Da San Marco a San Lorenzo per poter cogliere "ol canof"

Centro di documentazione e informazione dell'Ecomuseo delle Grigne

Pietro Pensa, Da San Marco a San Lorenzo per poter cogliere "ol canof" in L'Ordine, 27.4.1979.

Le nostre nonne andavano famose per la loro abilità nel filare e nel tessere la canapa con la quale confezionavano abiti che ora, complice il «revival» sembrano tornare di moda

Si è ormai perduta la memoria della straordinaria abilità delle nostre donne del Lario che per secoli e secoli, addirittura da tempi preromani come provano 1 reperti archeologici, tramandandosene l'arte da madre in figlia, hanno vestito la loro gente, producendo la materia prima e trattandola sino alla confezione degli abiti.

Affaccendate ad allevare i figli, ad accudire al bestiame, a seguire i lavori agricoli quando gli uomini erano assenti in foresteria, talvolta vere e proprie bestie da soma, trovavano il tempo, quasi fosse riposo, per compiere quell'autentico miracolo, senza, infine, dimenticare la loro vocazione femminile che le portò ad ideare bellissimi costumi da sposa e da festa, che le loro lontane pronipoti indossano oggi con civetteria nelle sagre di folclore.

Il ciclo del canof, fibra fondamentale, aveva inizio il 25 aprile. In quel giorno, dedicato a San Marco, si seminava la canapa nei campi più umidi, in genere sui brevi ripiani vallivi. Il seme veniva gettato a spaglio, ossia a manciate abbondanti in modo che le pianticine, crescendo, fossero spinte verso l'alto: Fatt in scià, fradel, se te völ che vegna lung! proverbio che sostituiva quello detto per la seminagione normale: Fatt in là, fradei se te völ che vegna bell!

Una pulitura dalle erbe che potevano soffocare le pianticelle in germoglio era la sola operazione necessaria durante la crescita. Ad agosto, la canapa incominciava a mettere il fiore. Pianta dioica, ossia a doppio sesso, l'individuo maschile, staminifero, denominato col termine «femena»; mentre designato come mas'c era l'individuo femminile, pistillifero.

Subito dopo eseguita la seconda fienagione nei prati, a San Lorenzo, si provvedeva a sradicare gli steli femena che genericamente erano anche detti ol canof. Riunitili in mazzetti, si distendevano a macerare sulla brüghe, ossia sui pendii ripidi sotto i campi stessi in cui erano cresciuti. Il declivio impediva lo stagnare delle acque, mentre l'azione della rugiada e delle pioggie alternata a quella del sole faceva rammollire la parte legnosa. Nel campo rimanevano a crescere ancora sino alla maturazione fascetti di canapa mas'c, o canevon, per ottenere la canevosa, ossia i semi destinati al ciclo stagionale successivo. A fine settembre venivano strappati anche questi ultimi steli e messi a macerare con gli altri. Più grossi dei precedenti, avrebbero dato fibre resistenti, adatte all'orditura.

In ottobre, terminata la raccolta delle castagne, le donne raccoglievano i fascetti macerati, li univano in covoni conici, legati stretti in alto ed allargati a semicerchio alla base, drizzandoli a mo'di capanni a breve distanza l'uno dall'altro, in luoghi aperti, presso i villaggi. Accendevano con legnetti un poco di fuoco nel mezzo di ciascuna base, in modo che l'azione del fumo e del calore rendesse ancora più tenera la corteccia. L'operazione era delicata: il fuoco doveva essere tenuto semisoffocato, per impedire che si propagasse ai covoni: una delle donne con una bacchetta in mano teneva lontani i ragazzetti che tentavano di raggiungere i covoni per abbatterli con una spinta e farli incendiare.

Dopo un'ora di fuoco, nel luogo aperto stesso, si procedeva a spezzettare la parte legnosa con un attrezzo chiamato gramolle, ed anche frantoi, costituito da un longherone orizzontale di legno sostenuto da quattro gambe inclinate, aperto ad U verso l'alto cosi da permettere di entrarvi a un lungo coltello di legno incernierato ad un estremo del longherone stesso e munito di una impugnatura. Ponendo trasversalmente gli steli di canapa e facendoli scorrere con la mano sinistra in successivi avanzamenti, si rompeva la corteccia col coltello.

Ciò fatto, con la spadole, sorta di spatola pure di legno, si battevano gli steli così divenuti flessibili su di una asticella inclinata: il rest, ossia le particelle di scorza ancora rimaste attaccate volavano attorno in un gran polverone.

Su ol spinac, asse a cui erano infisse in cerchi concentrici punte di ferro lunghe otto centimetri, più fitte per ol canof e più rade per ol canevon, tenuto inclinato tra terra e ginocchia della donna seduta, si passavano i fasci di fibre, separando il filo lungo da la stope che restava attaccata alle punte dando uno scarto destinato a essere pur esso raccolto per altra utilizzazione.

Dopo tale operazione, la canapa appariva come una matassa di capelli biondi chiarissimi. Attorcigliatala a trecce, le matasse venivano chiamate Egl'eez.

Con l'arrivo dei mesi di tardo_autunno e di inverno si poteva cosi procedere alla finatura. Veniva utilizzata una rocca, chiamata roche de la botige, lunga bacchetta di legno che all'estremità era tagliata a spicchi, tra i quali veniva piantato un cuneo, ravvicinandogli attorno gli spicchi stessi in modi da creare una rigonfiatura. Quasi sempre, la rocca portava degli intagli artistici, motivo di civetteria per le donne.

Attorno alla gonfiatura si avvolgevano egl'eez, trattenendoli col rocaröl specie di coperchio.

Nell'operazione di filatura, effettuata col fuso di legno, traendo la fibra e facendola avvolgere a questo con una rotazione, le donne erano abilissime. Durante il lavoro masticavano ol biscoch, una castagna secca indurita al forno, per produrre saliva necessaria alla manipolazione della fibra.

Quale garbo e quale civetteria nel loro masticare, però al confronto del ruminare smodato delle ragazze moderne alle prese con ìa cicca americana.

In una sera, ogni donna riusciva a filare tre fusi. Non lasciavano la stalla, in cui si raccoglievano d'inverno, se non dopo aver prodotto tale quantità di filato. E raccontavano che due vecchie, non avendo alla mezzanotte del giorno precedente la festa di Sant'Antonio patrono del paese terminato il terzo fuso, mentre tutti, attenti alle prescrizioni religiose, avevan lasciato il lavoro ritornandosene alle case, erano rimaste a finire la bisogna, canterellando: Sant'Antoni, Sant'Antonà i me tri fusa vöi filà, vöi filà.

Quando, apertasi la porta, una filatrice alta, con il fazzoletto da capo abbassato sugli occhi, entrò e si mise tra di loro facendo scendere e salire vertiginosamente la rocca. Le due donne, prese da un gran spavento, abbassati gli occhi, videro che dalla sottana della strana compagna uscivano due adunche zampe di uccello. Compresero che si trattava di un diavolo, lasciarono cadere la rocca e uscirono di furia dalla stalla, giurando che mai più avrebbero contravvenuto al rispetto festivo.