Tommaseo: «Anco di Pietro Verri ragiona con riverenza, tanto più ch'egli sa, e sua madre non glielo dissimulava, d'esser nepotè di lui, cioè figliuolo d'un suo fratello, cavaliere di Malta» (17). Non sembra di poter dar credito al Tommaseo. Il Giardini osserva che allo scrittore «non spiaceva un certo gusto dello scandalo e della malignità» e giudica «la frase forse avventata». Della velenosità del Tommaseo, peraltro, parlano tutti i commentatori di lui, non escluso il Flora. A sostegno dell'ipotesi che Alessandro sia figlio di Giovanni Verri, qualche commentatore giunge infine ad affermare che alcune particolarità fisiologiche di lui e la prematura morte delle figlie fossero da addebitarsi al mal francese ereditato da Giovanni Verri. Ciò denota solo una grande ignoranza di medicina: la lue può infatti essere trasmessa al figlio solo da madre luetica; il padre non può passargli il male. Ora, si sa che Giulia ebbe ottima salute sempre e che morì anziana. In ogni caso, se anche fosse stata luetica per il contatto con Giovanni, contatto che in determinate fasi del male poteva essere contagioso, ella avrebbe potuto contagiare il nato anche avendolo da persona sana quale il marito Pietro. Le forme che afflissero il Manzoni erano nevrotiche, mentre le figlie morirono di tisi, male assai comune in quel tempo, tanto più che Enrichetta, spentasi poi di estenuazione, aveva avuto troppi figli e in continuazione, e condotto quell'esemplare vita che la fa la più patetica e commovente figura della famiglia Manzoni. La conclusione che mi è sembrata più naturale e che credo la più attendibile, vagliando quanto ho analizzato e mettendolo anche in relazione alla reazione che segui poi da parte di Alessandro e di cui parlerò, è che Giulia stessa, nella realtà, non poteva affermare chi fosse il padre del piccolo: certamente ella, al tempo del concepimento, conviveva e con Pietro Manzoni, detestato, e con Giovanni Verri, sopportato, come già ho scritto: ella, più tardi, quando fu portata a una più corretta visione della vita dalla saggezza di Carlo Imbonati, suggerì al figlio la violenta ripulsa delle malignità sulla sua nascita prorompente dai versi che egli scrisse.

LA VOCE DEI PROTAGONISTI

Ascoltiamo, dunque, i diretti interessati. Di Pietro sappiamo che egli fece il possibile per trattenere la moglie, quando ella stava per legarsi all'Imbonati: ciò è prova che egli ancora l'amava. Di lui leggiamo solo quanto egli scrisse nel suo testamento. Nel nominarlo suo erede universale, egli raccomanda ad Alessandro «di non iscordare le massime, e i principii, ne' quali ho procurato di farlo educare, e alla di cui conosciuta amorevolezza, e gratitudine, e all'amore, che mi ha sempre dimostrato affido l'immancabile adempimento dei legati». In un'aggiunta, poi, egli dispone: «Alla mia signora moglie lascio due pendenti di diamanti, in contrassegno della mia stima, e memoria che le porto» (18). Ben più distaccato Pietro sarebbe stato con un figlio che avesse saputo non essere suo; certo, poi, avrebbe del tutto scordato una moglie che, oltre ad averlo fatto cagione di beffa e ad averlo abbandonato, gli avesse dato un figlio di altri: anche la nobiltà d'animo non può non avere dei limiti! Nulla, sull'argomento, abbiamo da Giulia: solo quanto pretendono di riferire un amante abbandonato e i maligni della società che ella frequentava. Direttamente, possiamo dire che la sua voce si fa udire solo attraverso quella del figlio, quando questi, ritrovata finalmente la madre e soggiogato dalla personalità di lei, commemorerà coi suoi versi l'Imbonati. Non voglio poi trascurare un piccolo indizio, che, pur tenue, può avere qualche valore. Esiste un ritratto di Alessandro Manzoni giovinetto, disegnato da Gaudenzio Bordiga e autenticato da Giulia Beccaria con le parole: «Ritratto del mio amato figlio Alessandro Manzoni di anni 17». Quando Alessandro aveva quella età, viveva ancora con il padre, mentre la madre si trovava all'estero con l'Imbonati. Lo scritto di Giulia sul disegno dovette essere contemporaneo alla sua stesura: ella indica infatti: «di anni 17» e non «a 17anni». Ci sembra significativo il fatto che ella scrive: Alessandro Manzoni, e non solamente: Alessandro. Ultima, e non certo la meno importante, è la parola di Alessandro. Egli si intrattiene sull'argomento una sola volta, quando, giovanissimo, ventenne, appena giunto a Parigi e trovata la madre in lacrime per la morte di Carlo Imbonati, compone l'ode: «In memoria di Carlo Imbonati». I versi: «Né l'orecchio tuo santo io vo' del nome macchiar de' vili, che oziosi sempre, fuor che in mal far, contro il mio nome armaro l'operosa calunnia» (19) sono dai commentatori riferiti proprio alle malignità sulla sua nascita. E' dunque Giulia che parla con l'accento del figlio: smentisce quanto poi dirà il Tommaseo, come smentisce e il Taglioretti e il Custodi e gli altri, allora tutti ancora vivi. Qualche biografo incolpò Alessandro di poco amore verso il padre, dimostrato in occasione della di lui morte. La lettera che egli scrisse all'amico Pagani da Brusuglio il 24 marzo 1807, precisando che «un motivo ben doloroso, il desiderio cioè di vedere mio padre che era gravemente malato, desiderio che, purtroppo, non ho potuto soddisfare, giacché non lo trovai vivo, mi ha chiamato a Milano», e quella successiva datata il 30 marzo da Torino al Fauriel, in cui aggiunge: «Mais à notre arriva on me dit queje ne pouvais pas avoir la consolation de voir mon pére», smentiscono l'accusa (20). Si dà poi addebito ad Alessandro di aver venduto la villa del Caleotto appartenente al padre, quasi a prova di mancanza di affetto verso d lui e verso gli antenati. E' però risaputo che egli la vendette per necessità finanziarie, spinto dalla madre, e che, da vecchio, rimpiangeva di essersene disfatto: «Oh come sono pentito di avere venduto quel luogo che avevo a Lecco!» (21). Non mancano riferimenti che riconducono Alessandro alla sua famiglia, primo fra tutti il fatto che egli al suo primogenito diede il nome del padre. Un certo orgoglio del suo nome e delle sue prerogative, nonostante la sua professione di umiltà, che, si noti bene, è sempre voluta e non istintiva, lo si ritrova qua e là. Un certo Samuele Cattaneo di Primaluna, ammiratore suo, saputo che in Barzio nel demolire una vecchia casa del casato si era scoperto uno stemma della famiglia, lo acquistò per farne dono allo scrittore. Questi gradì l'omaggio e rispose con una lettera in cui scrisse: «Non so come degnamente ringraziarla del gentile pensiero di procurarmi un antico stemma della mia famiglia...» (22) Agli amici, poi, riferendosi a chi per adulazione gli attribuiva titoli non dovuti, ebbe a dire che preferiva vedere il suo nome preceduto soltanto da «un strasc d'un Don». Il «Don» era l'attributo che spettava ai Manzoni, ed egli con tutta la sua modestia, non lo rifiutava (23).

CONCLUSIONI

Giunti a questo punto ed osservato che dai ritratti dei personaggi della vicenda non è possibile cogliere tratti di rassomiglianza fisica tali da consentire qualche deduzione, pensiamo opportuno soffermarci sui caratteri, il cui esame può darci qualche aiuto, tenue che sia. Giulia è figura tipicamente milanese : è vivace, sempre attiva, accentra tutto intorno a sé; da giovane ama la società, crede negli amici, la vita brillante l'attrae e l'esalta; fatta matura, dedica tutta se stessa all'uomo amato; anziana e vecchia, è la padrona di casa, intorno alla quale gravita e gira l'intera famiglia. Giovanni Verri è un uomo superficiale, non ha nessuna ricchezza interiore, segue principi accolti solo perchè confacenti a chi ama godere; con l'età miseramente degrada. Cesare Beccaria è un pigro; negli anni di gioventù, sotto la spinta di altri, in una breve felice parentesi, utilizza il suo grande ingegno, poi si adagia, si involve in forme quasi morbose. Alessandro Manzoni, pur ereditando da lui e dalla madre la ricchezza della mente, è di tutt'altro carattere: impreparato alla vita cittadina, è essenzialmente un solo; vive con se stesso e con la natura: ama questa non per insegnamento, che in effetti da nessuno ricevette, ma per istinto; l'ama nel suo aspetto più vasto, e le splendide descrizioni del suo romanzo ne sono toccante prova; l'ama nelle piccole cose tangibili, quando passa le ore con la figlia a curare i fiori e gli alberi nel giardino di Brusuglio. Se da giovane, appena trovata la madre e quando per la prima volta si sposa, ha momenti di infatuazione, da uomo il suo carattere si fa pesante. Da vecchio ama avere accanto persone con cui parlare, con cui riandare i fatti passati e discutere opinioni. E', insomma, tipicamente montanaro! Vi è in lui quell'attaccamento quasi morboso alla natura che viene dal sangue, che tanto più è sentito quanto più i richiami esteriori tentano di annullarlo; egli ha lo spirito critico e contraddittore dei valligiani del Lario, ricorda quei vecchi che, seduti su un tronco, stanno a discutere del presente e del passato. Se, poi, ci si sofferma sulla sua figura di scrittore, che, in sostanza, scrisse un libro solo, affinandolo con caparbietà sino a portarlo alla perfezione che lo rende il capolavoro della letteratura italiana, allora non si può non pensare alla mania del perfezionismo che ha chi di noi, genuina gente del Lario, quando prende la penna, e quasi a fatica, mai soddisfatto, passa i suoi scritti alle stampe. Osservazioni, si dirà, di valore molto discutibile; mìa, sinceramente, sono quelle che più ci portano a concludere che nel sangue di Alessandro vi era eredità montanara; né i richiami della fanciullezza solitaria nelle terre del Lecchese sono sufficienti da soli a giustificare una forma mentale che tanto era radicata in lui. Non pretendo certamente, con questo scritto, di provare l'asserto del titolo: non possediamo purtroppo l'esame del sangue, e come si sa, neppur questo, se necessario, sarebbe sufficiente! Mi permetto tuttavia di concludere che sulla bilancia della verità il peso che la farebbe pendere favorevolmente a me non è per certo inferiore a quello che sta a giustificare chi, indulgendo al cattivo gusto di tutti i tempi e soprattutto di oggi, si permette, non solo di affermare, ma di scrivere addirittura in argomento libri romanzati che, anziché divulgare la conoscenza del Manzoni, la immiseriscono e la mortificano. Si accolga, al massimo, la voce del dubbio, come la accolse quell'uomo di gusto che fu il Gallarati Scotti, e si ricordi che il Manzoni insegnò, su certi argomenti, una signorile riservatezza, quando, accantonando le pagine faticosamente scritte, riassunse tutto in una frase: «la sventurata rispose». Se poi, e cosi ritengo fermamente, le maldicenze su Pietro Manzoni non ebbero altra motivazione che l'amore al pettegolezzo della società dell'ultimo 1700 e il successivo piacere dei commentatori sempre pronti ad accogliere e a ingigantire le male voci, ebbene, Pietro Manzoni e con lui la sua famiglia già ebbero ed hanno la migliore rivalsa: loro è il nome che Alessandro rese celebre nel mondo.

Pietro Pensa

NOTE

(1) Archivio della Curia Arcivescovile di Milano. Stato di anime nella raccolta di documenti della Pieve di Primaluna.
(2) Processo a stampa in A.S.M, Vedi anche: Confische, 1800 sempre in A.S.M.
(3) Giuseppe Arrigoni: «Le famiglie valsassinesi», Manoscritto già in possesso dei Rossi di Barzio, ora scomparso. Andrea Orlandi: «Le famiglie della Valsassina», Lecco 1932. Felice Calvi: «Famiglie notabili milanesi», Milano 1875-1885.
(4) Francesco Provasi: «La prima moglie di Don Pietro Manzoni», Lecco 1938.
(5) A.S.M. Catasto di Maria Teresa.
(6) Cantù Cesare: «Reminiscenze manzoniane».
(7) Francesco Provasi: «La prima moglie di Don Pietro Manzoni», Lecco 1938, già citato.
(8) Rogito conservato nella Sala Manzoniana della Biblioteca di Brera in Milano.
(9) Novati: «Il matrimonio Beccaria - Manzoni», in «Il libro e la stampa», Milano 1912.
(10) Antonio Stoppani: «I primi anni di Alessandro Manzoni».
(11) Raccolta di alberi genealogici delle Case nobili di Milano, conservata nella libreria Visconti Ermes.
(12) Note pubblicate da L. Auvray in «Bulletin italien», t.V., pag. 362, Bordeaux 1905.
(13) Bollettino storico della Svizzera italiana, 1915, pag. 31: «Pietro Taglioretti, Giulia e A. Manzoni».
(14) L. Auvray: citato.
(15) F. Novati: «Il matrimonio Beccaria-Manzoni», in «Il libro e la stampa», Milano 1911, già citato.
(16) Claudio Cesare Secchi: «Don Pietro Antonio Manzoni», in «Il bene», Natale 1955.
(17) «Colloqui col Manzoni» a cura di Cesare Giardini, Milano 1944.
(18) Testamento di Don Pietro Manzoni conservato nel Centro di Studi manzoniani di Milano.
(19) Alessandro Manzoni: «In memoria di Carlo Imbonati», Parigi 1806.
(20) Carteggio manzoniano.
(21) «Colloqui col Manzoni», citato.
(22) Attilio Maroni: «Il Manzoni e i Manzoni», Introbio, 1967.
(23) Ìbidem.